Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26173 del 27/09/2021

Cassazione civile sez. I, 27/09/2021, (ud. 12/05/2020, dep. 27/09/2021), n.26173

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCALDAFERRI Andrea – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MERCOLINO Guido – Consigliere –

Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –

Dott. GORI Pierpaolo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23801/2020 proposto da:

A.I., alias A.I., rappresentato e difeso dall’Avv.

Davide Verlato, domiciliato presso la Cancelleria della Corte;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro p.t., rappresentato e

difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato domiciliato in Roma, via

dei Portoghesi n. 12, costituito al solo fine di partecipare ex art.

370 c.p.c., comma 1, all’eventuale udienza di discussione della

controversia;

– resistente –

avverso la sentenza della CORTE D’APPELLO DI VENEZIA n. 1524/20,

depositata il 18 giugno 2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/5/2021 dal Consigliere Dott. PIERPAOLO GORI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con sentenza della Corte d’appello di Venezia n. 1524 del 2020 depositata il 18 giugno 2020 nel processo iscritto al numero di registro 1330 del 2019 veniva rigettato l’appello di A.I. avverso l’ordinanza del tribunale di Venezia con cui era stata rigettata l’opposizione avverso il decreto di dismissione della domanda di protezione internazionale e di rilascio di permesso di soggiorno per motivi umanitari del D.Lgs. n. 286 del 1998, ex art. 5, comma 6, da parte della commissione territoriale di Verona sezione di Vicenza.

2. In particolare il richiedente, proveniente dal Ghana, vedovo e con due figli, dichiarava di essere fuggito dal proprio Paese perché si rifiutava di subentrare al nonno nel ruolo di guida spirituale di una setta animista, senza poter contare sulla tutela delle autorità pubbliche, e si vedeva in tale situazione costretto a fuggire. Il racconto veniva ritenuto non credibile dal Tribunale di Venezia, il quale non riconosceva l’esistenza neppure dei presupposti per le forme di protezione richieste, inclusa l’umanitaria per assenza di specifica vulnerabilità; la sentenza veniva confermata dalla Corte d’appello.

3. Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione il richiedente per due motivi mentre il Ministero dell’Interno ha depositato mera comparsa di costituzione ai fini dell’eventuale partecipazione alli udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.

Diritto

CONSIDERATO

che:

4. Con il primo motivo di ricorso – ai fini dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – viene dedotta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, commi 1, 3 e 5, artt. 115 e 116 c.p.c., in tema di disponibilità e valutazione delle prove in sede processuale, nonché del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, commi 2 e 3, con assenza di motivazione sul motivo di appello relativo alla mancanza di credibilità del richiedente e della coerenza interna ed esterna delle dichiarazioni rese. Il richiedente lamenta l’assenza di acquisizione d’ufficio delle necessarie informazioni per integrare gli elementi da lui non offerti, tenuto conto che egli poteva ben limitarsi a fornire degli indizi relativi alla veridicità del racconto in caso di impossibilità di procurarsi prove nel Paese di origine. Siffatta dovuta istruttoria avrebbe potuto condurre ad un favorevole esito tanto con riferimento alla domanda di protezione umanitaria quanto con riferimento a quelle di protezione umanitaria.

5. La censura presenta aspetti di inammissibilità e di infondatezza. La sentenza impugnata a pag. 4 riporta chiaramente il motivo di appello in questione (“(…) il richiedente, premessa la sua storia personale, lamenta che il Tribunale non abbia considerato credibile il racconto, nonostante la coerenza esterna e interna (…)”) e ad essa dà esplicita e motivata risposta alle pagg. 5 e ss. riportando e valutando i due episodi concreti narrati dal richiedente, ossia il primo rapimento del 2004 e la seconda aggressione, non collocata spazio-temporalmente. La motivazione del giudice d’appello, tra l’altro, non poggia semplicemente sulla valutazione della coerenza interna del narrato, ritenuta assente per mancanza di riferimenti fattuali individuati cronologicamente e di riscontri, ma fa anche aggio (coerenza esterna) su informazioni circostanziate sulle condizioni del Paese di origine (Ghana) sulla scorta di autorevoli fonti internazionali (rapporto UNHCR, US Department of State 2014 Country Reports on HR Practices – Ghana 25 June 2015, Viaggiare Sicuri ecc.., cfr. pp. 7-8 della sentenza gravata).

Tale preciso e argomentato accertamento in fatto non è specificamente impugnato attraverso l’articolazione di un vizio motivazionale e la deduzione del fatto controverso contrario e decisivo non valutato dal giudice del merito, bensì il richiedente si limita a riproporre la propria versione dei fatti senza confrontarsi con la decisione della Corte d’appello e chiedendo in ultima analisi al giudice di legittimità un’indebita rivalutazione dell’accertamento fattuale.

6. Con il secondo motivo di ricorso – formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 – viene prospettato l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio in relazione alle richieste contenute nel ricorso di primo grado di concessione di un permesso per motivi umanitari. Viene anche dedotta la violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3 e art. 32, comma 3, in relazione al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 3, lett. a) e c), con possibile violazione anche dell’art. 8 CEDU e dell’art. 19 comma 1 e comma 1.1 T.U. Immigrazione. Nel corpo del motivo il richiedente lamenta l’assenza di istruttoria da parte della Corte d’appello la quale avrebbe basato la propria decisione esclusivamente sulla scarsa credibilità del ricorrente senza valutare l’indice di vulnerabilità personale del richiedente, ai fini della richiesta subordinata di protezione umanitaria, tenendo anche conto del fatto che l’integrazione sociale lavorativa è solo una circostanza concorrente con altre ai fini della determinazione della vulnerabilità del cittadino straniero e non un fattore esclusivo di valutazione. Infine, precisa di essersi trasferito stabilmente in Libia per circa due anni dal 2014 al 2016 lavorando come meccanico e subendo anche una dura prigionia.

7. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. Va innanzitutto ribadito che il dovere di cooperazione istruttoria del giudice è sì disancorato dal principio dispositivo e libero da preclusioni e impedimenti processuali, ma presuppone l’assolvimento da parte del richiedente dell’onere di allegazione dei fatti costitutivi della sua personale esposizione a rischio, a seguito del quale opera il potere-dovere del giudice di accertare anche d’ufficio se, e in quali limiti, nel Paese di origine del richiedente si verifichino fenomeni tali da giustificare l’applicazione della misura richiesta, non potendosi considerare fatti di comune e corrente conoscenza quelli che vengono via via ad accadere nei Paesi estranei alla Comunità Europea (cfr. quanto alla protezione umanitaria, Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 14548 del 09/07/2020, Rv. 658136 – 01), al fine di contrastare gli specifici accertamenti in fatto a sé sfavorevoli operati dalla Corte d’appello, onere non assolto dal richiedente le cui deduzioni sono molto generiche.

8. Ciò detto, con riferimento all’inserimento in Italia, al punto 6 della motivazione la sentenza impugnata ha valutato la presenza di contratto di lavoro a termine prorogato con il medesimo datore di lavoro sino ad aprile 2020, e ha dato conto anche del fatto che questi ha rilasciato un attestato di stima, ed ha compiuto un accertamento a riguardo – sfavorevole al richiedente – cercando anche il confronto tra la vulnerabilità personale del richiedente in Italia e quella nel Paese di origine, seppure in presenza delle scarse informazioni fornite e della inattendibilità summenzionata. Va in ogni caso in generale escluso che l’inserimento sociale possa di per sé rendere doveroso il rilascio del permesso umanitario, il quale pone come punto di partenza ineludibile per il riconoscimento del diritto l’effettiva valutazione comparativa della situazione oggettiva del Paese d’origine e soggettiva del richiedente in quel contesto, alla luce della peculiarità della vicenda personale (cfr. Sez. 6-1, n. 420/2012, Rv. 621178-01; Sez. 6-1, n. 359/2013; Sez. 6-1, n. 15756/2013).

9. Quanto poi alla valutazione del periodo trascorso in Libia, Paese di transito, che avrebbe potuto essere valorizzata attraverso deduzioni non generiche, alla luce dei principi di diritto già citati (Cass. Sez. 1 -, Ordinanza n. 14548 del 09/07/2020), nel caso di specie è carente l’allegazione circostanziata circa le violenze o comunque le violazioni di diritti umani personalmente sofferte dal richiedente in Libia, Paese in cui pure egli stesso afferma di essersi trattenuto per lungo tempo, non bastando il semplice fatto notorio non adeguatamente personalizzato.

10. In conclusione, il ricorso dev’essere rigettato e, in assenza di svolgimento delle difese effettive da parte del Ministero, nessuna statuizione dev’essere adottata sulle spese di lite.

PQM

La Corte:

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza allo stato dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021

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