Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26175 del 06/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 06/12/2011, (ud. 30/09/2011, dep. 06/12/2011), n.26175

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BERNARDI Sergio – Consigliere –

Dott. VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25403/2006 proposto da:

IMMOBILIARE ASTRA SRL in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEGLI SCIPIONI 268-A,

presso lo studio dell’avvocato BOZZI GIUSEPPE, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato BOZZI ALDO, giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3010/2005 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/07/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

30/09/2011 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito per il ricorrente l’Avvocato BOZZI, che ha chiesto

l’accoglimento e deposita nota spese;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

BASILE Tommaso, che ha concluso per l’inammissibilità in subordine

rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con sentenza n. 14696/1997, passata in giudicato, il Tribunale Ordinario di Roma, ritenuta fondata la eccezione di decadenza D.P.R. n. 641 del 1972, ex art. 13, formulata dalla Amministrazione finanziaria, rigettava la domanda proposta da Ferronuovo s.p.a. (cui è succeduta Immobiliare ASTRA s.r.l.) volta ad ottenere il rimborso della somma di Euro 18.542,95 (lire 36.000.000) indebitamente versata all’Erario a titolo di tassa annuale sulle concessioni governative per l’iscrizione della società nel registro delle imprese per gli anni 1989-1991.

La Immobiliare ASTRA s.r.l. impugnava per revocazione la sentenza ai sensi dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), avendo ottenuto dalla stessa Amministrazione finanziaria, soltanto dopo la scadenza del termine per l’appello, copia della istanza di rimborso tempestivamente spedita.

Il Tribunale Ordinario di Roma con sentenza n. 36363/2002 dichiarava inammissibile la impugnazione in quanto: a) il documento era da ritenersi non decisivo; b) non ricorrevano i presupposti della forza maggiore o del fatto dell’avversario, atteso che la società avrebbe potuto sollecitare la esibizione del documento ex art. 210 c.p.c..

L’appello proposto dalla società era rigettato dalla Corte di appello di Roma con sentenza 4.7.2005 n. 3010 nei confronti della quale la società ricorre per cassazione deducendo tre motivi.

Ha resistito con controricorso il Ministero della Economia e delle Finanze.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. La Corte di appello di Roma ha rigettato la impugnazione ritenendo infondati i quattro motivi di gravame rilevando che:

– la istanza di rimborso datata 23.12.1991, prodotta in primo grado, era inidonea a fornire la prova della tempestiva presentazione nel termine di decadenza in mancanza della ricevuta di spedizione della raccomandata all’Ufficio postale che la società attrice bene avrebbe potuto depositare in giudizio;

– la società attrice avrebbe in ogni caso potuto attivarsi con la dovuta diligenza alla ricerca ed acquisizione della prova documentale, sia in via stragiudiziale mediante tempestiva domanda di accesso al documento ex L. n. 241 del 1990, sia nel corso del giudizio di primo grado – assolvendo all’onere probatorio ex art. 2697 c.c. – mediante richiesta di emissione dell’ordine di esibizione ex art. 210 c.p.c., comma 1;

– l’omesso esercizio della necessaria diligenza richiesta per la ricerca ed acquisizione della prova, ed il mancato tempestivo esperimento dei rimedi apprestati dal diritto amministrativo e dal processo, determinava la insussistenza del presupposto (fatto dell’avversario) di ammissibilità dell’azione di revocazione, in quanto la condotta processuale “scorretta o sleale” dell’Amministrazione finanziaria (che aveva omesso di depositare in giudizio o comunque ammettere di aver ricevuto la istanza di rimborso, rinvenuta – solo successivamente al giudicato – in seguito ad istanza di accesso della società) doveva ritenersi causalmente irrilevante in presenza della determinante condotta negligente della parte attrice; in ogni caso la prova della ricezione della istanza di rimborso trasmessa alla PA non poteva considerarsi decisiva atteso che tale carattere rivestiva esclusivamente la prova della data di spedizione della raccomandata;

– il diritto al rimborso della tassa indebitamente pagata derivava al diritto comunitario ma il giudicato sfavorevole della sentenza n. 14696/1997 e la inammissibilità della domanda di revocazione precludevano il riconoscimento della pretesa azionata.

2. la società ricorrente ha censurato la sentenza di appello con tre motivi ciascuno distinto in plurime censure a loro volta articolate in diversi profili:

Primo motivo:

1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), “in combinato disposto”: a) con l’art. 97 Cost., L. n. 15 del 1968, art. 10, comma 2, L. n. 241 del 1990, art. 18, commi 2 e 3, “R.D. 30 ottobre 1922, n. 1617, commi 1 e 2”; b) con gli artt. 10 e 249 Trattato CE, art. 10 dir. n. 69/335/CE, sentenze della Corte di giustizia 20.4.1993 cause riunite C71 -91 e 178-91 e 10.9.2002 cause riunite C-216/99 e C-222/99, art. 6 CEDU ed art. 1, comma 1, del Protocollo aggiuntivo CEDU, trattandosi di norme, direttive e sentenze “che implicano una specifica deroga all’onere della prova di cui all’art. 2697 c.c., ed agli artt. 115 e 116 c.p.c.”.

2 – nullità della sentenza e del procedimento in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4) – sembra – per violazione del l’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3, “in combinato disposto con l’art. 12 c.p.c., e art. 132 c.p.c., comma 1, n. 4”.

3 – omessa, insufficiente contraddittoria motivazione sui un punto decisivo della controversia.

Inoltre viene dedotta violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), “in combinato disposto con il principio fondamentale della preminenza del diritto comunitario e di disapplicazione delle norme nazionali che impediscono la diretta applicazione degli atti comunitari direttamente applicabili”.

La ricorrente assume che i Giudici di appello hanno errato nell’applicazione della regola del riparto dell’onere probatorio, in quanto, alla stregua delle norme di diritto richiamate, la Amministrazione finanziaria era, invece, tenuta ad adempiere alle necessarie ricerche del documento, astenendosi dal resistere in giudizio opponendo la decadenza del diritto, e depositando in giudizio il documento decisivo.

Secondo motivo:

1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), in combinato disposto con l’art. 112 c.p.c..

2 – nullità della sentenza in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), per violazione della corrispondenza tra “il chiesto ed il pronunciato”;

3 – vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia.

La società critica la sentenza di appello per errata valutazione del materiale probatorio avendo i Giudici affermato che la contribuente aveva omesso di depositare in giudizio la ricevuta di spedizione postale della istanza di rimborso mentre dagli atti di causa risultava che tale documento era stato allegato al ricorso amministrativo proposto avverso il silenzio-rifiuto ai sensi del D.P.R. n. 641 del 1972, art. 11, con la conseguenza che la motivazione risultava inficiata dalla erronea “presunzione” secondo cui il documento predetto era sicuramente in possesso della società.

Terzo motivo:

1 – violazione e falsa applicazione dell’art. 39 c.p.c., comma 1, n. 3), in combinato disposto con gli artt. 112, 115, 116 e 210 c.p.c..

2 – violazione della regola sulla corrispondenza tra chiesto e pronunciato;

3 – erronea valutazione dei fatti ed incongrua motivazione.

La ricorrente assume che erroneamente il Giudice di appello ha ascritto a negligenza della contribuente l’omessa richiesta di esibizione ai sensi dell’art. 210 c.p.c., ovvero la mancata presentazione della istanza di accesso ex L. n. 241 del 1990, nel corso del giudizio di merito, in quanto tali richieste avrebbero dovuto essere considerate implicite alla stessa domanda di condanna al rimborso delle somme indebite proposta con l’originario atto di citazione.

3. Venendo all’esame di motivi di ricorso, occorre rilevare preliminarmente che il ricorso per cassazione è stato proposto avverso sentenza di appello confermativa della decisione di prime cure pronunciata nel giudizio di revocazione ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), definito con rigetto della domanda per insussistenza del presupposto della decisività del documento e della riconducibilità causale dell’impedimento alla produzione dello stesso al “fatto dell’avversario”.

Il giudizio revocatorìo, pertanto, si è arrestato alla fase rescindente non essendo stata ritenuta “rescindibile” attraverso il mezzo di impugnazione straordinario la sentenza passata in giudicato che aveva dichiarato la decadenza della società dal diritto al rimborso delle somme versate a titolo di tassa di concessione governativa per l’iscrizione nel registro delle imprese negli anni 1989-1991, prevista dal D.L. 19 dicembre 1984, n. 853 conv. in L. 17 febbraio 1985, n. 17, e successive modifiche, normativa ritenuta in contrasto con l’ordinamento comunitario in quanto violativa dell’art. 10 della direttiva del Consiglio CEE 17.7.1969 n. 335 e della pronuncia interpretativa resa dalla Corte di Giustizia in data 20.4.1993 in causa Ponente Carni (cfr. Corte Cass. 1^ sez. 28.3.1994 n. 2992; id. SU 12.4.1996 n. 3458), con effetto vincolante per il giudice italiano tenuto a disapplicare la norma difforme di diritto interno (Corte cost. sent. n. 168/1991).

3.1 Tanto premesso, rileva il Collegio che i vizi di legittimità dedotti con il primo motivo investono esclusivamente il merito del rapporto tributario (id est l’accertamento del diritto sostanziale alla restituzione dell’imposta indebita), l’esame del quale può avere ingresso soltanto nella successiva – eventuale – “fase rescissoria” del giudizio revocatorio, e non anche, invece, le statuizioni della sentenza di appello che hanno definito la “fase rescindente” del medesimo giudizio (inerente all’accertamento della sussistenza dei presupposti di revocabilità della sentenza ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3). Gli argomenti critici sviluppati dalla ricorrente ai paragr. 22-52 del ricorso, a supporto del motivo, nonchè i quesiti formulati con richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia CE, sono infatti rivolti a denunciare la asserita omessa valutazione da parte dei Giudici di merito:

1 – della violazione dell’obbligo di lealtà ed imparzialità della PA convenuta in giudizio (fondato sull’art. 97 Cost.) nonchè dell’obbligo di ricerca e deposito in giudizio del documento (istanza di rimborso trasmessa con raccomandata) che è risultato successivamente essere in suo possesso (fondato sul disposto della L. 4 novembre 1968, n. 15, art. 10, commi 2 e 7, – vigente al tempo – e della L. 7 agosto 1990, n. 241, art. 18 commi 2 e 3, che fanno divieto alla PP.AA. di pretendere dal privato documenti già in loro possesso);

2 – della violazione dell’obbligo derivante dall’ordinamento comunitario (art. 10 – ex art. 5 – Trattato CE) e dal diritto internazionale (art. 6 comma 1 CEDU – giusto processo – ed art. 1 Protocollo addizionale, riconosciuti quali principi generali del diritto comunitario dal l’art. 6, comma 2 di Trattato sull’Unione Europea) e gravante sulla Amministrazione pubblica di non ostacolare mediante il proprio comportamento processuale (resistenza in giudizio temeraria, proposizione di eccezione di decadenza infondata, omesso deposito di documenti in suo possesso) la attuazione del diritto comunitario (nella specie la attuazione della direttiva n. 335/1969 che imponeva la disapplicazione della norma impositiva ed il rimborso delle somme indebite) e di non comprimere ingiustificatamente, in contrasto con il “principio di legalità”, i diritti fondamentali (tra cui il diritto di credito) dei privati;

3 – della modifica imposta dalle norme sopra richiamate al criterio di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 2697 c.c., norma che, nei giudizi in cui è parte una Pubblica Amministrazione, deve interpretarsi – conformemente alla normativa nazionale e sovranazionale – nel senso di sottrarre il privato dall’onere della prova di atti o fatti attestati in documenti in possesso della PA;

4 – della esistenza della prova documentale, acquisita in seguito al procedimento disciplinato dalla L. n. 241 del 1990, art. 25, attestante la tempestiva presentazione della istanza di rimborso delle somme corrisposte a titolo di tassa per gli anni 1989-1991 entro il termine di decadenza di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 641, art. 13, comma 2.

I predetti argomenti svolti a supporto del motivo di ricorso concernono tutti vizi inerenti alla sentenza di merito passata in giudicato – che ha regolato il rapporto tributario controverso disconoscendo il diritto al rimborso -, venendo in particolare la ricorrente a denunciare la scorretta applicazione della regola dell’onere probatorio – come interpretata dalla giurisprudenza di legittimità alla stregua della normativa nazionale e comunitaria – fatta da quel Giudice, mentre trascurano il punto decisivo della pronuncia emessa all’esito della fase rescindente del giudizio revocatorio che – diversamente da quanto opinato dalla ricorrente – non va individuato nell’erroneo assunto – peraltro neppure affermato dalla Corte d’appello – secondo cui il Ministero era legittimato a resistere in giudizio senza avere alcun obbligo di deposito dei documenti in suo possesso, quanto piuttosto nella ritenuta “indifferenza” causale della (asseritamente scorretta) condotta processuale della PA, tenuta in quel giudizio di merito, rispetto al presupposto normativo dell’impedimento della prova per “fatto dell’avversario”, al quale l’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), subordina la revocazione della sentenza passata in giudicato (i Giudici di appello hanno condiviso, infatti, la sentenza di prime cure che aveva qualificato “irrilevante” la condotta “sleale” della PA in quanto la violazione degli obblighi di condotta processuale non aveva in concreto reso impossibile la prova della tempestiva presentazione della istanza di rimborso, e quindi aveva rigettato la domanda di revocazione in quanto non riconducibile “ai casi lassativi previsti dall’art. 395 c.p.c.”).

Appare, pertanto, del tutto evidente che, se la questione di diritto sottoposta all’esame di questa Corte ha per oggetto la dedotta violazione dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), da parte del Giudice di appello, per non essere stata ricondotta alla fattispecie astratta contemplata dalla norma (fatto dell’avversario) la condotta processuale in concreto tenuta dalla PA (consistita nel resistere in giudizio e proporre la eccezione di decadenza per inosservanza del termine di cui al D.P.R. n. 641 del 1972, art. 13, nonostante tale fatto risultasse smentito dal documento in suo possesso), ed ha altresì per oggetto l’accertamento della “decisività” della prova documentale (acquisita dalla società solo in seguito alla attivazione del procedimento previsto dalla L. n. 241 del 1990, art. 25) la cui produzione in giudizio è stata – in tesi – impedita dal comportamento processuale del Ministero, se dunque tale è la questione di diritto da risolvere, il motivo di ricorso in esame, anticipando quanto verrà esposto di seguito, deve ritenersi del tutto inidoneo ad aggredire efficacemente le diverse ragioni della decisione di rigetto della impugnazione revocatoria, palesandosi sotto tale aspetto inammissibile, tanto in relazione alla censura di violazione delle norme di diritto indicate in rubrica – atteso che la società avrebbe dovuto dedurre tali vizi come motivi di gravame avverso la sentenza n. 14696/1997 dichiarativa della decadenza dal diritto al rimborso: cfr. Corte Cass. SU 25.7.2007 n. 16402 -, quanto in relazione agli altri vizi di legittimità ferrar in procedendo” ed illogicità ed insufficienza motivazionale), questi ultimi, peraltro, soltanto enunciati in rubrica e dunque assoggettati alla sanzione di inammissibilità anche per difetto della necessaria specificità ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), (la ricorrente non indica, infatti, su quale motivo di appello la Corte territoriale avrebbe omesso di pronunciare, nè evidenzia la ipotizzata “incomprensibilità” delle ragioni di diritto poste a fondamento del decisum, nè ancora individua la erronea ricostruzione del fatto che avrebbe dato luogo alle lacune argomentative, alle illogicità od alle contraddizioni intrinsechc al ragionamento sviluppalo nella motivazione della sentenza di appello).

La critica svolta dalla ricorrente, con il motivo in esame, è infatti interamente incentrata sulla violazione della norma generale di cui all’art. 2697 c.c. – intesa tanto quale criterio di legittimazione a richiedere la ammissione ed assunzione dei mezzi di prova, quanto quale regola finale di giudizio in difetto della formazione di un convincimento del giudice sui fatti provati – che subisce una modifica nei confronti della Amministrazione pubblica, parte in giudizio, dovendo essere interpretata alla stregua dei principi di legalità e di giustizia ai quali deve conformarsi l’attività stragiudiziale e giudiziale della PA (principi ai quali soggiace anche la Avvocatura dello Stato nell’esercizio della propria attività istituzionale in quanto figura soggettiva inserita nella medesima struttura organizzativa della P.A. in virtù del legame di rappresentanza organica stabilito ex lege: Corte Cass. SU 5.2.1997 n. 1082), e non potendo essere applicata in modo da ostacolare la diretta applicazione delle norme dell’ordinamento comunitario alla quale sono chiamate anche le PP.AA.. Tale peculiare interpretazione della norma generale sul riparto dell’onere probatorio, riferita alla PA parte processuale (che rispecchia la teoria dell'”obbligo di chiarimento” posto a carico della parte non onerata della prova, affermatasi prevalentemente nel diritto germanico, e che ha ricevuto impulso nel nostro ordinamento, in relazione alla definizione del “thema probandum” dapprima con il D.Lgs. 17 gennaio 2003, n. 5, art. 13, comma 2, – rito societario: la norma è stata dichiarata incostituzionale per eccesso di delega da Corte cost. n. 340/2008 – e successivamente con la riforma dell’art. 115 c.p.c., comma 2, ad opera della L. n. 69 del 2009, art. 45), ha trovato riscontro anche nella giurisprudenza di questa Corte che, nei principi contenuti negli artt. 97 e 117 Cost., L. n. 241 del 1990, art. 18, L. n. 212 del 2000, art. 6, – concernente la materia tributaria – e nell’art. 10 Trattato CE, ha rinvenuto il fondamento del dovere dell’Amministrazione pubblica – parte processuale di garantire sempre e comunque la trasparenza e correttezza della propria azione e di “prendere posizione e pronunciarsi in modo specifico e motivato sui punto controverso” (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 20.6.2000 n. 8340; id.

5^ sez. 2.12.2004 n. 22646), non potendo la PA “limitarsi a negare il possesso del documento comprovante l’inoltro della richiesta di rimborso in via amministrativa” ma dovendo, invece, attivarsi nella ricerca del documento da produrre in giudizio, in caso contrario essendo valutabile dal giudice la eventuale inerzia o l’atteggiamento ostruzionistico come “elemento di prova” (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 23.3.2007 n. 7138; id. 5^ sez. 25.3.2009 n. 7151, entrambe in materia di tassa sulle società).

Orbene l’accertamento della illegittimità della condotta processuale tenuta dal Ministero e la inesatta applicazione della regola di riparto dell’onere probatorio da parte del Giudice dell’originario giudizio di merito, avrebbero dovuto essere fatti valere come “motivi di gravame” mediante tempestiva impugnazione della sentenza di rigetto della domanda di condanna al rimborso per decadenza dal diritto, non spiegando invece alcuna incidenza sul diverso piano giuridico (esclusivamente rilevante nella fase rescindente) dell’accertamento del presupposto di revocabilità ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), concernente la rilevanza causale di tale condotta – violativa degli obblighi di chiarimento e dei principi indicati – in quanto determinante la impossibilità dell’altra parte di fornire in quel giudizio la prova richiesta, accertamento risolto negativamente dalla Corte d’appello che ha evidenziato chiaramente, da un lato, come la acquisizione del documento (istanza di rimborso recante la data della ricezione da parte del Ministero) era del tutto irrilevante ai fini della dimostrazione della tempestività della presentazione di detta istanza, che avrebbe dovuto essere provata mediante il deposito dell'”avviso di spedizione” della raccomandata, documento rilasciato dall’Ufficio postale al mittente e dunque nella disponibilità della contribuente (in quanto da questa detenuto e custodito, ovvero comunque acquisibile mediante richiesta all’Ufficio postale di attestazione della spedizione annotata ne registro raccomandate); dall’altro che la società disponeva dei mezzi processuali (richiesta di esibizione ex art. 210 c.p.c.) e dei rimedi amministrativi (istanza di accesso al documento ex L. n. 241 del 1990) adeguati a superare la inerzia – omessa ricerca e deposito del documento – della Amministrazione finanziaria convenuta, sicchè le conseguenze del mancato assolvimento da parte della contribuente dell’onere probatorio in ordine alla osservanza del termine di decadenza D.P.R. n. 641 del 1972, ex art. 13, comma 2, andavano imputate alla stessa società attrice e non al fatto della parte avversaria.

Le statuizioni del Giudice di appello debbono essere condivise in quanto appaiono del tutto conformi alla consolidata giurisprudenza di legittimità secondo cui non si da “forza maggiore” o “fatto dell’avversario” impeditivi della prova ex art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3), qualora la parte onerata della prova, essendo a conoscenza della esistenza del documento in possesso dell’avversario o di un terzo, non ne abbia richiesto la esibizione o l’acquisizione ai sensi dell’art. 213 c.p.c., atteso che in questo caso viene meno il nesso eziologico tra la condotta processuale ostativa della controparte e l’impedimento a fornire la prova, dovendo ascriversi l’esito probatorio negativo esclusivamente alla condotta negligente della parte interessata (cfr. Corte Cass. 3^ sez. 15.2.1992 n. 1879; id. 2^ sez. 11.6.2008 n. 15543). Deve quindi trovare conferma, nel caso di specie, il principio di diritto espresso da questa Corte secondo cui “l’impossibilità di produrre in giudizio un documento decisivo per causa di forza maggiore o per fato dell’avversario, che, a norma dell’art. 395 c.p.c., comma 1, n. 3, giustifica la domanda di revocazione della sentenza passata in giudicato, può essere ravvisata solo quando chi promuove la revocazione abbia dimostrato di aver fatto tutto il possibile per acquisire tempestivamente il documento e di non esserci riuscito per causa a lui non imputabile o per fatto dell’avversario. In questa seconda ipotesi, è necessario fornire la prova della specifica iniziativa probatoria della parte nel giudizio di merito e di un comportamento ostativo della controparte, non essendo sufficiente allegarne la mancata collaborazione” (cfr. Corte Cass. 5^ sez. 20.3.2009 n. 6821, con specifico riferimento ad istanza di rimborso di tasse societarie in causa del tutto analoga).

3.2 Il secondo motivo, è inammissibile quanto al dedotto vizio di violazione della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato per difetto di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), (non avendo la ricorrente indicato l’eccesso o il difetto di pronuncia in cui sarebbe incorsa la Corte territoriale nel rispondere su primo motivo di appello), mentre è infondato in relazione alle altre censure che possono essere esaminate congiuntamente in considerazione della stretta connessione logica.

La ricorrente estrapola arbitrariamente dalla motivazione della sentenza di appello la proposizione secondo cui la contribuente non aveva fornito la prova dell’osservanza del termine di decadenza omettendo di depositare in giudizio la ricevuta della spedizione della raccomandata “che era sicuramente in suo possesso”, da ciò desumendo che la pronuncia di rigetto della domanda revocatoria sia stata fondata su di una presunzione (di possesso) infondata in quanto tale documento risultava allegato al ricorso gerarchico proposto ai sensi del D.P.R. n. 641 del 1972, art. 11.

E’ sufficiente rilevare come la critica per un verso non appare decisiva, in quanto la mera affermazione della allegazione al ricorso amministrativo della ricevuta di spedizione della istanza di rimborso non costituisce alcuna certezza in ordine alla effettiva e definitiva privazione incolpevole del possesso del documento da parte del ricorrente (bene potendo essere stata allegata solo una fotocopia del documento, ovvero bene potendo il mittente conservare duplicati o copie dell’originale); per altro verso è inidonea ad intaccare la argomentazione a supporto del “decisum”, che trova fondamento nella duplice “ratio decidendi” a) della autoresponsabilità della società onerata della prova, che “non ha usato la dovuta diligenza nel ricercare e premunirsi in tempo utile di tutta la documentazione necessaria per ottenere il riconoscimento del dirittò” (tanto più che il documento era stato dalla società allegato e trasmesso con il ricorso amministrativo, e dunque la stessa bene avrebbe potuto richiedere al Giudice l’ordine di esibizione alla Amministrazione presso la quale era stato presentato il ricorso gerarchico); b) della irrilevanza eziologica della condotta “sleale” tenuta dalla Amministrazione finanziaria nel giudizio di merito nel determinare un impedimento alla produzione della prova documentale, avuto riguardo ai mezzi processuali e stragiudiziali attraverso i quali la società avrebbe potuto acquisire la prova richiesta.

3.3 Il terzo motivo è infondato.

La ricorrente tende, infatti, ad istituire un’inammissibile equivalenza funzionale tra la l’atto di citazione (avente ad oggetto la domanda di condanna al rimborso delle somme) e le istanze di ammissione dei mezzi di prova, da proporre nella fase istruttoria del giudizio, ovvero la istanza per l’accesso ai documenti amministrativi prevista dalla L. n. 241 del 1990, art. 25.

Incontestabile la differente funzione svolta nell’ambito del processo dall’atto introduttivo della lite – che delinea la affermazione della pretesa (edictio actionis) chiamando il giudice al relativo accertamento in contraddittorio (vocatio in jus) – e dalle istanze istruttorie che sono rivolte al giudice – e non alla controparte – volte ad acquisire al giudizio le fonti di prova necessarie a rappresentare i fatti principali o secondari allegati. La disciplina processuale introdotta dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, applicabile “ratione temporis” al giudizio di merito introdotto dalla società successivamente al 30.4.1995, evidenzia chiaramente l’onere gravante sulla parte attrice di “indicare specificamente i mezzi di prova dei quali l’attore intende valersi ed in particolare dei documenti” (art. 163 c.p.c., comma 3, n. 5) – da depositare all’atto della costituzione in giudizio (art. 165 c.p.c.) -, indicazione che non esaurisce tuttavia l’attività istruttoria delle parti (e la cui omissione non è sanzionata a pena di nullità dell’atto introduttivo: art. 164 c.p.c.) che sono facoltate a richiedere alla udienza di trattazione l’assegnazione di termini perentori per “produrre documenti ed indicare nuovi mezzi di prova …… nonchè … prova contraria” (art. 184 c.p.c.).

Il sistema delineato dalla novella del 1990, pertanto, è imperniato sul principio del “dare logui” essendo richiesta fin dall’inizio la specifica indicazione dei mezzi di prova dei quali si chiede l’ammissione al Giudice, dovendo in conseguenza ritenersi del tutto estranea alla logica formale del processo la ipotesi di “richieste istruttorie implicite” contenute negli atti difensivi (in particolare nell’atto di citazione) ed in ordine alle quali il Giudicante sia obbligato a pronunciare.

Inoltre va rilevato che le istanze istruttorie formulate nel processo sono dirette esclusivamente al Giudice, al quale è riservato il potere di verifica della rilevanza del mezzo istruttorio richiesto ed il potere di disporne l’assunzione, circostanza che esclude alla radice la ipotizzata equipollenza tra richiesta istruttoria formulata nel processo ed istanza di accesso al documento ex L. n. 241 del 1990, e succ. mod. che deve invece essere rivolta alla PA che ha la disponibilità dell’atto.

4. Il ricorso deve essere in conseguenza rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese del presente giudizio che si liquidano in dispositivo.

P.Q.M.

LA SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE – rigetta il ricorso e condanna la società ricorrente alla rifusione delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 1.000,00 per onorari oltre le spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 30 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2011

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