Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26171 del 18/10/2018

Cassazione civile sez. II, 18/10/2018, (ud. 26/06/2018, dep. 18/10/2018), n.26171

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21977-2014 proposto da:

C.B., e B.S., elettivamente domiciliati a Roma,

via Portuense 104 e rappresentati e difesi, anche disgiuntamente,

dall’Avvocato GUIDO CHESSA MIGLIOR e dall’Avvocato CORRADO CHESSA

per procura speciale a margine del ricorso;

– ricorrenti –

contro

F.F., e F.G., nella qualità di eredi con

beneficio d’inventario di T.M. e Fi.Gi.,

rappresentati e difesi, anche disgiuntamente, dall’Avvocato ELIO

DEMONTIS e dall’Avvocato LUIGI MARCIALIS, presso il cui studio a

Cagliari, via Puccini 70, elettivamente domiciliano, per procura

speciale a margine del controricorso;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 381/2014 della CORTE D’APPELLO di CAGLIARI,

depositata l’11/06/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 26/06/2018 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE

DONGIACOMO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

C.B. conveniva in giudizio, innanzi al tribunale di Cagliari, Fi.Gi. .Cuccu e.l.Turco Firinu e.d.Turco

e degli eredi della T., la corte di appello di Cagliari, con sentenza non definitiva del 25/3/2010, in riforma della decisione impugnata, accoglieva la domanda di rilascio proposta dall’attrice, rigettando quella di accertamento della proprietà avanzata dalla T., condannava F.G. e gli eredi della T. al risarcimento dei danni, da liquidarsi in separata sede, e disponeva il prosieguo del giudizio per l’accertamento dei diritti ai miglioramenti e alla ritenzione.

La corte, in particolare, riteneva che fosse inammissibile la prova testimoniale articolata dal F. per dimostrare la perdita incolpevole della scrittura del 1976, non ricorrendo i presupposti di cui all’art. 2724 c.c., n. 3, richiamato dall’art. 2525 c.c.. Per quel che concerneva poi la situazione di possesso, la relazione con la cosa, consegnata in forza del contratto preliminare alla stregua di quanto dedotto dallo stesso convenuto, era iniziata a titolo di detenzione, per cui non poteva presumersi l’esistenza di un possesso idoneo all’usucapione. In considerazione della mancanza di prova dell’atto scritto la materiale disponibilità del bene era priva di causa: in via presuntiva doveva ritenersi logicamente ragionevole che fra le parti vi fosse stato un accordo in virtù del quale gli appellati avevano avuto la materiale disponibilità del bene, accordo il cui contenuto era rimasto, però, ignoto. Nè poteva riconoscersi a favore della T. l’acquisto della proprietà per usucapione, dovendo a questa estendersi le considerazioni formulate a proposito della detenzione del marito. In ogni caso, il possesso non si sarebbe protratto ininterrottamente dal 1976 al 1997, posto che arguito del sequestro giudiziario autorizzato nel 1994 e la nomina del custode, lo stesso sarebbe stato interrotto.

La sentenza, poi, ritenne che, in relazione alla domanda di indennità per miglioramenti e addizioni, da un lato, non poteva escludersi che la detenzione si fosse trasformata in possesso e che tale indagine andava compiuta anche all’esito della prova articolata dall’appellante per dimostrare che l’immobile era stato completato a sue cure e spese: peraltro, la corte precisò che l’interversione della detenzione in possesso non avrebbe potuto avere influenza sull’usucapione per la mancata durata ventennale del possesso ma avrebbe avuto rilevanza ai fini dei presupposti voluti dall’art. 1150 c.c. che riconosce le indennità per addizioni e miglioramenti a favore del possessore e non del detentore.

Proponevano ricorso per cassazione F.F. e F.G., quali eredi di T.M., e Fi.Gi..

La Corte di cassazione, con sentenza n. 5338 del 2012, per quanto ancora rileva, ha accolto il quinto motivo di gravame proposto da F.F. e F.G., quali eredi di T.M., vale a dire il motivo con il quale gli stessi, lamentando la violazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, avevano, tra l’altro, censurato la decisione impugnata per avere apoditticamente ritenuto l’estensione nei confronti della T. degli effetti interruttivi dell’usucapione conseguenti al sequestro giudiziario, quando, in realtà, la stessa non aveva avuto alcuna notificazione del provvedimento cautelare ed aveva continuato a godere del bene atteso che custode giudiziario era stato nominato originariamente il marito.

La Corte, al riguardo, dopo aver premesso “che il sequestro venne autorizzato nel corso del giudizio – con ordinanza del 31 ottobre 1994 – prima che la T. avesse spiegato intervento volontario (19-7-1997), formulando la domanda di acquisto per usucapione” e che “la sentenza, nell’escludere comunque il decorso del periodo utile all’usucapione, ha ritenuto che l’autorizzazione del sequestro costituiva atto idoneo a interrompere il possesso del bene durante l’arco temporale 1976-1997”, affermando, in particolare, che “l’interruzione si era verificata nei confronti di Fi.Gi. e quindi anche di T.M.”, ha rilevato che “tale affermazione è del tutto immotivata, perchè non spiega le ragioni in base alle quali l’effetto interruttivo nei confronti di Fi.Gi. si sarebbe esteso nei confronti della T. che non era parte del giudizio nel momento in cui venne emesso il sequestro nè risulta che sia stata alla medesima notificato il provvedimento cautelare”. “Neppure è risultata – ha aggiunto la Corte – la effettiva e consapevole privazione del possesso conseguente all’esercizio dei poteri dominicali esercitati nei suoi confronti dalla proprietaria, dovendo qui ricordarsi che custode giudiziario era stato nominato il marito della T., Fi.Gi., che era rimasto nel godimento del bene. Al riguardo, va considerato che gli atti interruttivi dell’usucapione eseguiti nei confronti di uno dei compossessori non hanno effetto interruttivo nei confronti degli altri, in quanto il principio di cui all’art. 1310 c.c., secondo cui gli atti interruttivi contro uno dei debitori in solido interrompono la prescrizione contro il comune creditore con effetto verso gli altri debitori, trova applicazione in materia di diritti di obbligazione e non di diritti reali, per i quali non sussiste vincolo di solidarietà, dovendosi, invece, fare riferimento ai singoli comportamenti dei compossessori, che giovano o pregiudicano solo coloro che li hanno (o nei cui confronti sono stati) posti in essere…”. “Occorre sottolineare – ha proseguito la Corte – che l’accertamento circa l’esistenza o meno dell’effetto interruttivo dell’usucapione nei confronti della T. (e dei suoi eredi) assume evidentemente rilevanza al fine di stabilire il decorso del termine utile ad usucapionem, posto che – seppure i Giudici hanno ritenuto che la relazione con la cosa era iniziata a titolo di detenzione – hanno pure affermato che non era da escludere che la stessa si fosse poi trasformata in possesso, riservando al prosieguo del giudizio tale verifica attraverso la complessiva valutazione del materiale anche all’esito della prova articolata dalla controparte per dimostrare di avere esse stessa completato l’opera a sue spese. Peraltro, la sentenza ha ritenuto che siffatta indagine avrebbe potuto avere rilevanza al limitato fine del riconoscimento dell’indennità per i miglioramenti, e ciò sulla premessa del mancato decorso del termine ventennale proprio in considerazione dell’avvenuta interruzione del possesso (nel periodo 1976-1997) conseguente al sequestro: essendosi quest’ultima affermazione rivelatasi erronea (perchè, per quel che si è detto prima, immotivata) deve ritenersi che – ove non sia in concreto accertato il presupposto della mancata decorrenza del periodo necessario ad usucapire ovvero l’effetto interruttivo del sequestro nei confronti della T. – i Giudici di rinvio dovranno anche verificare se l’interversione del possesso si sia verificata in un momento utile per il maturare – al momento dell’intervento spiegato in giudizio (19-7-1997) del periodo di venti anni necessario per l’usucapione da parte della T.”.

La Corte, quindi, ha cassato la sentenza rimettendo al giudice di rinvio l’esame delle censure formulate con l’appello incidentale nell’eventualità che fosse riconosciuto a favore della T. l’invocata usucapione.

F. e F.G., quali eredi di T.M., hanno riassunto il giudizio chiedendo, tra l’altro, di accertare e dichiarare che T.M. fosse l’esclusiva proprietaria, per effetto di usucapione, dell’immobile per cui è causa, costituito dal terreno di mq. 1450 con quanto sopra edificato.

Si sono costituiti C.B. e B.S..

La corte d’appello di Cagliari, con sentenza dell’11/6/2014, ha accolto l’appello proposto ed, in totale riforma della sentenza appellata, ha dichiarato gli appellanti, nella loro qualità di eredi di T.M., proprietari esclusivi, per intervenuta usucapione, dell’immobile oggetto di causa.

La corte, in particolare, dopo aver evidenziato che il giudizio di rinvio avesse ad oggetto la questione se T.M. abbia realizzato, o meno, l’interversione del possesso dell’immobile oggetto di causa e se lo abbia posseduto in via esclusiva, o meno, per il tempo utile per l’usucapione, ha ritenuto che a tali quesiti si dovesse dare risposta positiva.

Escluso, infatti, che nei confronti della stessa si siano estesi gli effetti interruttivi connessi al sequestro giudiziario eseguito nel primo grado di giudizio, sia perchè avvenuto quando la stessa non aveva ancora effettuato il proprio intervento in giudizio, sia perchè nessuna notifica del provvedimento era stata operata nei suoi confronti, la corte d’appello ha accertato, in fatto, che: – l’immobile è stato consegnato alla T., nel febbraio del 1976, allo stato grezzo, essendo stati edificati solo pochi muri perimetrali; – nel mese di febbraio del 1976, la T. ha iniziato ad edificare l’immobile, poi trasformato in una vera e propria villa; – la villa, nel mese di giugno/luglio, risultava era stata completata all’interno, compresi tutti gli impianti; – qualche anno dopo, la casa appariva completa; – nel periodo in cui la costruzione veniva realizzata, C.B. abitava in un immobile posto di fronte a quello edificando. La corte, quindi, ha ritenuto che “tale elemento porta alla conclusione che si sia verificata quella interversione del possesso richiesta dalla norma” prevista dall’art. 1141 c.c.: “infatti, poichè la costruzione di un edificio non è operazione che possa passare inosservata, richiedendo un ampio margine di tempo, è certamente possibile affermare che C.B. abbia avuto la precisa percezione che nel terreno che le era appartenuto fosse in corso di edificazione una costruzione e che nulla abbia avuto da contestare e nulla di fatto abbia contestato, se non proporre, soltanto nel corso del 1992, a distanza di ben sedici anni dall’inizio della edificazione, la causa per cui è il presente giudizio nei confronti di Fi.Gi.”. Secondo la corte, tale comportamento, lungi dal dimostrare una semplice acquiescenza, dovesse essere interpretato come piena consapevolezza dell’attività svolta sull’immobile ed accettazione di tutta la fattispecie concreta. Ne consegue, ha aggiunto la corte, che T.M., escluso il possesso di Fi.Gi., dovesse essere ritenuta come unico ed esclusivo possessore dell’immobile oggetto di causa, cominciando dal mese di febbraio del 1976 fino al 1997, con il compimento del tempo necessario alla relativa usucapione.

C.B. e B.S., con ricorso notificato il 10/9/2014, hanno chiesto, per quattro motivi, la cassazione della sentenza, notificata il 23/6/2014.

Hanno resistito, con controricorso notificato in data 27/10/2014, F.F. e F.G., quali eredi di T.M. e Fi.Gi., i quali hanno anche depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1141 c.c., comma 2, artt. 2697e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e deducendo la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4 in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, nonostante che la relazione materiale della T. con l’immobile sia iniziata a titolo di detenzione, in forza di contratto preliminare, ha attribuito all’attività di costruzione svolta dalla stessa il significato di tacita manifestazione di volontà della stessa T. di mantenere l’immobile per sè non più come semplice detentore ma come proprietaria, laddove, in realtà, il fatto materiale dell’opera edile non può essere assunto di per sè come espressione della interversione della detenzione in possesso. Ed infatti, una volta che la detenzione abbia avuto causa in un contratto preliminare di vendita ovvero in un titolo negoziale il cui contenuto non è stato provato in giudizio, l’incertezza sulla natura e sul contenuto dell’accordo circa l’affidamento della detenzione impedisce di ritenere che la costruzione del fabbricato operata dalla T. possa essere inteso come contegno contrario alla condizioni pattizie di affidamento dell’immobile e, quindi, qualificabile come “opposizione” del detentore nei confronti del titolate del possesso ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2, essendo possibile che le parti avessero pattiziamente contemplato la facoltà oppure l’obbligo degli affidatari dell’immobile di realizzare in tutto o in parte l’opera edile, con la conseguenza che l’attuazione di quel programma da parte della T., lungi dal potersi considerare come contradictio nei confronti del possessore dante causa, si connoterebbe come l’esercizio di una facoltà o di un obbligo. La corte, in definitiva, non solo ha contraddetto il presupposto in fatto circa l’esistenza di un accordo di affidamento della detenzione ma ha anche elaborato una fallace presunzione semplice, priva dei requisiti richiesti dall’art. 2729 c.c..

2. Il motivo è infondato. La disposizione dell’art. 1141 c.c., comma 2, prevede che, se alcuno ha cominciato ad avere la detenzione, non può acquistare il possesso finchè il titolo non venga ad essere mutato per causa proveniente da un terzo o in forza di opposizione da lui fatta contro il possessore. E invero, la presunzione di possesso prevista dall’art. 1141 c.c., comma 1, va riferita al momento iniziale dell’esercizio del potere di fatto sulla cosa sicchè, una volta che colui che contesta il possesso abbia dimostrato che il rapporto con il bene ha avuto inizio come detenzione, il medesimo non è tenuto altresì a provare che detto esercizio sia anche proseguito come detenzione. In tal caso, al contrario, poichè, ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2, la detenzione non può tramutarsi in possesso se non mediante una interversio possessionis, spetta a colui che invoca un siffatto mutamento fornire la relativa dimostrazione. Nel caso di specie, è pacifico che la relazione di fatto con l’immobile da parte della dante causa degli odierni controricorrenti abbia avuto origine come detenzione – come, del resto, riconosciuto da questa Corte nella sentenza n. 5338 che, nel 2012, ha disposto il giudizio di rinvio (“la sentenza ha correttamente ritenuto che la relazione della cosa era iniziata a titolo di detenzione, essendo il bene stato consegnato dalla proprietaria, e dunque non poteva operare la presunzione di possesso di cui all’art. 1141 c.c. – con la conseguente necessità di accertare la sussistenza, o meno, di un atto di interversione del possesso: ed infatti, come la citata sentenza ha ricordato, “in tema di possesso la presunzione stabilita dall’art. 1141 c.c. a favore di colui che esercita un potere di fatto sulla cosa non opera quando la relazione con il bene non consegua ad un atto volontario d’apprensione, ma derivi da un iniziale atto o fatto del proprietario-possessore. In tal caso, per la trasformazione della detenzione in possesso occorre un mutamento del titolo che non può aver luogo mediante un mero atto di volizione interna, ma deve risultare dal compimento di idonee attività materiali di specifica opposizione al proprietario-possessore…”. Ora, l’interversione nel possesso non può aver luogo mediante un semplice atto di volizione interna ma deve estrinsecarsi in una manifestazione esteriore dalla quale sia consentito desumere che il detentore abbia cessato di esercitare il potere di fatto sulla cosa in nome altrui e abbia iniziato ad esercitarlo esclusivamente in nome proprio, con correlata sostituzione al precedente “animus detinendi” dell'”animus rem sibi habendi”. Tale manifestazione deve essere rivolta specificamente contro il possessore, in maniera che questi sia posto in grado di rendersi conto dell’avvenuto mutamento e, quindi, tradursi in atti ai quali possa riconoscersi il carattere di una concreta opposizione all’esercizio del possesso da parte sua (Cass. n. 26327 del 2016, in motiv.; Cass. n. 27584 del 2013, in motiv.; Cass. n. 6237 del 2010; Cass. n. 2392 del 2009). L’interversione della detenzione in possesso può avvenire anche attraverso il compimento di sole attività materiali, ove manifestino in modo inequivocabile e riconoscibile dall’avente diritto l’intenzione del detentore di esercitare il potere sulla cosa esclusivamente nomine proprio, vantando per sè il diritto corrispondente al possesso in contrapposizione con quello del titolare della cosa (Cass. n. 27584 del 2013; Cass. n. 5419 del 2011; Cass. n. 1296 del 2010). Non par dubbio, in effetti, che, in generale, l’edificazione di un fabbricato su un terreno ricevuto in detenzione possa manifestare la volontà di comportarsi come proprietario, costituendo l’estrinsecazione di una facoltà tipica del diritto dominicale. In tal senso si è già espressa questa Corte, affermando che la costruzione di un organismo edilizio nuovo, realizzato dal detentore di un terreno su propria iniziativa, senza il consenso, quanto meno tacito, dei proprietari, i soli legittimati al compimento di attività edificatorie sul fondo, costituisce un comportamento suscettibile di manifestare pretese dominicali sul bene, trascendenti i limiti della detenzione, sia pur qualificata, incompatibili con il possesso del titolare del diritto reale, come tali idonee ad integrare gli estremi di un atto d’interversione ai sensi dell’art. 1141 c.c., comma 2, (Cass. n. 27584 del 2013; Cass. n. 27521 del 2011, in motiv.; Cass. n. 1296 del 2010; Cass. n. 12968 del 2006). Nel caso in esame, la corte d’appello, nell’affermare che, agli effetti dell’interversione del possesso, abbia assunto, appunto, rilevanza la circostanza dell’edificazione effettuata sul terreno controverso da parte della T., si è posta, pertanto, in piena continuità con i predetti principi. Nè può rilevare in senso contrario il fatto che, a dire dei ricorrenti, la facoltà (o l’obbligo) di edificare sul terreno le era stata concessa (o imposto) con il contratto preliminare di vendita o con il diverso titolo negoziale con il quale la detenzione dell’immobile le era stata inizialmente affidata. Se, da un lato, è vero che la costruzione di un fabbricato da parte del conduttore, ove sia stata espressamente autorizzata dal proprietario del suolo, non costituisce un’attività posta in essere “contro” il possessore e non può, conseguentemente, essere invocata dal detentore quale atto di “opposizione” idoneo a mutare il titolo del rapporto con la cosa in possesso (Cass. n. 27584 del 2013), è anche vero, dall’altro lato, che, nella specie, il contenuto di tale titolo (del quale, peraltro, i ricorrenti hanno sempre negato l’esistenza, avendo agito in giudizio per la condanna dei convenuti al rilascio dell’immobile proprio in quanto, appunto, detenuto “senza titolo”, e del quale, comunque, onde impedire l’interversione del possesso dedotta e dimostrata dai convenuti, gli stessi avevano l’onere di fornire la prova ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 2) è rimasto del tutto privo di supporto probatorio: “è pacifico – ha osservato questa Corte nella citata sentenza n. 5338 del 2012 – che non è stato possibile provare l’esistenza e il contenuto della scrittura…, in base alla quale il convenuto sostiene di avere iniziato a intrattenere la relazione con il bene”. D’altra parte, l’accertamento della sussistenza in concreto di atti capaci di provocare l’interversione del possesso, vale a dire il mutamento dello stato di fatto della detenzione in possesso, costituisce un’indagine di fatto, rimessa alla esclusiva competenza del giudice di merito, sicchè, nel giudizio di legittimità, questa Corte non può prendere direttamente in esame la condotta della parte, al fine di stabilire se il comportamento dedotto abbia o meno integrato la fattispecie della interversione (Cass. n. 27521 del 2011), ma può solo valutare se – a parte l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, nel testo in vigore, che il motivo in esame neppure ha prospettato – l’accertamento sul punto compiuto dal giudice di merito sia rispondente ai criteri legali che qualificano, dal punto di vista giuridico, il fenomeno della interversione: come, in effetti, è accaduto nel caso di specie. La corte d’appello, infatti, con motivazione priva di vizi logici e di errori giuridici, dopo aver accertato, in fatto, che l’immobile era stato consegnato alla T., nel febbraio del 1976, allo stato grezzo, essendo stati edificati solo pochi muri perimetrali, che nel mese di febbraio del 1976, la T. aveva iniziato ad edificare l’immobile, poi trasformato in una vera e propria villa, che la villa, nel mese di giugno/luglio, risultava era stata completata all’interno, compresi tutti gli impianti, e che, nel periodo in cui la costruzione veniva realizzata, l’attrice C.B. abitava in un immobile posto di fronte a quello edificando, ha correttamente ritenuto, alla luce di tali circostanze, che “… si sia verificata quella interversione del possesso richiesta dalla norma” prevista dall’art. 1141 c.c.: “infatti, poichè la costruzione di un edificio non è operazione che possa passare inosservata, richiedendo un ampio margine di tempo, è certamente possibile affermare che C.B. abbia avuto la precisa percezione che nel terreno che le era appartenuto fosse in corso di edificazione una costruzione e che nulla abbia avuto da contestare e nulla di fatto abbia contestato”.

3. Con il secondo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1141 c.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, deducendo la nullità della sentenza e del procedimento per violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e denunciando l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c., hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto, in punto di fatto, che l’immobile sia stato pacificamente consegnato alla T. nel febbraio del 1976, laddove, in realtà, non è affatto pacifico che tale consegna fosse avvenuta nel febbraio del 1976, nè la corte motiva sul punto, trascurando persino di richiamare la risultanza processuale dalla quale emerga, pacificamente, per concorde ammissione delle parti, il fatto della consegna nel febbraio del 1976, visto che la stessa T., sin dal suo ingresso in giudizio, e poi in tutti i suoi successivi atti difensivi, ha sempre dedotto di aver ricevuto la detenzione dell’immobile nel mese di maggio e non di febbraio del 1976. La corte, quindi, omettendo l’esame di tale allegazione, non si è avveduta che lo stato di progressione dei lavori della casa si sarebbe incredibilmente evoluto da quello dei “pochi muri perimetrali”, effettivamente esistente al momento della consegna alla T. a fine maggio del 1976, a quello della completa ultimazione dell’interno della casa, compresi gli impianti, già a giugno-luglio dello stesso anno, come riferito dal teste Co.. La corte, pertanto, hanno concluso i ricorrenti in violazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, u.p. e art. 116 c.p.c., non ha posto a base della sua decisione il fatto, pacificamente ammesso dalla T., che la sua relazione con l’immobile, costituito da pochi muri perimetrali, avesse avuto inizio non prima della fine di maggio del 1976, omettendo di considerare tale circostanza di significato prevalente rispetto al riferimento, operato dal teste Co., al mese di febbraio del 1976.

4. Con il terzo motivo, i ricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione dell’art. 1141 c.c., comma 2 e art. 2700 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, deducendo la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, e denunciando l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha omesso di esaminare diversi fatti decisivi per il giudizio, quali risultano documentati nel procedimento penale n. 21 del 1977 definito con sentenza del pretore di Santadi del 12/6/1979, dal quale emerge che C.B., nel dicembre del 1976, aveva realizzato in (OMISSIS), una costruzione edilizia in difformità del progetto e che i Carabinieri, nel corso dei sopralluoghi operati il 27/11/1976 ed il 9/12/1976 presso l’immobile per il quale si controverte, avevano potuto accedere liberamente nell’edificio della C. in quanto “tutto aperto”. La corte d’appello, invece, hanno proseguito i ricorrenti, non ha neppure accennato e tanto meno esaminato il contenuto di tali documenti, allegati alla comparsa di risposta depositata nel giudizio di rinvio, che, ove confrontati con le approssimazioni mnemoniche dei testimoni in ordine al completamento della casa ad opera esclusiva della Turc tra il febbraio ed il luglio del 1976, avrebbero immediatamente dissipato le fallaci certezze che la sentenza ha espresso in ordine all’interversione del possesso nel mese di febbraio del 1976.

5. Il secondo ed il terzo motivo, da esaminare congiuntamente, sono infondati. Intanto, i ricorrenti incorrono nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge processuale dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio, laddove, al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione (Cass. n. 27000 del 2016). Del resto, affinchè sia rispettata la prescrizione desumibile dal combinato disposto dell’art. 132 ,n. 4 e degli artt. 115 e 116 c.p.c., non si richiede al giudice del merito di dar conto dell’esito dell’avvenuto esame di tutte le prove prodotte o comunque acquisite e di tutte le tesi prospettategli, ma di fornire una motivazione logica ed adeguata all’adottata decisione, evidenziando le prove ritenute idonee e sufficienti a suffragarla ovvero la carenza di esse (Cass. 24434 del 2016). La valutazione degli elementi istruttori costituisce, infatti, un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.). Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), il giudice civile, infatti, ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purchè risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. (Cass. n. 11176 del 2017). In effetti, non è compito di questa Corte quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata, nè quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame. La corte d’appello, infatti, dopo aver accertato, in fatto, che l’immobile era stato consegnato alla T., nel febbraio del 1976, allo stato grezzo, essendo stati edificati solo pochi muri perimetrali, che, sempre nel mese di febbraio del 1976, la T. aveva iniziato ad edificare l’immobile e che, nel mese di giugno/luglio, la villa era stata completata all’interno, compresi tutti gli impianti, ha, evidentemente, dato rilievo, al fine di ravvisare l’interversione del possesso richiesta dall’art. 1141 c.c., comma 2, non già alla materiale consegna dell’immobile alla T., nel febbraio del 1976, a titolo, come si è visto, di detenzione, quanto all’attività di edificazione che la stessa ha (incontestatamente) iniziato a febbraio del 197 e, concluso tra i mesi di giugno e luglio del 1976, traendone, poi, la conclusione che C.B., che abitava in un immobile sito di fronte a quello in corso di edificazione, avendo avuto sin d’allora la precisa percezione che sul terreno che le era appartenuto fosse in corso di edificazione una costruzione (ed, a fortiori, che tale costruzione fosse stata poi completata), ne avesse, appunto, accettato la realizzazione. Nè sussiste il vizio, che i ricorrenti hanno denunciato, di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5 in conseguenza dell’erronea o mancata valutazione dei documenti prodotti in giudizio, essendo noto che, secondo le Sezioni Unite di questa Corte (n. 8053 del 2014), la norma in questione consente di denunciare in cassazione – oltre all’anomalia motivazionale che si esaurisca nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile – solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. n. 14014 del 2017, in motiv.; Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.; Cass. n. 7472 del 2017): fermo restando, però, che l’omesso esame di elementi istruttori non dà luogo, al vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, vale a dire, nella specie, la realizzazione dell’edificio da parte della T. tra febbraio e luglio del 1976, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze istruttorie (Cass. n. 9253 del 2017, in motiv.). Sotto questo profilo, quindi, deve escludersi che la sentenza possa essere cassata semplicemente perchè il giudice del merito abbia valutato i fatti in modo difforme dalle aspettative e dalle deduzioni di parte (Cass. n. 2222 del 2003; Cass. n. 356 del 2017, in motiv.). D’altra parte, il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un atto processuale da parte del giudice di merito, ha l’onere, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, di evidenziarne il contenuto, trascrivendolo o riassumendolo nei suoi esatti termini, al fine di consentire al giudice di legittimità di valutare la fondatezza del motivo, senza dover procedere all’esame dei fascicoli d’ufficio o di parte (Cass. n. 26174 del 2014, Cass. n. 19048 del 2016). Nel caso di specie, invece, i ricorrenti non hanno ritenuto di riprodurre o riassumere compiutamente in ricorso il contenuto dei documenti, quali emergono dal procedimento penale n. 21 del 1977, che la corte d’appello avrebbe omesso di valutare.

6. Con il quarto motivo, i ricorrenti, lamentando la

violazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonchè la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 115 c.p.c. e art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, denunciando l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, nonchè la nullità della sentenza e del procedimento per violazione dell’art. 384 c.p.c., comma 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto inconferente la prova per testimoni dedotta dagli appellanti, laddove era stata la stessa Corte di cassazione, con la sentenza n. 5338 del 2012, a stabilire che la verifica dell’eventuale passaggio dalla detenzione al possesso dovesse essere condotta dal giudice di rinvio all’esito di una valutazione complessiva di tutto il materiale probatorio, compresa l’indagine testimoniale richiesta dalla C. e dal B., diretta a dimostrare che erano stati loro, ed a loro spese, a completare la costruzione della casa.

7. Il motivo è infondato. La Corte si limita sul punto ad osservare che se, con il ricorso per cassazione, siano denunciati la mancata ammissione di mezzi istruttori e vizi della sentenza derivanti dal rifiuto del giudice di merito di dare ingresso a mezzi istruttori ritualmente richiesti, il ricorrente ha l’onere di indicare specificamente i mezzi istruttori, trascrivendo le circostanze che costituiscono oggetto di prova, nonchè di dimostrare sia l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza e l’errore addebitato al giudice, sia che la pronuncia, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, così da consentire al giudice di legittimità un controllo sulla decisività delle prove (Cass. n. 4178 del 2007; Cass. n. 23194 del 2017). Nel caso in esame, i ricorrenti hanno dedotto, in ricorso (p. 29), che le circostanze sulle quali i testimoni avrebbero dovuto essere sentiti, testualmente riprodotte nell’epigrafe della sentenza impugnata, erano rappresentate dal riconoscimento della paternità delle fatture prodotte dalla C. e, quindi, dalla conferma che quelle fatture, “descrittive di forniture di materiali o di lavori edili”, corrispondevano alle effettive prestazioni eseguite nella casa di Porto Pino a richiesta della stessa C., onde dimostrare, in definitiva, che era stata lei, a sue spese, a completare la costruzione della casa. Sennonchè, le prove testimoniali che la C. ha dedotto, per come testualmente riprodotte nell’epigrafe della sentenza impugnata (p. 4 e 5), riguardano solo il riconoscimento che le fatture esibite dalla C. sono state emesse, di volta in volta, dalla Commercio Industrie Edili di F.T. s.a.s., dalla Impresa Costruzioni I.G., dalla ditta M.U., da F.C. ed I.G. ed, infine, dalla ditta F.R.A.: non riguardano affatto le circostanze che i ricorrenti pretendono di poterne trarre, e cioè che le forniture di materiali o di lavori edili, che le predette fatture documentano, riguardano proprio il completamento da parte della C. della villa edificata sull’immobile oggetto della controversia. I ricorrenti, quindi, non hanno dimostrato l’esistenza di un nesso eziologico tra l’omesso accoglimento dell’istanza istruttoria e l’errore addebitato al giudice di merito e, dunque, che la pronuncia impugnata, senza quell’errore, sarebbe stata diversa, in tal modo pregiudicando l’ammissibilità della censura svolta.

8. Il ricorso dev’essere, quindi, rigettato.

9. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

10. La Corte dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

P.Q.M.

la Corte così provvede: rigetta il ricorso; condanna i ricorrenti a rimborsare ai controricorrenti le spese di lite che liquida nella somma di Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori e SG nella misura del 15%; dà atto della sussistenza dei presupposti per l’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Seconda Civile, il 26 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018

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