Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26161 del 27/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 27/09/2021, (ud. 13/05/2021, dep. 27/09/2021), n.26161

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. GRASSO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. VARRONE Luca – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12687-2018 proposto da:

L.V., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA MANTEGAZZA 24,

presso lo studio dell’avvocato MARCO GARDIN, con richiesta di

ricevere le comunicazioni di cancelleria tramite l’indirizzo pec

lucarelli.vito.oravta.lemail.it, rappresentato e difeso

dall’avvocato VITO GIACOMO LUCARELLI;

– ricorrente –

contro

G.T., G.P.R., elettivamente domiciliate in ROMA,

V. DEGLI SCIPIONI 110, presso lo studio dell’avvocato NICOLA

D’IPPOLITO, rappresentate e difese dall’avvocato FERNANDO GRECO;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 24007/2017 della CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

di ROMA, depositata il 12/10/2017;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio del

13/05/2021 dal Consigliere Dott. VARRONE LUCA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

L.V. ha proposto ricorso per la revocazione della sentenza di questa Corte n. 24007 del 2017 di rigetto del ricorso 27746 del 2012.

Su proposta del relatore, ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c., comma 4, e dell’art. 380-bis c.p.c., commi 1 e 2, che ha ravvisato l’inammissibilità del ricorso, il presidente ha fissato con decreto l’adunanza della Corte per la trattazione della controversia in Camera di Consiglio nell’osservanza delle citate disposizioni.

Entrambe le parti hanno presentato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve darsi atto della regolarità dell’avviso dell’adunanza camerale del 13 maggio 2021 effettuato all’avv.to Lucarelli in cancelleria dopo l’infruttuoso invio alla pec lucarelli.vito.oravta.legalmail.it. L’avv.to Lucarelli, infatti, con il ricorso ha dichiarato di voler ricevere le comunicazioni alla sopraindicata pec che è quella iscritta al REGINDE. Ciò premesso, risulta agli atti che il tentativo di comunicazione alla suddetta pec non è andato a buon fine, sicché la notifica in cancelleria risulta regolare in applicazione dei seguenti principi di diritto:

– “Le notificazioni e comunicazioni ai soggetti per i quali la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata devono essere eseguite, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, conv. con modif. dalla L. n. 221 del 2012, esclusivamente mediante deposito in cancelleria quando essi non abbiano provveduto ad istituire o comunicare il predetto indirizzo, salva la sola ipotesi in cui non sia possibile procedere tramite posta elettronica certificata per causa non imputabile al destinatario medesimo, nel qual caso, in base al comma 8 del citato art. 16, trova applicazione l’art. 136 c.p.c., comma 3. – Nella specie, la S.C. ha ritenuto valida, ai fini del decorso del termine per impugnare, la comunicazione dell’ordinanza ex art. 348 bis c.p.c. effettuata dalla cancelleria del giudice d’appello con il suo deposito in cancelleria poiché, dall’interrogazione dei pubblici elenchi, era emerso che il difensore dell’appellante non era iscritto nel REGINDE, non assumendo rilievo alcuno che tale comunicazione fosse avvenuta anche a mezzo fax” (Sez. 2, Sent. n. 33547 del 2018);

– “Il mancato buon esito della comunicazione telematica di un provvedimento giurisdizionale dovuto alla saturazione della capienza della casella PEC del destinatario è evento imputabile a quest’ultimo; di conseguenza, è legittima l’effettuazione della comunicazione mediante deposito dell’atto in cancelleria, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 6, conv. in L. n. 221 del 2012, come modificato dal D.L. n. 90 del 2014, art. 47, conv. in L. n. 114 del 2014” (Sez. L, Sent. n. 13532 del 2019).

Passando all’esame del ricorso per revocazione deve premettersi che la sentenza n. 24007 del 2017 della Corte di cassazione ha rigettato il ricorso di L.V. avverso la sentenza della Corte d’Appello di Lecce che ha dichiarato estinto il giudizio di appello avverso la sentenza del Tribunale di Lecce che, a sua volta, aveva accolto la domanda di risoluzione di un contratto preliminare e della convenzione accessoria per grave inadempimento del L., condannandolo anche alla restituzione dell’immobile, del box e delle parti pertinenziali comuni, previa compensazione del danno subito dal G. con la restituzione delle somme a suo tempo ricevute a titolo di acconto sul prezzo.

Il ricorrente non ha sviluppato le proprie censure formulando uno specifico motivo, essendosi limitato a ripercorrere le vicende sostanziali e processuali, senza tuttavia individuare uno specifico vizio revocatorio proprio della sola sentenza impugnata e non anche delle precedenti decisioni di merito intervenute nel corso del giudizio.

Il relatore ha formulato la seguente proposta: inammissibilità e manifesta infondatezza del ricorso per revocazione avverso pronuncia della Corte di Cassazione di rigetto del ricorso r.g. 27746 del 2012.

I motivi di ricorso sono palesemente estranei al parametro dell’errore revocatorio di fatto, rilevante ai sensi dell’art. 391 bis c.p.c. Per consolidata interpretazione, invero, in materia di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, l’errore di fatto di cui all’art. 395 c.p.c., n. 4, deve consistere in una disamina superficiale di dati di fatto che abbia quale conseguenza l’affermazione o la negazione di elementi decisivi per risolvere la questione, ovvero in un errore meramente percettivo, risultante in modo incontrovertibile dagli atti e tale da aver indotto il giudice a fondare la valutazione della situazione processuale sulla supposta inesistenza (od esistenza) di un fatto, positivamente acquisito (od escluso) nella realtà del processo, che, ove invece esattamente percepito, avrebbe determinato una diversa valutazione della situazione processuale. E’ invece inammissibile il ricorso ex art. 395 c.p.c., n. 4, ove vengano dedotti errori di giudizio concernenti i motivi di ricorso esaminati dalla sentenza della quale è chiesta la revocazione, ovvero l’errata valutazione di fatti esattamente rappresentati o, ancora, l’omesso esame di atti difensivi, asseritamente contenenti argomentazioni giuridiche non valutate (Cass. 22/09/2014, n. 19926; Cass. 09/12/2013, n. 27451; Cass. Sez. Un. 28/05/2013, n. 13181; Cass. 12/12/2012, n. 22868; Cass. 18/01/2012, n. 714; Cass. Sez. Un. 30/10/2008, n. 26022). Non sono perciò neppure astrattamente idonee ad integrare errore revocatorio, rilevante ai sensi ed agli effetti di cui all’art. 391-bis c.p.c. e all’art. 395 c.p.c., n. 4), le deduzioni, che il ricorrente riporta nelle censure avverso la sentenza n. 24007 del 2017 della Corte di cassazione, attinenti, nella specie ad ipotizzati errori di giudizio compiuti. Tutte le circostanze dedotte dal ricorrente sono state oggetto di esame nel provvedimento impugnato per revocazione. Il ricorrente richiede il riesame di elementi già oggetto del precedente giudizio.

Il collegio, pur condividendo la proposta del relatore, preliminarmente ritiene inammissibile il ricorso perché manca dell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intelligibile, del fatto che si assume essere oggetto dell’errore cosi come dell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c., n. 4.

Il ricorso per revocazione, infatti, è soggetto al disposto dell’art. 366 c.p.c., il quale prevede che la formulazione del motivo deve risolversi nell’indicazione specifica, chiara e immediatamente intelligibile, del fatto che si assume avere costituito oggetto dell’errore e nell’esposizione delle ragioni per cui l’errore presenta i requisiti previsti dall’art. 395 c.p.c. (Cass., n. 862 del 2011 in motivazione)

Com’e’ noto, l’art. 366 c.p.c., nel dettare le condizioni formali del ricorso, ossia i requisiti di “forma-contenuto” dell’atto introduttivo del giudizio di legittimità, configura un vero e proprio “modello legale” del ricorso per cassazione, la cui mancata osservanza è sanzionata con l’inammissibilità del ricorso stesso.

Con particolare riferimento al requisito della “esposizione sommaria dei fatti della causa” (art. 366 c.p.c., n. 3), che deve avere ad oggetto sia i fatti sostanziali che i fatti processuali necessari alla comprensione dei motivi, va osservato che tale requisito è posto, nell’ambito del modello legale del ricorso, non tanto nell’interesse della controparte, quanto in funzione del sindacato che la Corte di cassazione è chiamata ad esercitare e, quindi, della verifica della fondatezza delle censure proposte. Esiste pertanto un rapporto di complementarità tra il requisito della “esposizione sommaria dei fatti della causa” di cui all’art. 366 c.p.c., n. 3 e quello – che lo segue nel modello legale del ricorso della “esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione o la revocazione ex art. 395 c.p.c., n. 4”, essendo l’esposizione sommaria dei fatti funzionale a rendere intellegibili, da parte della Corte, i motivi di ricorso di seguito formulati.

In altri termini, secondo il “modello legale” apprestato dall’art. 366 c.p.c., la Corte di cassazione, prima di esaminare i motivi, dev’essere posta in grado, attraverso una riassuntiva esposizione dei fatti, di avere contezza sia del rapporto giuridico sostanziale originario da cui è scaturita la controversia, sia dello sviluppo della vicenda processuale, in modo da poter procedere poi allo scrutinio dei motivi di revocazione munita delle conoscenze necessarie per valutare se essi siano deducibili e pertinenti; valutazione – questa – che è possibile solo se chi esamina i motivi sia stato previamente posto a conoscenza della vicenda sostanziale e processuale in modo complessivo e sommario, mediante una “sintesi” dei fatti che si fondi sulla selezione dei dati rilevanti e sullo scarto di quelli inutili. Perciò, il difensore chiamato a redigere il ricorso per cassazione – che, per legge, dev’essere un professionista munito di quella particolare specializzazione attestata dalla sua iscrizione nell’albo speciale dei patrocinanti in Cassazione – deve procedere ad elaborare autonomamente “una sintesi della vicenda fattuale e processuale”, selezionando i dati di fatto sostanziali e processuali rilevanti in funzione dei motivi di ricorso che intende formulare, in modo da consentire alla Corte di procedere poi allo scrutinio di tali motivi disponendo di un quadro chiaro e sintetico della vicenda processuale, che le consenta di cogliere agevolmente il significato delle censure, la loro ammissibilità e la loro pertinenza rispetto all’ipotizzato errore percettivo compiuto.

L’esposizione sommaria dei fatti della causa, per essere funzionale alla comprensione dei motivi, dev’essere “sintetica”, come si evince dal richiamo al suo carattere “sommario”. La “sintesi” degli atti processuali costituisce oggi un vero e proprio “valore”, che va assumendo importanza crescente nell’ordinamento italiano. Basti pensare a quanto previsto dal codice del processo amministrativo (D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104), art. 3, n. 2, con riferimento all’obbligo di redigere gli atti “in maniera chiara e sintetica”; basti pensare al ruolo sempre maggiore assegnato – con riguardo ai provvedimenti del giudice – all’ordinanza decisoria, motivata in modo “succinto” e “conciso” (art. 134 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c.), rispetto alla sentenza.

Nella specie risulta palese la violazione dei principi di sinteticità e chiarezza del ricorso. Il ricorrente, infatti, ha omesso del tutto di compiere una doverosa sintesi dei fatti processuali, limitandosi a riportare stralci integrali del proprio ricorso per cassazione e delle successive memorie e, in tal modo, non ha assolto l’onere di offrire una chiara e sintetica esposizione dei fatti della causa. Tale tecnica redazionale non è compatibile con i principi esposti che definiscono le modalità di introduzione del giudizio di legittimità sulla base del disposto dell’art. 366 c.p.c. come interpretato dalla giurisprudenza di questa Corte.

In relazione a tali principi questa Corte ha già avuto modo di affermare, con la sentenza n. 17698/14, che il mancato rispetto del dovere processuale della chiarezza e della sinteticità espositiva espone il ricorrente per cassazione (o per revocazione) al rischio di una declaratoria d’inammissibilità dell’impugnazione, in quanto esso collide con l’obiettivo di attribuire maggiore rilevanza allo scopo del processo, al duplice fine di assicurare un’effettiva tutela del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost., nell’ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all’art. 111 Cost., comma 2, e in coerenza con l’art. 6 CEDU, nonché di evitare di gravare sia lo Stato che le parti di oneri processuali superflui. Detta violazione, infatti, pregiudica la intelligibilità delle questioni sottoposte all’esame della Corte, rendendo oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata e quindi, in definitiva, ridonda nella violazione delle prescrizioni assistite dalla sanzione testuale di inammissibilità, di cui all’art. 366 c.p.c., nn. 3 e 4.

Come si è detto nel caso in esame, i fatti di causa non sono stati sommariamente e sinteticamente esposti dal ricorrente, ma sono ricostruiti attraverso l’allegazione nel corpo del ricorso della trascrizione di brani degli atti del giudizio di appello e del giudizio di cassazione.

L’esigenza di chiarezza espositiva è ancora più rilevante nel ricorso per revocazione che richiede, ai fini della sua ammissibilità, un errore di fatto riconducibile all’art. 395 c.p.c., n. 4, che consiste in un errore di percezione, o in una mera svista materiale, che abbia indotto il giudice a supporre l’esistenza (o l’inesistenza) di un fatto decisivo, che risulti, invece, in modo incontestabile escluso (o accertato) in base agli atti e ai documenti di causa, sempre che tale fatto non abbia costituito oggetto di un punto controverso, su cui il giudice si sia pronunciato. L’errore in questione, pertanto, presuppone, il contrasto fra due diverse rappresentazioni dello stesso fatto, delle quali una emerge dalla sentenza, l’altra dagli atti e documenti processuali, sempreché la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione e non di giudizio, formatosi sulla base di una valutazione.

L’errore di percezione, dunque, deve essere indicato con chiarezza e deve essere di immediato riscontro mentre nel ricorso in esame non si comprende quale sia l’errore percettivo lamentato dal ricorrente, il quale richiama verbali del giudizio di appello o addirittura fatti giuridici come a pag. 27 e 31 del ricorso e ripercorre l’intera vicenda processuale riproponendo argomenti già trattati nella sentenza n. 24007 del 2017.

Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile e, in ragione della soccombenza, il ricorrente va condannato a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di revocazione, liquidate in dispositivo.

Sussistono i presupposti processuali per il versamento – ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l’impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente a rimborsare alle controricorrenti le spese sostenute nel giudizio di revocazione, che liquida in complessivi Euro 3000,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della 2^ Sezione civile, il 13 maggio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021

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