Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26167 del 21/11/2013


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Civile Ord. Sez. 6 Num. 26167 Anno 2013
Presidente: GOLDONI UMBERTO
Relatore: PETITTI STEFANO

distanze

ORDINANZA
sul ricorso proposto da:

VOZZA Maria Grazia (VZZ MGR 53A58 B8600), rappresentata e
difesa, per procura speciale a margine del ricorso,
dall’Avvocato Stefano Riello, elettivamente domiciliata in
Roma, (via della Camulliccia n. 19, presso l’Avvocato
Claudio Marcone;

ricorrente

contro
MINGIONE Carlo (MNGCRL 64S12 B860B), rappresentato e
difeso, per procura a margine del controricorso, dagli
Avvocati Francesco Casertano e Rosina Casertano,
elettivamente domiciliato in Roma, via Panama n. 74, presso
l’Avvocato Emilio Iacobelli;
– controricorrente –

Data pubblicazione: 21/11/2013

avverso la sentenza n. 363 del 2010 della Corte d’appello
di Napoli, depositata il 29 gennaio 2010.

Udita

la relazione della causa svolta nella camera di

consiglio del 4 ottobre 2013 dal Consigliere relatore Dott.

sentito

il P.M., in persona del Sostituto Procuratore

Generale Dott. Ignazio Patrone, che nulla osserva in ordine
alla relazione di cui all’art. 380-bis cod. proc. civ.

Ritenuto

che Maria Grazia Vozza, proprietaria di un

fabbricato sito in Casagiove (CE) in Via Gaiano n. 64,
confinante ad est con la proprietà del Sig. Carlo Mingione,
composta da fabbricato e retrostante cortile, sostenendo
che quest’ultimo, in occasione dei lavori di
ristrutturazione del proprio fabbricato, avesse provocato
infiltrazioni d’acqua piovana, con danni alle pareti
interne ed esterne ed avesse realizzato ex novo un corpo di
fabbrica in cemento armato in violazione delle distanze
legali dal confine, lo conveniva in giudizio chiedendone
la condanna al risarcimento in proprio favore dei danni
subiti per le infiltrazioni d’acqua nonché all’abbattimento
del nuovo corpo di fabbrica illecitamente realizzato;
che l’adito Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, con
sentenza n. 2704 del 2004, accoglieva la domanda attorea
limitatamente al risarcimento dei danni da infiltrazioni,

Stefano Petitti;

rigettando,

invece,

quella relativa all’abbattimento

dell’opera realizzata dal convenuto;
che avverso tale provvedimento proponeva appello la
Sig.ra Vozza e l’appellato, costituitosi, proponeva appello

accolto la domanda risarcitoria dell’attrice;
che, dichiarata dalla Corte d’appello di Napoli
l’inammissibilità del gravame così proposto e la tardività
dell’appello incidentale con sentenza n. 363 del 2010,
restava integralmente confermato il provvedimento di primo
grado;
che i giudici di secondo grado ritenevano che le
censure dell’appellante principale non cogliessero nel
segno, essendosi questa limitata ad una critica al concetto
di sopraelevazione cui i giudici di primo grado avevano
fatto riferimento in relazione alla costruzione in oggetto
nonché alla ritenuta facoltà di edificazione in aderenza,
senza muovere censura alcuna in merito alla riconosciuta
operatività del principio della prevenzione nel caso di
specie, vero cardine della decisione impugnata;
che per la cassazione della sentenza della Corte
d’appello di Napoli Maria Grazia vozza ha proposto ricorso
articolato in due motivi:
a) violazione e falsa applicazione dell’art. 112 cod.
proc. civ., in relazione all’art. 360 n.

3

4;

error in

incidentale per la riforma del capo di sentenza che aveva

procedendo;

violazione

del

principio

di

corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato;
omessa pronuncia, per non avere la Corte di appello
analizzato le censure e le argomentazioni proposte;

873 cod. civ. e art. 21 delle norme di attuazione del
P.R.G. del Comune di Casagiove, nonché omessa,
insufficiente o contraddittoria motivazione in
riferimento all’art. 360 nn. 3 e 5 cod. proc. civ.,
per non avere la Corte di appello preso atto della
violazione della distanza e non avere
conseguentemente condannato il convenuto al
ripristino della situazione ex ante;
che ha resistito il Sig. Mingione, il quale ha chiesto
il rigetto integrale del ricorso avversario, con tutte le
conseguenze di legge, anche in ordine alle spese e agli
onorari;
che, essendosi ravvisate le condizioni per la
trattazione del ricorso in camera di consiglio è stata
redatta relazione ai sensi dell’art. 380-bis cod. proc.
civ., che è stata comunicata alle parti e al Pubblico
Ministero.
Considerato che il relatore designato ha formulato la

seguente proposta di decisione:
[(m)I1 ricorso è inammissibile.

b) violazione e falsa applicazione degli artt. 869, 871

La Corte di appello, nel rigettare il gravame, ha ritenuto
che lo stesso non fosse ammissibile in quanto formulato in
violazione del principio di specificità dei motivi di
appello e non correlato alla motivazione della sentenza

merito delle doglianze presentate dall’appellante.
Erra allora la ricorrente a lamentare solamente la
violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e
il pronunciato e l’omessa pronuncia sui motivi di appello.
Ciò che il ricorrente avrebbe dovuto lamentare è, infatti,
la violazione di norme di diritto con riferimento all’art.
342 cod. proc. civ. sulla forma dell’appello: solo una
doglianza così formulata avrebbe, eventualmente, potuto
meritare accoglimento. Non avendo impugnato la decisione
d’appello in punto di inammissibilità, a nulla vale
lamentare l’omessa pronuncia da parte del giudice
distrettuale, né l’erroneità della stessa: rilevata
l’inammissibilità, ogni altra censura resta preclusa. Né
potrebbe questa Corte, in assenza di una puntuale censura
sul punto, rilevare l’erroneità della statuizione della
Corte di appello. Vale ricordare, infatti, che il controllo
di legittimità devoluto alla Corte di Cassazione trova i
suoi invalicabili limiti nell’oggetto e nel contenuto dei
motivi di ricorso, nel senso che l’esame della questione
sottoposta al vaglio della corte regolatrice deve

impugnata; conseguentemente, non procedeva ad esaminare il

arrestarsi alle sole argomentazioni ed affermazioni
contenute nella sentenza impugnata che siano indicate come
oggetto di censura da parte del ricorrente, ed alle sole,
correlative censure conseguentemente sollevate (Cass. n.

secondo motivo di ricorso, resta assorbito.
Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte e qualora
il collegio condivida i rilievi in precedenza formulati, si
ritiene che il giudizio possa essere trattato in camera di
consiglio ed essere dichiarato inammissibile»;
che entrambe le parti hanno depositato memoria;
che il Collegio condivide la proposta di decisione,
rilevando che le deduzioni svolte dalla ricorrente non
appaiono idonee ad indurre a differenti conclusioni;
che deve infatti ribadirsi che il ricorso non ha colto
la ratio decidendi

della sentenza impugnata, la quale ha

dichiarato inammissibile l’appello in quanto con lo stesso
l’appellante non aveva censurato la

ratio

posta dal

Tribunale a fondamento della propria decisione; ratio che,
a prescindere dalla sua fondatezza o no, imponeva la
proposizione di uno specifico motivo di gravame, nella
specie non proposto, se non, tardivamente, nella comparsa
conclusionale;
che le argomentazioni svolte dalla ricorrente nella
memoria non introducono elementi di novità rispetto alle

10621 del 1997). Essendo mancata una tale censura, il

questioni già prospettate con il ricorso ed esaminate nella
relazione, risolvendosi per il resto in una rivisitazione
del merito della controversia;
che, pertanto, il ricorso deve essere dichiarato

in applicazione del principio della soccombenza, al
pagamento delle spese del giudizio di legittimità.
PER QUESTI MOTIVI

La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna la
ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di
legittimità, che liquida in complessivi euro 2.000,00 per
compensi, oltre ad euro 200,00 per esborsi e agli accessori
di legge.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della
Sesta Sezione Civile – 2 della Corte suprema di Cassazione,
il 4 ottobre 2013.

inammissibile, con conseguente condanna della ricorrente,

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