Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26167 del 06/12/2011

Cassazione civile sez. trib., 06/12/2011, (ud. 06/07/2011, dep. 06/12/2011), n.26167

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ADAMO Mario – Presidente –

Dott. BOGNANNI Salvatore – Consigliere –

Dott. DIDOMENICO Vincenzo – Consigliere –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna Concetta – Consigliere –

Dott. TERRUSI Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 26210/2006 proposto da:

IDEAL ARREDO SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del Liquidatore pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA CARDINAL DE LUCA 10,

presso lo studio dell’avvocato GIONTELLA MARCO, che lo rappresenta e

difende, giusta delega in calce;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’ECONOMIA E FINANZE in persona del Ministro pro

tempore, AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e difende ope

legis;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 435/2005 della COMM. TRIB. REG. SEZ. DIST. di

LATINA, depositata il 29/06/2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/07/2011 dal Consigliere Dott. FRANCESCO TERROSI;

udito per il ricorrente l’Avvocato GIONTELLA, che ha chiesto

l’accoglimento;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso

in subordine accoglimento per quanto di ragione.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

L’ufficio Iva di Latina notificò alla s.r.l. Ideai Arredo due avvisi di rettifica delle dichiarazioni iva rispettivamente attinenti agli anni 1994 e 1995.

Accertò, invero, minori crediti d’imposta per entrambi gli anni.

La società propose dapprima ricorso alla commissione tributaria provinciale di Latina; e quindi appello contro la relativa decisione di rigetto.

Anche l’appello venne respinto dalla commissione tributaria regionale del Lazio, la quale considerò che l’ufficio aveva accertato la costante dichiarazione – dal 1989 al 1994 – di un volume d’affari di molto inferiore agli acquisti, e che solo nel 1995 la società aveva applicato al costo del venduto una modestissima percentuale di ricarico (5,4357 %), determinativa di un volume d’affari non riconducibile ad alcun criterio di razionalità imprenditoriale.

Considerò che una tale anomala situazione era emersa dai dati esposti nei bilanci, confrontati con quelli evinti dalle dichiarazioni, e ritenne pertanto assolto, negli indicati profili, l’onere probatorio incombente sull’amministrazione finanziaria. Di contro soggiunse che, relativamente alle notevoli discrepanze emerse tra il volume d’affari asseritamente realizzato e il costo del venduto, le argomentazioni della società – intese a riferire il dato all’attuazione di una politica di sconti, nel tentativo di risanare una gestione in perdita – erano state giustamente ritenute inidonee dai primi giudici a giustificare la sproporzione riscontrata, al riguardo invocando l’insegnamento di questa Corte, secondo cui, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni di economia, è legittimo l’accertamento previsto dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, (corrispondente alla modalità analitico – induttiva di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54) ove il contribuente non ne spieghi in alcun modo, o non giustifichi in maniera convincente, la ragione. In tal senso ritenne la commissione, appunto, non convincenti e non plausibili le giustificazioni rese dalla società.

Infine considerò: (a) che, contrariamente a guanto affermato nei motivi di gravame, l’accertamento non poteva ritenersi contrastante con la disposizione contenuta nel D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, essendo comunque consentita la rettifica su base presuntiva dinanzi a gravi incongruenze tra i dati dichiarati e i dati desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni dell’attività svolta; (b) che la percentuale di ricarico era stata determinata ai sensi del D.L. 19 dicembre 1984 (n. 853), con riguardo al settore di appartenenza dell’attività commerciale, ed era stata applicata in misura inferiore, e dunque più favorevole al contribuente, pari all’85 %, rispetto a uno standard del 122 %.

Contro questa sentenza, resa pubblica il 29 giugno 2005, la società ha proposto ricorso per cassazione affidato a sette motivi.

Il ministero dell’economia e finanze e l’agenzia delle entrate hanno resistito con controricorso.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – Va dichiarata l’inammissibilità del ricorso a misura del coinvolgimento del Ministero dell’economia e delle finanze, che non fu parte degli antecedenti gradi di merito; ed essendo, difatti, l’agenzia delle entrate, alla data in cui fu pronunciata la sentenza d’appello, unica titolare dei poteri giuridici strumentali all’adempimento delle obbligazioni tributarie, in quanto successore a titolo particolare del Ministero in ordine a tali rapporti a decorrere dalla data relativa di operatività (1 gennaio 2001); con conseguente assunzione in via esclusiva della gestione del contenzioso e connessa spettanza dell’esercizio delle facoltà processuali in ordine all’impugnazione proposta in sede di legittimità (per tutte, sez. un. 2006/3116).

La non ancora stabile giurisprudenza sul tema, con riguardo all’epoca di introduzione del presente giudizio, giustifica la compensazione delle spese nel rapporto con l’ente erroneamente evocato.

2. – Il primo motivo denunzia “violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 56, L. n. 241 del 1990, art. 3, e L. n. 212 del 2000, art. 7, per avere i giudici ritenuto motivato l’avviso di accertamento”; nonchè “omessa pronuncia su un punto decisivo della controversia per non essersi i giudici espressi in relazione all’eccepito vizio di difetto di motivazione”; il tutto ai sensi dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Nella sostanza, si chiede alla Corte di stabilire se la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto legittima la motivazione dell’avviso di accertamento recante, ai fini della determinazione dell’imponibile, asserite considerazioni soltanto astratte, si sia posta in contrasto con le indicate previsioni di legge.

Osserva il collegio che il motivo muove dall’affermazione che tanto in primo grado, quanto in appello, era stato eccepito, tra l’altro, un vizio di legittimità degli atti impositivi per difetto di motivazione.

Ma tanto non risulta dall’impugnata sentenza.

Consegue che, in quanto denunziante, nella prima parte, un errore di diritto (art. 360 c.p.c., n. 3), e, nella seconda, un’omissione di pronuncia, il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non risultando dalla sentenza – nè essendo trascritto nel ricorso – un motivo specifico di opposizione in tal senso svolto contro l’atto impositivo e – soprattutto – un conforme motivo d’appello della società contro la pronuncia di primo grado.

3. – Il secondo e il sesto motivo possono essere congiuntamente esaminati in quanto connessi nel riferimento al presupposto della operata rettifica del volume d’affari con metodo induttivo, e della ripartizione dell’onere probatorio afferente.

Nello specifico la società – richiamando l’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, – denunzia, col secondo motivo, violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, per avere il giudice tributario ritenuto applicabile un metodo di accertamento presuntivo sebbene in mancanza dei relativi presupposti.

Sostiene che l’accertamento con metodo presuntivo non può ritenersi giustificato dalla semplice affermazione circa l’antieconomicità delle scelte imprenditoriali. Denunzia altresì, nel contesto del medesimo motivo, (1) una insufficiente motivazione della sentenza, stante che questa si sarebbe limitata ad affermare – genericamente l’antieconomicità dell’attività svolta senza spiegare la ragione per cui la specifica realtà aziendale, come descritta e documentata negli atti processuali, dovesse ritenersi invece irrilevante; e (2) una omessa pronuncia in merito alla eccepita contraddittorietà della stessa sentenza di primo grado sull’anzidetto profilo di illegittimità. Col sesto motivo, la ricorrente – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, – censura la sentenza per violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c., sostenendo che, nei termini sopra esposti, valorizzando cioè, a presupposto della rettifica, la sola generica affermazione di antieconomicità dell’azione imprenditoriale, essa avrebbe di fatto invertito il principio dell’onere probatorio, fondando la decisione su un’ inesistente presunzione di legittimità degli atti emessi dall’amministrazione finanziaria; avrebbe inoltre reso la decisione facendo riferimento a documenti non citati, nè prodotti dall’ufficio.

4. – Le censure consegnate ai suddetti due motivi sono in parte inammissibili e in parte infondate.

(A) Inammissibili si rivelano (1) la censura di omessa pronuncia di cui all’ultima parte del secondo motivo, in guanto riferita a una statuizione (circa l’asserita contraddittorietà della sentenza di primo grado) non richiesta al giudice d’appello, cui è invece demandato – nei limiti della devoluzione involta dai motivi di gravame – di decidere la regiudicanda in funzione interamente sostitutiva rispetto alla prima sentenza; (2) la seconda censura di cui al sesto motivo, allusiva di una decisione resa con riferimento a documenti non citati, nè prodotti, perchè intesa a sollecitare un sindacato di fatto circa la valutazione del materiale probatorio.

(B) Infondate sono le restanti censure, di cui ai soprascritti motivi, per le considerazioni appresso indicate. La giurisprudenza è da tempo orientata a sostegno dell’affermazione che, a fronte di condotte aziendali che risultano in netto contrasto con le leggi del mercato, compete all’imprenditore dimostrare, in modo specifico, che la differenza negativa tra costi di acquisto e prezzi di rivendita, emersa dalle scritture contabili, non è dovuta all’occultamento di corrispettivi, ma trova valide ragioni economiche che la giustificano (ex pluribus, Cass. n. 8068/2010; n. 11242/2011).

La circostanza, invero, che una impresa commerciale dichiari, ai fini dell’imposta sul reddito, per più anni di seguito rilevanti perdite, nonchè una ampia divaricazione tra costi e ricavi, costituisce una condotta commerciale anomala, di per sè sufficiente a giustificare da parte dell’erario una rettifica della dichiarazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, cui corrisponde, in materia di Iva, il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, a meno che il contribuente non dimostri concretamente la effettiva sussistenza delle perdite dichiarate (v. Cass. n. 21536/2007, nonchè, da ultimo, quanto all’omologa affermazione di presunta esistenza di proventi non dichiarati, correttamente desunta dall’anomalia contabile costituita dal disavanzo di cassa, Cass. n. 11987/2011; n. 24509/2009; n. 27585/2008).

In questo senso, la presenza di scritture contabili formalmente regolari non preclude all’amministrazione finanziaria di procedere, legittimamente, all’accertamento analitico induttivo dei ricavi (o del reddito d’impresa) dichiarati da un contribuente che, nel corso dell’esercizio controllato, abbia posto in essere un comportamento palesemente antieconomico. Da qui, il conseguente spostamento dell’onere della prova a carico di quest’ultimo, il quale, dal canto suo, deve validamente motivare quelle scelte imprenditoriali non in linea con i criteri di economicità (cfr. per tutte Cass. n. 398/2003; n. 6337/2002). A questi insegnamenti si è attenuta l’impugnata sentenza, per cui è consequenziale dedurne l’infondatezza, innanzi tutto, del sesto motivo nella parte afferente, atteso che – in presenza di una pluriennale condotta antieconomica – l’onere della prova, appunto, si inverte a carico dell’imprenditore. La sentenza, inoltre, contrariamente a quanto sostenuto in tal caso nel secondo motivo, indica le ragioni per cui ha ritenuto implausibile la spiegazione fornita, nel rilievo che la politica aggressiva di ribasso dei prezzi comunque non poteva giustificare il riscontro di un volume d’affari dichiarato in misura costantemente inferiore agli acquisti, “considerato che la regola alla quale si ispira chiunque svolga un’attività economica è (semmai) quella di ridurre i costi”.

Trattasi di argomentazione lineare e pienamente sintonica alla premessa, sicchè la stessa si sottrae al sindacato in questa sede.

5. – I restanti quattro motivi (terzo, quarto, quinto e settimo) attengono alla questione del ricarico. E in quanto a ciò rapportati possono essere esaminati congiuntamente. (A) Il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, nonchè insufficiente motivazione, per avere la sentenza determinato il maggior volume d’affari sulla base di una presunta percentuale media di settore.

Assume invece la ricorrente che le percentuali di ricarico possono costituire un semplice parametro di riferimento teorico rispetto l’azione accertativa, la quale invece deve essere condotta con concretezza, specificità e pertinenza al reale andamento gestionale e commerciale. Nel caso di specie, la società lamenta che, pur in presenza di regolarità contabile, si sia ricostruito il volume d’affari applicando al valore degli acquisti e delle giacenze iniziali di ogni singolo anno una generica percentuale dell’85 % desunta da tabella non applicabile al caso di specie (la tab. A allegata al D.L. n. 853 del 1984, conv. in L. n. 17 del 1985), e non tenendosi conto di quanto evidenziato dal contribuente a proposito della politica di svendita adottata. Chiede alla Corte di stabilire se la detta ricostruzione del volume d’affari, fondata esclusivamente su percentuali generiche di ricarico, senza tener conto, cioè, delle condizioni economiche dell’impresa, sia conforme al dettato di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, e al D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies.

(B) Il quarto motivo riproduce la critica di violazione e falsa applicazione delle citate disposizioni per il fatto di avere il giudice d’appello ritenuto legittima la ricostruzione presuntiva del reddito ancorchè in mancanza dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, essendo stato avallato, in definitiva, un accertamento in rettifica basato sul solo profilo della percentuale di ricarico desunta dal settore di appartenenza.

(C) Il quinto motivo denunzia la violazione delle medesime disposizioni, nonchè, correlativamente, l’illogicità della motivazione, in relazione alla evocata tab. A allegata al D.L. 19 dicembre 1984, n. 853, conv. con modificazioni in L. 17 febbraio 1985, n. 17. La critica in questo caso attiene al fatto di avere il giudice tributario ritenuto applicabile al caso concreto una percentuale di ricarico desunta da norme riguardanti tutt’altra fattispecie (la detrazione forfetaria dell’Iva).

(D) Il settimo, infine, denunzia omessa o insufficiente motivazione su fatto decisivo, ascrivendo alla commissione territoriale di non aver indicato le ragioni logico – giuridiche della conferma della sentenza di primo grado in relazione all’eccepita applicazione delle percentuali di ricarico sulle rimanenze iniziali, pur essendo codeste già comprensive del ricarico suddetto in guanto valorizzate a prezzo di listino.

6. – Quest’ultima censura è manifestamente infondata, avendo il giudice del merito spiegato che delle rimanenze finali era stato tenuto conto, nell’ambito della verifica fiscale, giustappunto in considerazione dell’essere le medesime comprensive del ricarico;

donde, diversamente da quanto presupposto nel motivo, è nella sentenza detto che la percentuale di ricarico rettificata è stata applicata solo sulla merce acquistata.

Trattasi – com’è evidente – di accertamento di fatto contro il quale non risultano svolte specifiche censure, sorrette da autosufficiente indicazione di contrari elementi non considerati dalla commissione, o insufficientemente valutati.

7. – Infondato è altresì il suesposto quarto motivo nell’affermazione previa di violazione di legge, risolta nell’addebito di avere la commissione ricostruito il volume d’affari esclusivamente in forza della rettifica della percentuale di ricarico.

Premesso che, con apprezzamento anche in tal caso sorretto da congrua motivazione, la commissione regionale ha ritenuto antieconomico proseguire un’attività che frutta solo perdite, sì da giungere all’alternativa, più convincente, conclusione di esistenza di un fenomeno evasivo pluriennale, non è giuridicamente errata l’inferenza in ordine al metodo di rettifica globale dei ricavi fondato sulle c.d. percentuali di ricarico. Difatti – essendo il ricarico rappresentato dal rapporto tra i ricavi contabilizzati e gli acquisti registrati in contabilità – il confronto dell’effettivo margine di guadagno sulle merci con quanto risultante dalla contabilità consente di fondatamente presumere che acquisti registrati abbiano dato luogo a vendite non (regolarmente) registrate.

8. – il punto critico è invece rappresentato dalla scelta del criterio di determinazione della percentuale di ricarico concretamente applicabile, oggetto di esplicita censura contenuta nell’atto di interposizione di appello della cui esistenza la decisione della commissione regionale – seppur sinteticamente – da atto; giacchè detto criterio deve comunque rispondere a canoni di coerenza logica e di congruità, a disparte dall’esser rapportato alla omogeneità dei beni-mercè e alla scelta del campione selezionato per la comparazione tra i prezzi di acquisto e di rivendita. Nel caso di specie, l’impugnata sentenza ha condiviso l’operato dell’amministrazione finanziaria sulla sola considerazione che la determinazione della percentuale di ricarico rettificata potesse avvenire “ai sensi del D.L. 19 dicembre 1984”, ed essere così valutata nel 122 % per “il settore di appartenenza dei beni oggetto dell’attività commerciale di cui è titolare la ditta appellante”, essendo infine stata applicata – ha aggiunto – “in misura inferiore, più – favorevole al contribuente, pari all’85 %”.

In questo senso la statuizione non si sottrae alla censura svolta nel terzo e nel quinto motivo, sotto entrambi i profili della violazione di legge e del vizio di motivazione, dal momento che l’evocata norma di riferimento (il D.L. n. 853 del 1984, conv. in L. n. 17 del 1985) e la tabella a essa allegata (in particolare la tab. A), non risultano attinenti al tema, trattandosi delle disposizioni legittimanti, quanto all’Iva dovuta dagli esercenti le imprese commerciali per gli anni 1985, 1986 e 1987 (e salva la successiva proroga), il regime forfetario di detrazione dell’imposta afferente gli acquisti e le importazioni.

Nè si comprende, poichè la sentenza nulla dice al riguardo, in qual senso il giudice del merito abbia desunto da siffatta disciplina un criterio determinativo utile alla ricostruzione del ricarico medio per il settore di appartenenza della odierna contribuente.

Consegue che l’impugnata sentenza va cassata in accoglimento dei ridetti due motivi, con rinvio ad altra sezione della medesima commissione regionale, la quale provvederà a riesaminare – per quanto rileva ai fini della decisione – il profilo della determinazione della percentuale di ricarico, attenendosi al seguente principio di diritto: “in tema di rettifica della dichiarazione Iva, la scelta dell’amministrazione finanziaria in ordine al criterio di determinazione della percentuale di ricarico, astrattamente legittima, deve essere dal giudice del merito verificata in rapporto alle critiche svolte dal contribuente, alla luce dei canoni di coerenza logica e di congruità, tenuto conto della natura – omogenea o disomogenea – dei beni – merce e della rilevanza dei campioni selezionati, da ciò dipendendo altresì la scelta, purchè adeguatamente motivata, tra i criteri di media aritmetica o ponderale”.

Il giudice del rinvio provvederà anche, nel rapporto con l’agenzia delle entrate, sulle spese del giudizio di cassazione.

PQM

La Corte:

– dichiara l’inammissibilità del ricorso nei riguardi del Ministero dell’economia e finanze, compensando, nel rapporto attinente, le spese processuali;

– dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso proposto contro l’agenzia delle entrate, e rigetta i motivi secondo, quarto, sesto e settimo;

– accoglie il terzo e il quinto motivo del ricorso detto; cassa l’impugnata sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione nel rapporto processuale attinente, alla commissione tributaria regionale del Lazio.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 6 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2011

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