Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26200 del 18/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 18/11/2020, (ud. 23/10/2019, dep. 18/11/2020), n.26200

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – Consigliere –

Dott. SAIEVA Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 16802/2014 proposto da:

CIB ENGINEERING RESTAURO COSTRUZIONI s.r.l., rappresentata e difesa,

dall’avv. Domenico Campanaro e dall’avv. Giuseppe Delle Foglie,

entrambi del Foro di Bari, con domicilio eletto in Roma, Via

Cosseria, n. 2, presso lo studio del Dott. Alfredo Placidi;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro-tempore,

rappresentata e difesa ope legis dall’Avvocatura Generale dello

Stato, presso i cui uffici è domiciliata in Roma, Via dei

Portoghesi, n. 12;

– controricorrente –

nonchè

MINISTERO DELL’ECONOMIA E DELLE FINANZE, in persona del Ministro

pro-tempore;

– intimato –

Avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale della

Puglia n. 88/10/13 pronunciata il 14.3.2013 e depositata il

16.5.2013.

Udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23.10.2019 dal Consigliere Giuseppe Saieva.

 

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1. La CIB Engineering Restauro Costruzioni S.r.l., ha proposto ricorso affidato a due motivi contro l’Agenzia delle Entrate per la cassazione della sentenza della Commissione Tributaria Regionale della Puglia n. 88/10/13 pronunciata il 14.3.2013 e depositata il 16.5.2013, concernente l’impugnativa dell’avviso di accertamento induttivo relativo ai redditi recuperati a tassazione per l’anno 2004, con cui le erano stati attribuiti redditi per IRES, IRAP ed IVA, oltre interessi e sanzioni per complessivi Euro 155.397,00 Euro.

2. Con la sentenza impugnata, la C.T.R. della Puglia, aveva confermato la decisione della C.T.P. di Bari, ritenendo che la società, pur contestando il metodo di accertamento e pretendendo di fare risalire ad anni precedenti la emissione di talune fatture, non aveva fornito alcuna documentazione idonea a comprovare le proprie affermazioni.

3. L’Agenzia delle entrate resiste in giudizio con controricorso contestando le deduzioni della società.

4. Il ricorso è stato fissato per la camera di consiglio del 23.10.2019, ai sensi dell’art. 375 c.p.c., u.c., e art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. Preliminarmente, va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti del Ministero dell’economia e delle finanze, poichè privo di legittimazione passiva in quanto il giudizio di legittimità è stato introdotto successivamente al 1 gennaio 2001, giorno in cui è divenuta operativa l’istituzione dell’Agenzia delle entrate, alla quale, per i giudizi introdotti dopo detta data, spetta in via esclusiva la legittimazione ad causam e ad processum (per tutte, Cass., Sez. U., 14.2.2006, n. 3118).

2.1. Con il primo motivo la società ricorrente deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., commi 3 e 5; violazione e falsa applicazione della L. n. 44 del 1999, art. 20, commi 1, 3, 4 e 7; violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e art. 116 c.p.c., insufficiente c/o carente motivazione”, lamentando che i giudici di merito, in violazione delle disposizioni normative citate, avevano respinto la richiesta di sospensione del processo tributario L. n. 44 del 1999, ex art. 20, formulata dalla ricorrente quale beneficiaria di elargizione ai sensi e per gli effetti del medesimo testo di legge.

2.2. Con il secondo motivo deduce “violazione e falsa applicazione dell’art. 360 c.p.c., commi 3 e 5; violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 comma 1 lett. d); violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e art. 116 c.p.c.; insufficiente e/o carente motivazione”, lamentando che si era proceduto arbitrariamente alla ricostruzione induttiva dei redditi societari e che i giudici di merito non avevano tenuto alcun conto della impossibilità per la società di documentare le proprie ragioni dal momento che stessa era stata privata di tutta la documentazione contabile dall’amministrazione finanziaria; fatto totalmente ignorato dai giudici di merito che avevano gravato ugualmente la contribuente di un onere probatorio che non era in grado di assolvere.

3. Entrambi i motivi non meritano accoglimento. La società ricorrente infatti sovrappone indebitamente violazioni di legge e vizi di motivazione, coacervando varie censure non esattamente determinate nel loro contenuto, nè adeguatamente mirate sulla ratio decisoria adottata dal giudice di appello. Essendo comunque possibile procedere all’esame separato delle varie censure, si appalesano infondate le asserite violazioni di legge ed inammissibili le censure motivazionali.

3.1. Quanto al primo motivo va osservato che la L. 23 febbraio 1999, n. 44, art. 20, comma 2, prevede che “a favore dei soggetti che abbiano richiesto… l’elargizione prevista dagli artt. 3, 5, 6 e 8, i termini di scadenza, ricadenti entro un anno dalla data dell’evento lesivo, degli adempimenti fiscali sono prorogati dalle rispettive scadenze per la durata di tre anni”; dallo stesso tenore letterale della norma, si evince che detta proroga, prevista unicamente per gli adempimenti fiscali, ha esclusivamente ad oggetto i termini che sono scaduti o che scadono entro un anno dalla data dell’evento lesivo (v. in senso conforme, Cass. V Sez., sentenze n. 16932 e 16933 del 19.8.2015, nonchè Cass. n. 1613/2009 e n. 1496/2007).

3.2. Conseguentemente non appare censurabile la decisione dei giudici di appello che correttamente hanno disatteso la richiesta di sospensione del giudizio formulata dalla società, ritenendo non applicabile al processo tributario la sospensione dei termini prevista dalla citata L. n. 44 del 1999, art. 20, che si riferisce solo ai termini di scadenza degli adempimenti fiscali (Agenzia delle Entrate, Equitalia, Inps, Inail ed Edilcasa), ma che certamente non è riferibile ad ipotesi di sospensione del processo.

3.3. Nel caso di specie l’adozione del metodo induttivo da parte dell’ente impositore è del tutto conforme alle disposizioni normative fiscali che prevedono il ricorso a tale tipo di accertamento nel caso in cui, come quello in questione, non venga presentata la dichiarazione annuale dei redditi.

3.4. Invero, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, nel caso in cui vi sia stata una omessa dichiarazione da parte del contribuente, la legge abilita l’Ufficio a servirsi di qualsiasi elemento probatorio ai fini dell’accertamento del reddito e, quindi, a determinarlo anche con metodo induttivo, non escludendo l’utilizzazione, in deroga alla regola generale, di presunzioni semplici (Cass. n. 15134/2006; n. 3115/2006; n. 23480/2004). A fronte dell’omessa dichiarazione dei redditi, il potere-dovere dell’Amministrazione, del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comporta, infatti, che, sulla base dei dati e delle notizie comunque raccolti o conosciuti, l’ente impositore è abilitato a determinare il reddito complessivo della società, con facoltà di fare ricorso a presunzioni cosiddette “supersemplici”, ossia a presunzioni prive dei requisiti di gravità, precisione e concordanza. Peraltro, com’è pacificamente ritenuto da questa Corte, allorchè il fisco proceda alla determinazione induttiva dei ricavi, si determina un’inversione dell’onere della prova, essendo a carico del contribuente la prova degli elementi contrari intesi a dimostrare che il reddito non è stato prodotto o è stato prodotto in misura inferiore a quella indicata dall’ufficio (Cass. n. 25704/16; n. 15027/14; n. 23115/13). Inoltre, sebbene l’Amministrazione finanziaria in sede di accertamento induttivo sia tenuta a procedere alla ricostruzione della situazione reddituale complessiva del contribuente, tenendo conto anche delle componenti negative del reddito, ciò nondimeno occorre che esse siano comunque “emerse dagli accertamenti compiuti, ovvero siano state indicate e dimostrate dal contribuente” (Cass. n. 25317/14; n. 5192/11; n. 3995/09), in tal modo trovando conferma che grava sul contribuente l’onere di provare, in coerenza con il principio enunciato dall’art. 2697 c.c., i fatti modificativi della pretesa esercitata dall’Ufficio mediante l’allegazione degli elementi reddituali in grado di incidere negativamente su di essa, senza che in ciò egli possa sperare di essere sostituito da un apprezzamento discrezionale operato d’ufficio dal giudice, dato che anche nel giudizio tributario il giudice è vincolato a pronunciare la propria decisione iuxta alligata et probata (Cass. n. 24778/2015).

3.5. Quanto poi alla doglianza relativa alla impossibilità di documentare le proprie controdeduzioni, in mancanza della documentazione acquisita dall’ufficio finanziario; doglianza che i Giudici di appello avrebbero totalmente ignorato, a fronte dell’eccezione della controricorrente che deduce l’assoluta novità della questione, mai sollevata dalla società in appello, non può che dichiararsi l’inammissibilità della stessa per violazione del divieto di introduzione di eccezioni nuove e comunque per difetto di autosufficienza.

3.6. In base al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, sancito dall’art. 366 c.p.c., infatti, qualora il ricorrente censuri la sentenza di una commissione tributaria regionale, è necessario, a pena di inammissibilità, che il ricorso riporti testualmente le censure formulate con l’atto di appello o quanto meno ne riassuma il contenuto al fine di consentire a questa Corte, esclusivamente in base al ricorso medesimo, la verifica necessaria per escludere (o meno) la novità della questione sollevata (Cass. n. 2928 del 2015; n. 9536 del 2013).

3.7. Infine va disattesa in quanto inammissibile l’asserita violazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, inserita in entrambi i motivi di ricorso, atteso che il testo ormai vigente della norma non è più applicabile dopo l’11.9.2012, nel caso in cui il ricorrente, com’è nel caso di specie, censuri l’omesso esame di punti o questioni anzichè uno specifico “fatto” controverso e decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente (Sez. Unite, Sentenza n. 8053 del 7.4.2014).

4. Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al rimborso delle spese di giudizio sostenute dall’Agenzia delle Entrate che liquida in 7.800,00 Euro, oltre spese prenotate a debito.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del dello stesso art. 13, comma 1 bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 23 ottobre 2019.

Depositato in Cancelleria il 18 novembre 2020

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