Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26167 del 17/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 17/11/2020, (ud. 25/02/2020, dep. 17/11/2020), n.26167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BISOGNI Giacinto – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. NONNO Giacomo Maria – Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 3475-2013 proposto da:

LIGURFARMA SRL in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DI VILLA SACCHETTI 9, presso

lo studio dell’avvocato GIUSEPPE MARINI, che lo rappresenta e

difende unitamente all’avvocato ERNESTINA POLLAROLO giusta delega a

margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI GENOVA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 146/2011 della COMM. TRIB. REG. di GENOVA,

depositata il 07/12/2011;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

25/02/2020 dal Consigliere Dott. SAIJA SALVATORE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

VISONA’ STEFANO che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito per il controricorrente l’Avvocato PELUSO che si riporta agli

atti.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L’Ufficio di Genova 1 – sulla base di un p.v.c. redatto da propri funzionari nel 2006 a seguito di verifica – notificò a Ligurfarma s.r.l. (società esercente l’attività di commercio all’ingrosso di medicinali) un avviso di accertamento e di irrogazione di sanzioni, in relazione all’anno 2003, rideterminando il dovuto per IRPEG, IVA ed IRAP, specialmente (per quanto ancora qui interessa) per l’omessa contabilizzazione di ricavi in misura pari ad Euro 58.402,30.

Impugnato detto avviso dalla società, la C.T.P. di Genova, con sentenza n. 249/5/08, accolse parzialmente il ricorso, relativamente al recupero delle quote di ammortamento eccedenti, nonchè di costi non documentati e non inerenti, e relative sanzioni. Con successiva sentenza del 7.12.2011, la C.T.R. della Liguria accolse solo parzialmente l’appello principale della società (limitatamente al recupero di costi non documentati e non inerenti, nonchè alle sanzioni sulle provvigioni erroneamente contabilizzate), nonchè quello incidentale dell’Ufficio, confermando nel resto la sentenza impugnata. Osservò in particolare il giudice d’appello, per quanto ancora qui interessa, che l’Ufficio aveva correttamente proceduto alla rideterminazione dei ricavi mediante la loro ricostruzione indiretta, applicando le percentuali di ricarico al costo del venduto, avuto riguardo ad un campione significativo e rappresentativo di beni per ciascun fornitore; ciò tanto più che l’utile d’esercizio esposto in bilancio per l’annualità in discorso era pari ad appena Euro 32.922,00, con una percentuale di redditività pari allo 0,5%, e quindi palesemente antieconomico.

Ligurfarma s.r.l. ricorre ora per cassazione, sulla base di due motivi. L’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1 – Con il primo motivo, si denuncia violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, e degli artt. 2967 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente censura la decisione impugnata per aver ritenuto sufficiente – ai fini della verifica della legittimità dell’operato dell’Ufficio mediante il metodo analitico-induttivo, e segnatamente quello delle percentuali di ricarico sul costo del venduto – la circostanza che si sia operato su un campione rappresentativo di beni per ciascun fornitore, omettendo ogni valutazione sulla necessità della ponderazione del campione significativo e rappresentativo dei beni compravenduti, in linea con la costante interpretazione giurisprudenziale.

1.2 – Con il secondo motivo si lamenta violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25, e degli artt. 2967 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente, ancora, si duole della violazione dei medesimi parametri normativi anche sotto altro profilo, per aver ritenuto sussistente un indice di gestione antieconomica – per di più quale presupposto per l’utilizzo del metodo delle percentuali di ricarico secondo modalità semplificate – nella consistenza “poco significativa” dell’utile di esercizio per l’anno 2003 (poco più di Euro 32.000) e della percentuale di redditività.

1.3 – Con il terzo e il quarto motivo si deduce omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Rileva la ricorrente che, a fronte di specifiche censure propugnate in appello su precise circostanze di fatto – e segnatamente: a) sulla corretta campionatura dei beni oggetto di commercio; b) sulla corretta determinazione del costo medio ponderato di ciascun bene; c) sulla corretta determinazione del prezzo di vendita medio ponderato di ciascun bene; d) sulla individuazione della percentuale di ricarico media ponderata – la C.T.R. si sia limitata ad affermare la legittimità dell’operato dell’Ufficio, perchè basato sull’esame di un campione significativo e rappresentativo di beni per ciascun fornitore. Così facendo, il giudice d’appello ha del tutto omesso di motivare su tali dati controversi, e comunque ha reso una motivazione gravemente insufficiente sul punto.

2.1 – I primi due motivi possono esaminarsi congiuntamente, perchè strettamente connessi; essi sono infondati.

In primo luogo, va osservato che il ricorso al metodo analitico-induttivo di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), stante la valutazione di inattendibilità delle scritture contabili operata dall’Ufficio, è stato correttamente ritenuto legittimo dal giudice d’appello, giacchè tale valutazione è fondata sulla esiguità dell’utile d’esercizio per l’anno 2003 (poco più di Euro 32.000,00, come s’è detto), a fronte di un volume d’affari superiore a Euro 6 min. (con una redditività pari allo 0,5%), il che denota indubitabilmente l’apparente antieconomicità della gestione e costituisce una presunzione connotata del carattere della gravità e precisione (si veda, al riguardo, la recente Cass. n. 27552/2018, secondo cui “In tema di accertamento, l’Amministrazione finanziaria può determinare il reddito del contribuente in via induttiva, pur in presenza di contabilità formalmente regolare, ove quest’ultima sia intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, che può desumersi anche da un unico elemento presuntivo, purchè preciso e grave, quale l’abnormità della percentuale di ricarico”). Ciò vale, ovviamente e per quel che qui interessa, anche riguardo all’IVA e all’IRAP, avuto riguardo al disposto del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e del D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 25.

2.2 – Quanto alla questione dell’omessa ponderazione dei risultati ottenuti, è noto l’insegnamento secondo cui “In tema di accertamento induttivo del reddito di impresa fondato sulle percentuali di ricarico della merce venduta, la scelta tra il criterio della media aritmetica semplice e quello della media ponderale dipende, rispettivamente, dalla natura omogenea o disomogenea degli articoli” (così, ancora, la già citata Cass. n. 27552/2018). Peraltro, ove il contribuente contesti il metodo, “il giudice di merito è tenuto a verificare la scelta dell’Amministrazione in relazione alle censure prospettate, tenendo conto della natura, omogenea o disomogenea, dei beni-merce nonchè della rilevanza dei campioni selezionati, e la loro rispondenza al criterio di media (aritmetica o ponderale) prescelto” (Cass. n. 26589/2018).

In proposito, con l’atto d’appello la società aveva tra l’altro rilevato che il metodo in discorso era comunque erroneo, giacchè la ponderazione deve essere effettuata non già tra fornitori, ma tra beni, così dovendo ottenersi il ricarico medio ponderato totale, da applicarsi al costo del venduto.

Ora, come chiarito dalla stessa Agenzia nelle controdeduzioni di primo grado (riportate alle pp. 15 e 16 del ricorso ed esplicative delle tabelle pure riportate alle pp. 3-8), i verificatori i) hanno dapprima calcolato il costo del venduto riguardo ai più significativi fornitori (14) di Ligurfarma, individuando l’incidenza (I%) di ciascuno di essi sul totale di detti acquisti; ii) hanno poi individuato il costo del venduto complessivo (CV); iii) hanno calcolato il ricarico medio ponderato per ciascun fornitore (sulla base dell’incidenza di ciascuno) prendendo in esame un numero rappresentativo di prodotti (da 8 a 15); iv) sono quindi giunti al ricarico medio ponderato totale (RM%), pari al 36,99%, applicandolo al costo del venduto complessivo e così giungendo al valore presunto dei ricavi (VPR) pari ad Euro 6.574.003,74, superiore a quello dichiarato (F) pari ad Euro 6.515.601,43, e così individuando i ricavi non dichiarati nella differenza, pari ad Euro 58.402,30.

Sul punto, la C.T.R. ha testualmente osservato che “l’accertamento operato dall’ufficio sui ricavi è perfettamente legittimo, avendo anche operato su un campione significativo e rappresentativo di beni per ciascun fornitore”. Pertanto, ove si tenga conto che i 14 principali fornitori della società, rappresentano ben più della metà del suo fatturato (come può ampiamente evincersi dall’art. 1 al p.v.c. riportato a p. 3 del ricorso) e che l’espressione del ricarico medio per ciascun fornitore è stata poi ponderata in relazione alla sua incidenza sul fatturato complessivo (v. penultima colonna delle tabelle riportate alle pp. 4-8 del ricorso), il conclusivo giudizio di correttezza dell’accertamento da parte della C.T.R., seppur reso sinteticamente, non collide con la normativa in rubrica, perchè sostanzialmente riferito anche alla ponderazione, nella specie necessaria stante la diversità di prodotti venduti. Può dunque dirsi che tale procedimento, benchè per il tramite dei fornitori, ha finito per investire direttamente i beni da questi venduti alla odierna ricorrente, rappresentativi di ben oltre la metà del fatturato. Reputa dunque il Collegio che la censura in esame sia destituita di fondamento.

3.1 – Il terzo e il quarto motivo, da esaminarsi congiuntamente perchè connessi, sono inammissibili.

Con detti mezzi, infatti, la ricorrente finisce col sollevare pretesi vizi motivazionali attinenti non già a fatti (principali o secondari), bensì a questioni, non a caso già specificamente veicolate con le censure già esaminate, proposte ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Al riguardo, costituisce principio consolidato quello secondo cui “Il motivo di ricorso con cui, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, come modificato dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2, si denuncia omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione, deve specificamente indicare il “fatto” controverso o decisivo in relazione al quale la motivazione si assume carente, dovendosi intendere per “fatto” non una “questione” o un “punto” della sentenza, ma un fatto vero e proprio e, quindi, un fatto principale, ex art. 2697 c.c., (cioè un fatto costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) od anche un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo” (Cass. n. 17761/2016).

4.1 – In definitiva, il ricorso è rigettato. Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

la Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.600,00 per compensi, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 25 febbraio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2020

 

 

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