Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26170 del 18/10/2018

Cassazione civile sez. II, 18/10/2018, (ud. 26/06/2018, dep. 18/10/2018), n.26170

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORRENTI Vincenzo – Presidente –

Dott. BELLINI Ubaldo – Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – rel. Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

(ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.)

sul ricorso (iscritto al N.R.G. 21620/’14) proposto da:

S.R.L. ALPADZO, (C.F.: (OMISSIS)), in persona del legale

rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in forza di

procura speciale in calce al ricorso, dagli Avv.ti Matteo Ugo Sovera

e Nicola Alessandro Morvillo ed elettivamente domiciliata presso lo

studio dell’Avv. Roberto Mastrosanti, in Roma, viale Mazzini, n. 55;

– ricorrente –

contro

B.S., (C.F.: (OMISSIS)), rappresentata e difesa, in virtù di

procura speciale a margine del controricorso, dall’Avv. Fabio Zanati

ed elettivamente domiciliata presso lo studio Grez ed associati, in

Roma, c.so V. Emanuele II, n. 18;

– controricorrente –

Avverso la sentenza della Corte di appello di Milano n. 2173/2014,

depositata giugno 2014 (non notificata).

Fatto

RILEVATO IN FATTO

Con sentenza n. 7912/2013 il Tribunale di Milano accoglieva la domanda proposta dalla s.r.l. Alpadzo nei confronti di B.S., proprietaria dell’appartamento soprastante sito in un edificio ubicato in (OMISSIS), e, per l’effetto, accertava e dichiarava l’inesistenza di qualsivoglia diritto, di natura personale e/o reale, della predetta convenuta di collocare e/o mantenere opere ed impianti all’interno dell’appartamento di proprietà dell’attrice posto a pianterreno, con la conseguente condanna della B. alla rimozione di detti impianti ed opere (consistenti in tubazioni orizzontali con relativa braga di collegamento alla tubazione verticale condominiale collocate al di sotto dell’intradosso del solaio di orizzontamento superiore); con la stessa pronuncia il suddetto Tribunale rigettava la connessa domanda di risarcimento danni della società attrice nonchè la domanda riconvenzionale della convenuta di acquisto per usucapione della relativa servitù.

Decidendo sull’appello formulato dalla B.S. e nella costituzione della società appellata (che eccepiva, in via pregiudiziale, anche l’inammissibilità del gravame per assunta violazione dell’art. 342 c.p.c.), la Corte di appello di Milano, con sentenza n. 2173/2014, accoglieva l’appello e, in riforma dell’impugnata sentenza, accertava l’esistenza del diritto di servitù di scarico gravante sull’indicato appartamento – ubicato a pianterreno – di proprietà della s.r.l. Alpadzo, compensando per intero tra le parti le spese di entrambi i gradi. A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte ambrosiana, previamente ravvisata l’ammissibilità dell’appello in ordine al rispetto dell’art. 342 c.p.c., rilevava la fondatezza del gravame alla stregua delle emerse risultanze istruttorie, ritenendo che l’appellante aveva acquistato il diritto di servitù di acquedotto da qualificarsi apparente – per destinazione del padre di famiglia ai sensi dell’art. 1062 c.c., sul presupposto che trattavasi di un vincolo reale imposto sin dalla costruzione dell’intero edificio e risalente all’epoca in cui l’immobile nel suo complesso apparteneva ad un unico proprietario (l’INPS sin dal 1922), che, attraverso altra società, aveva, poi, venduto i singoli appartamenti nel 2005 a diversi soggetti, così suddividendo l’originaria unica proprietà, senza modificare lo stato dei luoghi.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Avverso la suddetta sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione la s.r.l. Alpadzo, articolato in tre motivi, al quale ha resistito con controricorso l’intimata B.S.. La difesa della società ricorrente ha anche depositato memoria ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

2. Con il primo motivo la società ricorrente ha dedotto – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 – la violazione e falsa applicazione dell’art. 342 c.p.c. nonchè dell’art. 324 c.p.c. e art. 2909 c.c., rappresentando che, nella fattispecie, malgrado la rituale proposizione dell’inerente eccezione, la Corte territoriale aveva ritenuto – con argomentazione sintetica ed apodittica ammissibile l’appello della B., sostenendo che esso non si era conformato al rispetto dei requisiti di forma-contenuto prescritti dal citato art. 342 c.p.c..

3. Con il secondo motivo la ricorrente ha denunciato la violazione o falsa applicazione degli artt. 99 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, sull’asserito presupposto che il giudice di appello avesse pronunciato ed accolto una domanda nuova (quella di accertamento dell’esistenza della contestata – servitù per destinazione del padre di famiglia), siccome non proposta tempestivamente e ritualmente nel giudizio di primo grado.

4. Con il terzo motivo la ricorrente ha prospettato – con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, – la violazione o falsa applicazione degli artt. 1061 e 1062 c.c., per aver la Corte territoriale dichiarato la sussistenza della servitù per destinazione del padre di famiglia quantunque le opere che ne costituivano oggetto non fossero visibili e, quindi, si versasse in tema di “servitù non apparenti”.

5. Rileva il collegio che la prima censura è priva di fondamento e va rigettata. Infatti, se corrisponde al vero che la Corte di appello di Milano ha fornito una motivazione succinta in ordine al rigetto dell’eccezione di inammissibilità per l’assunta violazione dell’art. 342 c.p.c., deve, tuttavia, osservarsi che, in effetti, quest’ultima non sussiste avuto riguardo all’individuazione delle critiche comunque mosse alla sentenza di primo grado e alle richieste di riforma della stessa, tenendosi conto – come del resto evincibile anche dal contenuto dell’atto di appello incorporato nel ricorso – che l’accertamento della sussistenza della contestata servitù per destinazione del padre di famiglia era stato comunque invocato con il gravame (v. pag. 4 e 7 dell’appello) e la relativa domanda era stata formalizzata nelle conclusioni dello stesso atto di appello (v. pagg. 11-12), oltre ad essere stata puntualmente reiterata anche nelle conclusioni precisate nel giudizio di secondo grado per come si ricava dal testo delle stesse riportate dopo l’intestazione della sentenza d’appello (v. pag. 2 di quest’ultima).

Del resto anche nella sentenza di primo grado (v. pag. 11) si attesta che tale ulteriore domanda era stata formulata (ancorchè tardivamente) ed era stata, peraltro, comunque esaminata nel merito, pur non venendo ritenuta fondata per il ravvisato difetto del requisito dell’apparenza della servitù (invece considerato, poi, sussistente con la sentenza di seconde cure, per come si discorrerà in seguito in sede di esame della terza doglianza).

Essendo stato proposto l’atto di appello successivamente all’11 settembre 2012, la sua disciplina era sottoposta al testo novellato dell’art. 342 c.p.c., che – nell’interpretazione datane dalle S.U. con la recente sentenza n. 27119 del 2017 – risulta sufficientemente rispettato, donde il rigetto del motivo relativo alla critica avverso l’affermata ammissibilità dell’appello da parte del giudice di secondo grado (v., da ultimo, anche Cass. 13535/2018, ord.).

6. Anche il secondo motivo deve essere disatteso siccome infondato.

Invero, al di là del fatto che la domanda riferita agli artt. 1061 e 1062 c.c. era stata introdotta nel giudizio di primo grado (ancorchè successivamente alla costituzione in giudizio della convenuta), tanto è vero che il Tribunale l’aveva anche esaminata nel merito (e di ciò dà atto anche la sentenza della Corte di secondo grado: v. pag. 7 della sentenza impugnata), rileva il collegio (in modo assorbente) che la stessa – vertendosi in tema di diritti autodeterminati – sia stata, comunque, ammissibilmente avanzata con l’atto di appello (non configurandosi una “mutatio libelli” vietata) e, perciò, legittimamente esaminata nel merito dalla Corte territoriale, con ciò rimanendo esclusa l’asserita violazione degli artt. 99e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4).

Costituisce, invero, principio consolidato nella giurisprudenza di questa Corte (cfr., ex plurimis, Cass. n. 6504/1988; Cass. n. 4460/1997 e Cass. n. 23851/2010) che i diritti assoluti – reali o di status – si identificano in sè e non in base alla loro fonte (“amplius quam semel res mea esse non potest”), come invece accade per i diritti obbligatori; pertanto, l’attore (o il convenuto in via riconvenzionale) può mutare il titolo – atto o fatto, derivativo o costitutivo – in base al quale chiede la tutela del diritto assoluto senza incorrere nelle preclusioni (artt. 183,189 e 345 c.p.c.) e oneri (art. 292 c.p.c.) della modifica della “causa petendi”; nè sussiste violazione del principio della domanda (art. 112 c.p.c.) se il giudice accoglie il “petitum” in base ad un titolo diverso da quello invocato.

7. Pure il terzo ed ultimo motivo è destituito di fondamento e, quindi, non merita accoglimento.

Osserva, in proposito, il collegio che la Corte di appello ambrosiana ha – con motivazione logica ed adeguata, supportata dalle emergenze istruttorie verificato la sussistenza del requisito della visibilità delle opere idonee a fondare la configurazione della servitù per destinazione del padre di famiglia, poichè era possibile desumere, dalla conformazione dei luoghi e dai lavori di ristrutturazione dei luoghi, la percezione dell’esistenza delle contestate tubature, il cui posizionamento era venuto a costituire obiettivamente un peso avente carattere di vincolo reale sull’appartamento a pianterreno della ricorrente che, per l’appartenenza dell’originario immobile ad un solo proprietario, aveva assunto la connotazione di una servitù per destinazione del padre di famiglia per effetto dell’alienazione dei singoli immobili che lo costituivano a diversi soggetti.

In particolare, la Corte territoriale ha dato congruamente conto che, pur se le tubature non erano propriamente visibili perchè coperte da cannicciato (come rilevato dal c.t.u.), tuttavia la valutazione del complessivo stato dei luoghi consentiva di percepire le tubature come posizionate appena sopra la struttura diretta a nasconderle alla vista, peraltro dalla stessa società oggi ricorrente indicata come struttura che “pareva essere un vero e proprio soffitto” e che, in occasione della ristrutturazione dell’immobile, era stata sostituita con una più moderna ed analoga controsoffittatura in cartongesso, come tale fungente da rivestimento delle sottostanti tubature che si diramavano dall’appartamento sovrastante.

Da ciò il giudice di appello (andando correttamente di contrario avviso al giudice di primo grado) ne ha tratto la conseguenza della ritenuta sussistenza di opere manifeste nella loro presenza ed univoca percepibilità (anche sotto il profillo sensoriale uditivo), idonee a rivelare in maniera non equivoca l’esistenza delle tubature che, per la loro posizione, struttura e funzione, costituivano obiettivamente un peso gravante sull’appartamento ubicato al piano inferiore e posto al servizio dell’appartamento soprastante di proprietà della B., che, quindi, esteriorizzavano in modo sufficientemente univoco l’intenzione di quest’ultima, quale proprietaria dominante, di esercitare il diritto di scarico, corrispondente ad un diritto tipico di servitù.

Trattandosi di una valutazione di merito adeguatamente motivata e conforme, sul piano degli esiti giuridici raggiunti, ai principi espressi dalla giurisprudenza di questa Corte, la censura deve essere respinta.

Si deve, infatti, qui ribadire che il requisito dell’apparenza delle servitù, necessario al fine del loro acquisto per destinazione del padre di famiglia (o per usucapione), postula l’esistenza di una situazione di fatto la quale inequivocabilmente riveli per struttura e consistenza l’onere gravante su un fondo a vantaggio di un altro, ancorchè l’apparenza non debba estendersi in ogni caso all’opera nel suo complesso, con la conseguenza che non è l’entità dell’opera che rileva, ma le opere in quanto segno obiettivo ed inequivoco della loro destinazione ad una determinata servitù (cfr., ad es., Cass. n. 9371/1992; Cass. n. 6522/1993; Cass. n. 22829/2005 – che valorizza la necessità della verifica del requisito caso per caso – e, da ultimo, Cass. n. 14292/2017, con cui è stato statuito come la tubatura idrica, pur se collocata al di sotto del pavimento dell’appartamento che funge da fondo costituisca senz’altro un’opera oggettivamente visibile – pure, eventualmente, in via occasionale anche solo in parte, dal proprietario dello stesso, che, di fatto, inequivocabilmente – come, appunto, è il caso di una tubazione di scarico -, rivela, per struttura, funzione e consistenza, l’onere che grava sull’appartamento servente a vantaggio dell’altro).

8. In definitiva, alla stregua delle ragioni complessivamente esposte, il ricorso deve essere rigettato, con la conseguente condanna della società ricorrente, in applicazione del principio della soccombenza, al pagamento delle spese e competenze della presente fase giudiziale, liquidate – in relazione alla natura dell’attività difensiva svolta ed in ragione del valore della controversia – nei termini di cui in dispositivo, dandosi anche atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della stessa ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 2.700,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre contributo forfettario al 15%, iva e cap nella misura e sulle voci come per legge.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, del raddoppio del contributo unificato ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Seconda civile, il 26 giugno 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018

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