Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2617 del 05/02/2020

Cassazione civile sez. trib., 05/02/2020, (ud. 30/04/2019, dep. 05/02/2020), n.2617

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CRUCITTI Roberta – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. FRACANZANI Marcello Maria – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6968-2014 proposto da:

NATIONAL WESTMINSTER BANK PLC, elettivamente domiciliato in ROMA VIA

CICERONE 44, presso lo studio dell’avvocato GIOVANNI CORBYONS, che

lo rappresenta e difende unitamente agli avvocati ALDO RUSSO,

ANTONIO SCALA;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 425/2013 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di

PESCARA, depositata il 26/07/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

30/04/2019 dal Consigliere Dott. FEDERICI FRANCESCO;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero in persona del

Sostituto Procuratore Generale Dott. FRANCESCO SALZANO che ha

chiesto il rigetto del ricorso.

Fatto

RILEVATO

che:

La National Westminster Bank PLC, in qualità di trustee di Baring Global Growth Trust ricorre per la cassazione della sentenza n. 425/10/2013, depositata il 26.07.2013 dalla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, Sez. Staccata di Pescara, con la quale, a conferma della decisione del giudice di primo grado, era rigettata la domanda di rimborso del credito d’imposta sui dividendi incassati negli anni 1995-2000, pari ad Euro 81.683,79;

ha riferito che nelle suddette annualità aveva investito in titoli azionari emessi da società italiane, incassando i relativi dividendi, regolarmente contabilizzati e assoggettati a tassazione nel Regno Unito, così conseguendo -sostiene- il diritto ai relativi crediti d’imposta ai sensi dell’art. 10, comma 4 della Convenzione tra l’Italia e il Regno Unito, regolante le misure a tutela del divieto di doppia imposizione, sottoscritta il 21.10.1988, ratificata e resa esecutiva con L. n. 329 del 2000. L’Agenzia delle Entrate esaminava alcune istanze, relative agli anni 1995-1997, provvedendo all’esecuzione del rimborso della somma di Euro 25.565,82 oltre interessi. Sennonchè a tali rimborsi, eseguiti nel 2002 e nel 2004, seguiva un provvedimento di diniego emesso dalla medesima Agenzia il 29.04.2010, con il quale era disconosciuto il diritto al rimborso del credito d’imposta per tutte le annualità. Per l’effetto era richiesta la restituzione delle somme già versate, incrementate degli interessi.

Le ragioni del provvedimento di diniego erano principalmente fondate sul disconoscimento della figura del Trustee del Trust quale soggetto giuridico cui applicare la Convenzione Italia-Regno Unito, sostenendo che l’ordinamento interno non ne riconosceva la figura, con conseguente inapplicabilità delle nozioni di “residenza” e di “beneficiario effettivo”, perchè non riconducibili ad alcun soggetto rilevante nell’ordinamento.

Era seguito il contenzioso, esitato dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Pescara con la sentenza n. 266/1/2011, che aveva rigettato il ricorso, il Trust impugnato la pronuncia dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale dell’Abruzzo, sez. staccata di Pescara, che aveva rigettato l’appello con la sentenza ora al vaglio della Corte. In sintesi il giudice regionale non aveva accolto le eccezioni sollevate dalla contribuente in ordine alla decadenza della Amministrazione dal potere di diniego del credito d’imposta e di restituzione dei rimborsi già eseguiti; nel merito aveva ribadito l’inapplicabilità della Convenzione perchè il Trust non era compreso tra i soggetti beneficiari; aveva comunque rilevato che non era stata data prova che il ricorrente fosse beneficiario effettivo dei dividendi esteri e che i medesimi fossero stati effettivamente assoggettati a tassazione.

Il Trustee, nella sua qualità, censura la sentenza con cinque motivi:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per aver applicato, quanto al provvedimento di diniego, il termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 2946 c.c. e non quello, più breve, previsto dall’art. 43 della disciplina sull’accertamento;

con il secondo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per aver applicato, quanto alla richiesta di restituzione dei crediti d’imposta, il termine di prescrizione decennale di cui all’art. 2946 c.c. e non quello, più breve, previsto dall’art. 43 della disciplina sulla riscossione;

con il terzo per violazione o falsa applicazione dell’art. 3 comma 1, della Convenzione stipulata tra Italia e Regno Unito contro le doppie imposizioni, approvata e resa esecutiva con L. n. 329 del 1990, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3., per aver dichiarato inapplicabile la Convenzione affermando che il trust non fosse compreso tra i soggetti beneficiari in essa indicati;

con il quarto per violazione o falsa applicazione dell’art. 10, comma 4 della predetta Convenzione stipulata tra l’Italia e il Regno Unito, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere affermato che Baring Trust fosse privo della qualifica di “beneficiario effettivo”, richiesta per il riconoscimento del credito d’imposta;

con il quinto per violazione e falsa applicazione dell’art. 10, comma 4 della Convenzione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 per avere affermato che Baring Trust era privo dei requisiti oggettivi richiesti per l’accesso al credito d’imposta, mancando la prova dell’effettivo assoggettamento a tassazione dei dividendi nel Regno Unito.

Ha in ogni caso rappresentato che, qualora ritenuta corretta l’applicazione del termine decennale di prescrizione per l’esercizio del potere di diniego del credito d’imposta e di richiesta di restituzione di quanto già rimborsato, esso sarebbe in ogni caso decorso per tutte le istanze presentate anteriormente all’anno 2000.

Ha dunque chiesto la cassazione della sentenza, senza rinvio con decisione nel merito, o con rinvio al giudice regionale. In subordine l’accoglimento parziale del ricorso con riguardo ai pagamenti già eseguiti e alle istanze di rimborso presentate dal 1997 al 1999, con cassazione della sentenza e decisione nel merito o rinvio al giudice regionale.

Si è costituita l’Agenzia, che ha contestato i motivi di ricorso, assumendone l’infondatezza e chiedendone il rigetto.

Il ricorrente ha depositato ritualmente memorie ai sensi dell’art. 380 bis.1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

il primo ed il secondo motivo, che possono essere trattati unitariamente perchè l’uno speculare all’altro, dolendosi il trust dell’erronea applicazione del termine decennale al potere della Amministrazione di diniego del rimborso del credito d’imposta e al diritto di richiedere la restituzione di quanto indebitamente già rimborsato, sono infondati.

Il ricorrente sostiene che il giudice regionale abbia erroneamente applicato, quanto al provvedimento di diniego del rimborso del credito d’imposta e quanto alla richiesta di restituzione dei rimborsi già eseguiti a titolo di credito d’imposta, il termine di prescrizione decennale previsto dall’art. 2946 c.c. e non quello decadenziale, più breve, previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, e dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 43.

Afferma che i provvedimenti di diniego del rimborso sono come “atti di accertamento” dell’ammontare delle imposte dovute dal contribuente, non differenziandosi dai provvedimenti emessi dagli artt. 38 e ss. della disciplina contenuta nel D.P.R. n. 600 del 1973, Tenendo anche conto che al contribuente è riconosciuto un termine di 48 mesi per l’invio delle richieste di rimborso, del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, il riconoscimento in favore della Amministrazione del termine di prescrizione decennale al fine del diniego del credito d’imposta costituirebbe una disparità di trattamento tra le parti del rapporto tributario. Peraltro la specificità della materia imporrebbe il ricorso alla normativa del settore tributario e non a quella civilistica, cui appartiene l’art. 2946 c.c.. Conclusioni diverse comporterebbero l’applicazione di una disciplina incidente sulle convenzioni internazionali, discriminando i soggetti residenti in Italia, cui sarebbe applicabile il termine prescritto ai fini dell’accertamento ex art. 43 citato, da quelli non residenti, sottoposti al lungo termine di prescrizione decennale.

Quanto alla richiesta di restituzione delle somme già corrisposte all’istante, sostiene che il giudice d’appello abbia ignorato l’art. 43 in materia di riscossione, che contempla tutti i casi di erroneo rimborso da parte dell’Ufficio, con omogeneo trattamento delle ipotesi sia di disconoscimento di rimborsi emergenti nella dichiarazione dei redditi, sia di disconoscimento di quelli relativi ad altri crediti d’imposta, come quelli interessati dal presente giudizio. Ciò, anche in questo caso, al fine della simmetria temporale tra termini riconosciuti al contribuente per la presentazione dell’istanza di rimborso del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38, e termini riconosciuti alla Amministrazione.

Queste in sintesi le ragioni addotte dal Trust, nessuna di esse è meritevole di condivisione.

Questa Corte, superando un contrasto interpretativo, peraltro afferente alle ipotesi di rimborso d’imposte il cui astratto diritto emergeva dalla dichiarazione dei redditi, ha affermato che l’Amministrazione finanziaria può contestare il credito esposto dal contribuente nella dichiarazione dei redditi anche qualora siano scaduti i termini per l’esercizio del suo potere di accertamento senza che abbia adottato alcun provvedimento, atteso che tali termini decadenziali operano limitatamente al riscontro dei suoi crediti e non dei suoi debiti, in applicazione del principio quae temporalia ad agendum, perpetua ad excepiendum, ex art. 1442 c.c. (Sez. U, sent. n. 5069/2016). A tal fine si è ritenuto più corretta la tesi secondo cui i termini decadenziali “sono apposti solo alle attività di accertamento di un credito della Amministrazione e non a quelle con cui la Amministrazione contesti la sussistenza di un suo debito. Ancorchè simile soluzione susciti una certa disarmonia nel sistema in quanto, decorso il termine per l’accertamento, alla Amministrazione viene consentito di contestare il contenuto di un atto del contribuente solo nella misura in cui tale contestazione consente alla Amministrazione di evitare un esborso e non invece sotto il profilo in cui la medesima contestazione comporterebbe la affermazione di un credito della Amministrazione….. D’altronde la soluzione che il Collegio ritiene preferibile non lascia senza difesa il contribuente che ben può impugnare il silenzio della Amministrazione che non dia seguito alla istanza di rimborso, ottenendo sul punto una pronuncia giudiziale.”. (oltre le Sez. U., cfr. 2392/2018; 5069/2016).

Il principio trovava significativi precedenti. Si era già affermato che il termine stabilito nel D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis – nel testo applicabile ratione temporis, introdotto dal D.P.R. 506 del 1979, art. 1 – entro il quale l’Amministrazione Finanziaria deve provvedere alla liquidazione dell’imposta, ha natura ordinatoria secondo l’interpretazione, avente efficacia retroattiva, che ne ha dato la L. n. 449 del 1997, art. 28, comma 1. Ne consegue che il credito esposto in dichiarazione non si consolida con lo spirare del predetto termine o perchè l’Amministrazione abbia omesso di procedere ad accertamento e rettifica nel termine stabilito nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, così come il diritto al rimborso del contribuente non è sottoposto al termine di decadenza, contenuto nel D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, ma esclusivamente all’ordinario termine di prescrizione decennale, ferma restando la facoltà dell’Ufficio di opporre eccezioni alla domanda di rimborso (sent. n. 9524/2009; 7899/2012).

L’interpretazione delle Sezioni Unite è l’opzione prescelta a superamento di un contrasto, il cui opposto orientamento (tra le ultime cfr. sent. n. 9339/2012) in ogni caso riguardava l’ipotesi del contribuente che avesse presentato la dichiarazione dei redditi. Il caso di specie esula comunque dalla ipotesi del supposto credito riportato in dichiarazione, alla cui presentazione evidentemente il Trust inglese non era tenuta, e ciò giustifica ancor più il riconoscimento della applicabilità del termine decennale.

Trattasi di una soluzione ermeneutica che d’altronde non priva di garanzie il contribuente, sia perchè il diniego di rimborso può sempre essere oggetto di una domanda giudiziale, ottenendo sul punto una pronuncia sulla spettanza o meno del credito medesimo, sia perchè manca una disparità di trattamento quanto ai tempi di esercizio del diritto al rimborso. In particolare, a differenza di quanto sostiene la difesa del ricorrente, non vi è asimmetria tra il termine -di quarantotto mesi del D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 38 – per la richiesta del rimborso e quello decennale per il diniego pronunciato dalla Amministrazione. Sul punto infatti, con orientamento altrettanto consolidato, al contribuente è riconosciuto l’ordinario termine di prescrizione decennale (cfr. Sez. U, sent. n. 2687/2007; sent. 9524 cit.).

Tale conclusione non vale solo per l’ipotesi in cui il contribuente abbia presentato la dichiarazione dei redditi, ma, deve ritenersi, anche per quella relativa a crediti d’imposta per dividendi regolati dalle Convenzioni contro le doppie imposizioni.

In particolare la Corte ha affermato che in tema di imposta sui dividendi, l’art. 10, paragrafo 4, lett. a), della Convenzione tra Italia e Regno Unito per evitare le doppie imposizioni, stipulata il 21 ottobre 1988 e ratificata con L. 5 novembre 1990, n. 329, prevede che un residente nel Regno Unito, che riceve dividendi da una società residente in Italia, ha diritto ad un credito d’imposta pari alla metà del credito d’imposta che spetterebbe sugli stessi dividendi ad una persona fisica residente in Italia. Alla domanda di rimborso parziale di tale credito d’imposta a socio non residente non è riferibile il termine fissato dal D.P.R. n. 602 del 1973, art. 38, relativo ai casi di rimborso derivante da errore materiale, duplicazione o inesistenza parziale o totale dell’obbligo di versamenti, perchè in tale ipotesi il tributo è stato pagato dalla società italiana che ha erogato i dividendi non per errore o in eccedenza rispetto al dovuto, ma in ottemperanza alla legge, e il diritto ad una parziale restituzione legittima alla relativa azione non la società italiana, ma il solo socio estero, in base ad una previsione garantistica del riequilibrio fiscale delle posizioni di soci residenti in Stati diversi; in assenza di qualsiasi indicazione in proposito nella Convenzione, non potendo valere un generico riferimento alle leggi italiane – specie in presenza della previsione (della stessa Convenzione, art. 29, n. 3) che “le Autorità competenti negli Stati contraenti stabiliranno le modalità di applicazione” delle disposizioni relative ai rimborsi, previsione rimasta priva di specifico riscontro sul terreno normativo -, il termine di cui può giovarsi il soggetto estero che aziona un diritto, non strettamente qualificabile come “rimborso”, è quello generale di prescrizione dei diritti soggettivi fissato dall’art. 2946 c.c. (Cass., sent. n. 18442/2012; 21656/2004; in riferimento alla Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra l’Italia e la Francia il 5 ottobre 1989, ratificata e resa esecutiva dalla L. 7 gennaio 1992, n. 20, cfr. sent. n. 691/2015; 13678/2004).

In conclusione l’Amministrazione ben poteva pronunciare un provvedimento di diniego del diritto al credito d’imposta oltre i termini pretesi dal ricorrente.

I principi appena esposti consentono di affermare che nel termine decennale, a decorrere dalla esecuzione dei rimborsi parziali, l’Ufficio poteva anche procedere ad emettere il provvedimento di ripetizione di quanto indebitamente versato. Al recupero di pagamenti indebitamente eseguiti va infatti applicato l’ordinario termine decennale, che non può che decorrere dall’esecuzione del pagamento medesimo. Anche il secondo motivo di ricorso si rivela pertanto infondato.

Il rigetto dei due motivi e la incontestabile decorrenza del termine prescrizionale dalla esecuzione del pagamento consente anche di escludere la fondatezza delle domande formulate in via subordinata e con le quali è stata richiesta la cassazione parziale della sentenza.

Con il terzo e quarto motivo, che possono essere trattati unitariamente perchè afferenti alla medesima questione, il trustee censura la sentenza per aver sostenuto l’inapplicabilità della Convenzione contro la doppia imposizione tra Italia e Regno Unito, affermando che il trust non fosse compreso tra i soggetti beneficiari indicati nella Convenzione medesima, e per aver affermato che Baring Trust fosse comunque privo della qualifica di “beneficiario effettivo”, qualifica richiesta per il riconoscimento del credito d’imposta.

Sul punto la sentenza sostiene che “dall’esame dell’art. 3 della Convenzione Italia – Regno Unito non pare che vi si possa includere il trust. L’art. 3 fa esplicito riferimento a persona fisica, a società e associazione di persone e non è dato rilevare che il trust possa essere assimilato ad una di queste posizioni giuridiche, giacchè nella sua struttura essenziale risultano coinvolti diversi soggetti, ciascuno dei quali -sia esso il settlor, il trustee e il beneficiario- riveste una posizione giuridica rigidamente predeterminata fondata su legami fiduciari. Non aiuta a risolvere il problema della inclusione del trust tra i soggetti convenzionali l’art. 3 -paragrafo 2- del modello OCSE – che sembra estendere la nozione di persona a “qualsiasi ente” – e quindi anche il trust. Occorre evidenziare in proposito che il modello OCSE e il relativo commentario non rientrano tra le fonti del diritto e quindi non possono essere considerati strumenti giuridici vincolanti, a differenza di quanto avviene per le convenzioni bilaterali tra stati;”. Proseguendo, la sentenza assume che gli aggiornamenti del Commentario hanno la capacità di implementare le convenzioni solo a seguito di intese recettizie tra gli Stati contraenti di convenzioni o al momento in cui si avvera una condizione di reciprocità prima inesistente, ciò che, per quanto riguarda l’Italia, sarebbe avvenuto solo con l’inserimento del trust tra i soggetti passivi Ires, a partire dalla legge finanziaria 2007 (L. n. 296 del 2006). La motivazione poi coglie un secondo profilo, ossia la carenza della qualità di beneficiario effettivo del dividendo, dovendo rilevare la assoggettabilità ad imposizione del soggetto che riceve i pagamenti, in qualità di beneficiario finale e non di intermediario o delegato. A tal fine deve trattarsi non già di chi, ricevendo il dividendo non esercita su di esso un potere pieno e incondizionato, ma ne risponde ad altro soggetto. Ciò impone un accertamento caso per caso perchè “la qualificazione giuridica di beneficiario effettivo non può essere circoscritta ad una potenziale assoggettabilità ad imposizione del soggetto che riceve dividendi.”, incombendo al trustee l’onere di fornire la prova che il dividendo non viene distribuito.

La motivazione è criticata dal ricorrente perchè il tenore dell’art. 3 della Convenzione deporrebbe per una interpretazione contraria a quanto affermato dal giudice d’appello, e perchè una pluralità di elementi, provenienti dal Commentario OCSE e dalla stessa Amministrazione finanziaria, confermerebbero il riconoscimento del trust ai fini della applicazione della Convenzione. Quanto alla riconducibilità del trust tra i beneficiari effettivi, richiesto per l’accesso al credito d’imposta, la certificazione allegata proverebbe il suo assoggettamento ad imposta nel Regno Unito e la sua residenza fiscale.

I motivi sono complessivamente infondati sebbene la motivazione della pronuncia vada in parte corretta ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 4, nei termini appresso esposti.

Come peraltro evidenziato dal ricorrente, l’art. 3 comma 1, della Convenzione tra Italia e Regno Unito, che contiene le definizioni generali, viene introdotto dalla premessa “a meno che il contesto non richieda una diversa interpretazione”; poi identifica i soggetti cui l’intesa trova applicazione e in particolare alla lett. d) “il termine “persona” comprende le persone fisiche, le società ed ogni altra associazione di persone, ma non comprende le società di persone le quali non sono considerate persone giuridiche ai fini dell’imposizione in ciascuno Stato contraente”, alla lett. e) “il termine “società” designa qualsiasi persona giuridica o qualsiasi ente che è considerato persona giuridica ai fini dell’imposizione;.. “.

E’ significativo che la norma in premessa faccia salva la possibilità di attribuire un diverso significato ai sintagmi utilizzati, in ragione del contesto in cui ciò torni evidentemente utile alla concreta attuazione della Convenzione. E’ pur vero che il significante “contesto”, termine sufficientemente generico, quasi metagiuridico, può assumere valenze diverse quando si interpreti la Convenzione, ma se si tiene conto della funzione dell’accordo internazionale, nella evoluzione dei sistemi giuridici e sociali di ciascuno Stato che alla Convenzione aderisca, deve ritenersi che esso consenta di tener conto del quadro economico-giuridico nel quale un ente abbia trovato sviluppo e riconoscimento, imponendosi all’attenzione come soggetto giuridico alla cui tutela avverso le doppie imposizioni la Convenzione è rivolta.

D’altronde la dottrina ha rilevato che, nonostante non vi sia neppure nel Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni una definizione di trust, una interpretazione estensiva della nozione di “persona”, come definita dall’art. 3, può supportare l’inclusione del trust. Si è infatti sostenuto che essa possa essere assimilata ad “ogni altra associazione di persone” (riprodotta sostanzialmente nel paragrafo 1, lett. d della Convenzione Italia – Regno Unito). Tanto più che, è stato sempre sottolineato dalla dottrina, l’articolo del modello va letto in combinato disposto con il paragrafo 1 del Commentario ad esso relativo, secondo cui l’elencazione dei soggetti non è esaustiva e va interpretata in senso lato.

E’ dunque quanto meno corretto che nella interpretazione della Convenzione si tenga conto dell’affermarsi, sul piano socio-economico-giuridico, di nuovi soggetti, senza necessità che il loro riconoscimento e la loro riconducibilità nell’alveo dell’art. 3 lett. d) dell’accordo tra Italia e Regno Unito richieda una implementazione dell’accordo medesimo.

L’inclusione di un nuovo ente si giustifica infatti nella premessa formulata nell’art. 3 cit., ricorrendo ad una interpretazione adeguata che tenga conto anche dei principi enucleabili dal Commentario. In altre parole quella premessa rende la norma un contenitore giuridico a struttura aperta, capace di adeguarsi al contesto economico ed alle esigenze fiscali per le quali la Convenzione stessa è stata sottoscritta.

Questo ovviamente non significa che la Convenzione possa applicarsi a qualunque ente, e neppure è sufficiente che esso si sia affermato in uno solo degli Stati tra cui vige la Convenzione. Ciò che si richiede è quanto meno la registrazione di un fenomeno economico che abbia assunto nella prassi dei due Paesi, a prescindere dalla sua sistemazione normativa, una identità giuridica autonoma rispetto ai soggetti aggregati che lo compongono.

Ebbene, il trust, come fenomeno giuridico registrato, riconosciuto e studiato nella realtà socio-economica e giuridica italiana, costituiva un ente già operante all’epoca dei rapporti fiscalmente rilevanti in questo giudizio. E’ sufficiente rammentare che i trusts trovano riconoscimento nel nostro ordinamento già a seguito della ratifica della convenzione dell’Aja del 10 luglio 1985, intervenuta con L. 16 ottobre 1989, n. 364, entrata in vigore a far data dal 10 gennaio 1992. Il Comitato di coordinamento del Servizio centrale degli ispettori tributari aveva emanato la Delib. n. 37 del 1998 dell’11 maggio 1998, avente ad oggetto “la circolazione dei trust esteri in Italia”, sostenendone la soggettività ai fini Irpeg. Almeno dalla metà degli anni ‘90 numerosi tribunali italiani si sono occupati del trust (trib. Milano del 27.12.1996; Trib. Genova del 24.03.1997; Trib. Lucca del 23.09.1997) e la giurisprudenza di merito si infittisce dagli inizi dell’anno 2000.

A fronte di tali evidenze, emergenti globalmente in più Stati, il riconoscimento del trust nel Commentario OCSE (art. 3 paragrafo 2 del modello OCSE) non è altro che la “registrazione” di un fenomeno ampiamente diffuso, cui era già da tempo, e dunque ben prima dell’assoggettamento del trust ai fini Ires a partire dal 2007, attribuita soggettività ed autonomia giuridica.

Dunque non è corretta la decisione laddove ha ritenuto che la Convenzione tra Italia e Regno Unito non potesse trovare applicazione al trust, non rientrando nella definizione dell’art. 3. Sotto tale profilo la motivazione della sentenza impugnata va pertanto corretta.

Ciò che tuttavia la pronuncia coglie correttamente è che la struttura del trust non è unica, variando in base al modello utilizzato e al paese in cui si è sviluppato (sia esso di common law, sia esso di civil law), sicchè, per quanto qui d’interesse e senza diffondersi in analisi generali, sarebbe stato necessario avere riscontri della struttura del trust, dei vincoli posti in capo al trustee, della possibilità di identificazione del beneficiario, a sua volta palese oppure occulto. Spettava a questo punto al trustee ricorrente chiarire la dimensione giuridica del trust, illustrarne la sua appartenenza al modello trasparente oppure opaco. Ciò al fine di far comprendere e far identificare, ove possibile, il beneficiario effettivo dei dividendi percepiti (cfr. Cass., sent. n. 27112/2016 in materia di holding e subholding, al fine della identificazione della qualità del beneficiario effettivo). Ciò non è avvenuto, venendo meno dunque la possibilità di riscontro di un requisito richiesto per il riconoscimento del credito d’imposta.

Per completezza va dichiarato infondato anche il quinto motivo, con cui il ricorrente si duole del fatto che il giudice d’appello abbia erroneamente ritenuto che Baring Trust fosse privo dei requisiti oggettivi richiesti per l’accesso al credito d’imposta, mancando la prova dell’effettivo assoggettamento a tassazione dei dividendi nel Regno Unito.

Il ricorrente sostiene che per l’applicazione della Convenzione non si rende necessario che nel Paese di residenza il beneficiario sia stato sottoposto effettivamente al pagamento dell’imposta, essendo invece sufficiente che i redditi percepiti siano assoggettabili a tassazione. A tal fine sostiene di aver dato prova che i dividendi incassati in Italia erano stati regolarmente contabilizzati nel Regno Unito, concorrendo alla determinazione del reddito complessivo, così assoggettati a tassazione.

Sennonchè questa Corte, con orientamento ormai consolidato a cui il Collegio intende dare continuità, ha affermato che il diritto al rimborso delle ritenute alla fonte sugli utili percepiti da una società residente in uno Stato membro dell’Unione Europea, che sia titolare di partecipazione non inferiore al 25% del capitale sociale di società residente in Italia, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27-bis, “ratione temporis” vigente, richiede, quale necessario presupposto, la produzione della certificazione, rilasciata dalle competenti autorità fiscali dello Stato estero, relativamente alla soggezione non in astratto, ma in concreto, della società ad uno dei tributi indicati nella direttiva 435/90/CEE del Consiglio, trovando applicazione la regola generale desumibile dal precedente del medesimo D.P.R. n. 600 del 1973, art. 27, comma 3 (Cass., sent. n. 4771/2017; 23367/2017, relativa alla Convenzione Italia – Francia; cfr. anche 4165/2013 e, con riferimento proprio alla Convenzione Italia – Regno Unito, cfr. 4568/2019).

La giurisprudenza ora citata non si pone neppure in contrasto con quella invocata dal ricorrente, che riguarda i diversi rapporti pattizzi instaurati dall’Italia con Paesi estranei ai rapporti Eurocomunitari, e d’altronde una diversa interpretazione condurrebbe ad effetti distorsivi nell’ambito della concorrenza del mercato, incidendo e violando principi e normative comunitarie.

In conclusione tutti i motivi sono infondati e l’intero ricorso va rigettato.

Considerato che:

La complessità delle questioni rende corretta la compensazione delle spese di causa.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese del giudizio di legittimità. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 30 aprile 2019.

Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2020

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