Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26157 del 18/10/2018

Cassazione civile sez. II, 18/10/2018, (ud. 08/05/2018, dep. 18/10/2018), n.26157

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –

Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –

Dott. ABETE Luigi – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso n. 17758/2014 R.G. proposto da:

D.C.A. – c.f. (OMISSIS) – M.G. – c.f.

(OMISSIS) – rappresentati e difesi in virtù di procura speciale in

calce al ricorso dall’avvocato Angelo Benedetto ed elettivamente

domiciliati in Roma, alla via S. Nicola Dè Cesarini, n. 3, presso

lo studio dell’avvocato Stefano Sbordoni;

– ricorrenti –

contro

B.S. – c.f. (OMISSIS) – elettivamente domiciliato, con

indicazione dell’indirizzo di posta elettronica certificata, in

Lecce, alla via Braccio Martello, n. 36, presso lo studio

dell’avvocato Francesco Dragone, che lo rappresenta e difende in

virtù di procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza della corte d’appello di Lecce n. 49/2014, udita

la relazione nella camera di consiglio dell’8 maggio 2018 del

consigliere dott. Luigi Abete.

Fatto

MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO

I coniugi D.C.A. e M.G. con due distinti atti di citazione, notificati il 14.6.2001 ed il 29.5.2003, convenivano dinanzi al tribunale di Lecce B.S., titolare dell’omonima impresa edile.

Esponevano che con scrittura in data (OMISSIS) il convenuto aveva promesso di vendere al D.C., il quale a sua volta aveva promesso di acquistare, immobile al rustico in (OMISSIS), alla (OMISSIS); che con contestuale scrittura il promissario acquirente aveva affidato in appalto al promittente venditore l’esecuzione dei lavori di completamento e rifinitura dell’immobile; che in data (OMISSIS) entrambi essi attori avevano siglato l’atto definitivo di compravendita, “quando ormai le opere di completamento erano state realizzate” (così sentenza d’appello, pag. 5).

Esponevano altresì che avevano reiteratamente denunciato la presenza di gravi vizi e difformità ed avevano sollecitato il rilascio del certificato di abitabilità.

Chiedevano accertarsi la presenza dei vizi e delle difformità denunciate, farsi luogo alla riduzione del prezzo già versato in proporzione ai costi da sostenere per la loro eliminazione, condannarsi il convenuto al pagamento del corrispondente importo ed al risarcimento del danno, farsi obbligo a B.S. di provvedere al rilascio del certificato di abitabilità.

Si costituiva il convenuto.

Instava per il rigetto delle avverse domande; formulava istanze riconvenzionali.

Riuniti i giudizi, all’esito dell’istruzione probatoria con sentenza n. 2334/2009 l’adito tribunale – tra l’altro – accoglieva le domande attoree limitatamente ai vizi e difetti reputati ascrivibili alla previsione dell’art. 1669 c.c. e, per l’effetto, condannava il convenuto a pagare la somma di Euro 10.455,00, oltre interessi; viceversa, rigettava le domande limitatamente ai vizi e difetti reputati ascrivibili agli artt. 1490 e ss. c.c. in dipendenza dell’intervenuta prescrizione della relativa azione.

Proponevano appello D.C.A. e M.G..

Resisteva B.S.; esperiva appello incidentale.

Con sentenza n. 49/2014 la corte d’appello di Lecce accoglieva parzialmente l’appello principale e per l’effetto dichiarava che l’importo dovuto agli originari attori era pari alla maggior somma di Euro 14.023,00, oltre interessi; rigettava l’appello incidentale; confermava in ogni altra sua parte la gravata sentenza; condannava l’appellato alle spese del doppio grado.

La corte di merito, tra l’altro, rigettava il secondo motivo del gravame principale, con cui i coniugi D.C. – M. avevano dedotto la tempestiva interruzione del termine annuale di prescrizione ex art. 1495 c.c. con riferimento alle difformità – di cui al punto 7) della relazione di c.t.u. – relative, peraltro, all’impossibilità di destinare la cantina a tavernetta.

Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso D.C.A. e M.G.; ne hanno chiesto sulla scorta di un unico motivo, in forma duplice articolato, la cassazione con ogni susseguente statuizione anche in ordine alle spese di lite.

B.S. ha depositato controricorso; ha chiesto dichiararsi inammissibile, improcedibile o rigettarsi l’avverso ricorso con il favore delle spese da distrarsi in favore del difensore anticipatario.

I ricorrenti hanno depositato memoria.

Con l’unico motivo i ricorrenti denunciano “1) violazione dell’art. 360, comma 3, in relazione al secondo motivo di appello; 2) violazione dell’art. 360, comma 5, in relazione al secondo motivo di appello” (così ricorso, pag. 12).

Deducono che al caso di specie, ovvero al caso di acquisto di un immobile di nuova costruzione direttamente dal costruttore, sono da applicare gli artt. 1667 e 1669 c.c., non già gli artt. 1490 e ss. c.c.; che segnatamente la disciplina applicabile è quella per i gravi difetti di cui all’art. 1669 c.c..

Il ricorso va respinto.

La corte salentina, quanto alla minore altezza della tavernetta, ha evidenziato che “nessuna lamentela, in proposito, è stata formulata dagli originari attori nè con l’atto di citazione del 14.6.2001, nè con le missive in tale atto richiamate” (così sentenza d’appello, pag. 9). Ed ha soggiunto che tale circostanza non era stata segnalata neppure nella consulenza tecnica di parte a firma del geometra C.M. (la corte territoriale ha aggiunto inoltre che gli iniziali attori non avevano prefigurato alcun danno derivante dalla minore altezza della tavernetta).

I ricorrenti, nel segno dell’art. 1669 c.c., deducono per converso che, così come risulta “dagli allegati al fascicolo di parte attrice afferenti al secondo giudizio instaurato con atto notificato il 29.05.2003” (così ricorso, pag. 16), la denunzia ex art. 1669 c.c. è stata effettuata con raccomandata a.r. del 28.9.2002 entro un anno dalla scoperta, avvenuta in data 11.1.2002, a seguito del rilascio del certificato di destinazione d’uso. E che entro un anno dalla denunzia è stato avviato in data 29.5.2003 il giudizio volto al risarcimento dei danni scaturiti dai “nuovi vizi riscontrati, tra cui, appunto, quelli relativi alla cd. “Tavernetta”, “… in realtà locale seminterrato destinato ad uso deposito…” (così ricorso, pag. 16).

Il controricorrente dal canto suo prospetta che “a nulla rileva che in data 29.5.03 sia stato avviato altro giudizio civile avente ad oggetto il risarcimento degli ulteriori danni relativi ai vizi della “Tavernetta”, atteso che già alla data del precedente atto di citazione (…), i diritti degli attori si erano estinti, come rilevato dal giudice di primo grado per decorso del termine di prescrizione annuale, calcolato, ai sensi dell’art. 1495 c.c., a decorrere dalla consegna del bene” (così controricorso, pag. 13).

A fronte dei summenzionati rilievi è innegabile che questo Giudice del diritto intende lato sensu la previsione di cui all’art. 1669 c.c., sì che il grave difetto di costruzione che ne legittima l’applicabilità, può consistere in qualsiasi alterazione, conseguente all’imperfetta esecuzione dell’opera, che pregiudichi in modo considerevole il normale godimento dell’immobile (cfr. Cass. 19.2.2007, n. 3752; Cass. 15.9.2009, n. 19868).

Nondimeno nel caso di specie va senz’altro recepita la prospettazione del controricorrente, appieno aderente al reale, concreto significato economico dell’operazione negoziale dalla parti concordata, alla cui stregua “l’interesse principale delle parti è sempre stato quello di veder trasferito l’immobile finito da destinare a civile abitazione” (così controricorso, pag. 7).

Ovvero devesi opinare nel senso che nel quadro della complessa operazione negoziale dalle parti siglata senza dubbio prioritari sono da reputare gli elementi della vendita, atteso che la villetta era “già esistente al momento della sottoscrizione del contratto preliminare e che la stessa (era) stata costruita circa dieci anni prima” (così controricorso, pagg. 6 – 7) (cfr. Cass. 26.4.1984, n. 2626, secondo cui, per stabilire l’esatta natura giuridica di un negozio giuridico complesso nel quale siano commisti e combinati elementi dello appalto ed elementi della vendita, occorre seguire il criterio della prevalenza fra le prestazioni pattuite, ed il negozio deve essere assoggettato alla disciplina unitaria dell’uno o dell’altro contratto, in base alla prevalenza degli elementi che concorrono a costituirla. Il fattore decisivo per stabilire tale prevalenza è dato dall’interesse che ha mosso le parti, avendosi una vendita se esse abbiano avuto fondamentalmente interesse a scambiarsi un bene in natura contro una somma di danaro, mentre deve ravvisarsi un appalto se l’interesse originario e fondamentale delle parti sia stato quello di compiere e, rispettivamente, ricevere un’opera; il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto sottratto al sindacato di legittimità, se congruamente e correttamente motivato). Del resto è significativo rimarcare che la corte di Lecce ha espressamente rappresentato che “con il secondo motivo di gravame gli appellanti ripropongono le argomentazioni, di cui al primo motivo di appello già esaminato, circa la tempestiva interruzione del termine annuale di cui all’art. 1495 c.c. anche con specifico riferimento al “profilo (…), riguardante (…) l’impossibilità di destinare la “cantina” a “tavernetta” (…)”” (così sentenza d’appello, pag. 8). Più esattamente, alla luce della puntualizzazione della corte salentina – puntualizzazione per nulla censurata dai ricorrenti in questa sede (i quali, invero, non hanno affatto contestato di aver ancorato il secondo motivo del loro appello al disposto dell’art. 1495 c.c.) – sono stati i medesimi principali appellanti a “spendere” la previsione dell’art. 1495 c.c., scritta ovviamente in tema di vendita, e dunque ad accreditare la prevalenza, nel quadro della complessa operazione con la controparte siglata, dello schema contrattuale della vendita.

Nei termini esposti ne discende la seguente triplice conseguenza, a ben vero a prescindere dall’estraneità – o meno – della doglianza concernente la minor altezza della cantina rispetto al tenore di entrambi gli atti di citazione (notificati il 14.6.2001 ed il 29.5.2003) introduttivi in prime cure della vicenda contenziosa de qua; in particolare a prescindere dalla riconducibilità o meno della doglianza de qua alla previsione del punto n. 8 dell’atto di citazione in data 29.5.2003.

Innanzitutto, il riferimento all’art. 1669 c.c. è fuor di luogo e non è pertinente (cfr. Cass. 9.11.2005, n. 21773, secondo cui il contratto avente ad oggetto la cessione di un fabbricato o di una porzione di fabbricato non ancora compiutamente realizzato o (come nella specie) da ristrutturare, con previsione dell’obbligo del cedente – che sia anche imprenditore edile – di eseguire i lavori necessari al fine di completare il bene o di renderlo idoneo al godimento, può integrare alternativamente tanto gli estremi della vendita di una cosa futura (verificandosi allora l’effetto traslativo nel momento in cui il bene viene ad esistenza nella sua completezza), quanto quelli del negozio misto caratterizzato da elementi propri della vendita di cosa presente (con conseguente effetto traslativo immediato) e dell’appalto: e ciò a seconda che l’obbligo di completamento dei lavori assuma, nel sinallagma contrattuale, un rilievo centrale, ovvero soltanto accessorio e strumentale rispetto al trasferimento della proprietà attuale; l’indagine sul reale contenuto delle volontà espresse nella convenzione negoziale “de qua”, risolvendosi in un apprezzamento di fatto, è riservata al giudice del merito).

Altresì, nel segno nell’ipotesi in disamina dei prioritari elementi della vendita, permane impregiudicato in ogni caso il postulato cui è pervenuta la corte d’appello, ossia che “l’azione (…), in relazione all’altezza della tavernetta (…), risulta (…) prescritta per decorso, in assenza di atti interruttivi, del termine, di cui all’art. 1495 c.c., di un anno dalla consegna dell’immobile” (così sentenza d’appello, pag. 10).

Infine, non ha ragion d’essere il dedotto omesso esame da parte della corte distrettuale di circostanze decisive e comprovate in via documentale.

In dipendenza del rigetto del ricorso i ricorrenti vanno in solido condannati a rimborsare al difensore del controricorrente, che ha dichiarato di aver anticipato le spese e di non aver riscosso gli onorari, le spese del presente giudizio di legittimità. La liquidazione segue come da dispositivo.

Si dà atto che il ricorso è datato 26.6.2014. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, si dà atto altresì della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13 D.P.R. cit., comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna in solido i ricorrenti, D.C.A. e M.G., a rimborsare all’avvocato Francesco Dragone, difensore anticipatario del controricorrente, le spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano in complessivi Euro 2.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15%, i.v.a. e cassa come per legge; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dei ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione ai sensi dell’art. 13 cit., comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 2^ sez. civ. della Corte Suprema di Cassazione, il 8 maggio 2018.

Depositato in Cancelleria il 18 ottobre 2018

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