Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26156 del 27/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 27/09/2021, (ud. 03/02/2021, dep. 27/09/2021), n.26156

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 37344-2019 proposto da:

R. COSTRUZIONI SRL, RIM SRL, RGP SRL, in persona dei legali

rappresentanti pro tempore, elettivamente domiciliate in ROMA, VIA

COSTANTINO MORIN 45, presso lo studio dell’avvocato ARDITI DI

CASTELVETERE MICHELE, che le rappresenta e difende unitamente

all’avvocato SILIPO DOMENICO ANTONIO;

– ricorrenti –

contro

ITALIA ALIMENTARI SPA, in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE DELLE BELLE ARTI,

7, presso lo studio dell’avvocato AMBROSIO DOMITILLA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GRANA PIER LUIGI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1557/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 13/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 03/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. FALASCHI

MILENA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La RIM s.r.l. e la R. Costruzioni s.r.l., con atto di citazione notificato in data 4 marzo 2009, evocavano dinanzi al Tribunale di Modena la Montana Alimentari (in seguito Italia Alimentari s.p.a.) chiedendo accertarsi la responsabilità della convenuta per l’inquinamento per contaminazione del terreno dalla stessa acquistato e con condanna della medesima alla rifusione dei costi sostenuti per la bonifica del suolo, il giudice adito, nella resistenza della convenuta, precisato dalle società attrici che le domande si fondavano sulla responsabilità extracontrattuale (per avere previsto in contratto clausola compromissoria), respingeva ogni richiesta attorea.

In virtù di appello interposto dalle originarie attrici, la Corte di appello di Bologna, nella resistenza della società appellata, con sentenza n. 1557/2019, respingeva il gravame ritenendo non provata l’utilizzazione di idrocarburi da parte della venditrice, circostanza rilevante per ricollegare alle sostanze rinvenute nelle cisterne abbandonate alla Montana.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna hanno proposto ricorso per cassazione sempre le originarie società attrici opponente, fondato su cinque motivi, cui ha resistito la Italia Alimanti s.p.a. con controricorso.

Ritenuto che il ricorso potesse essere rigettato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata ai difensori delle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.

Atteso che:

– con il primo motivo le società ricorrenti denunciano la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 112,183 e 345 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per non avere la Corte di merito motivato l’esistenza di una mutati() libelli limitandosi a fare proprie le argomentazioni del primo giudice. Si censura la sentenza nella parte in cui, esaminando il motivo di appello svolto dalle medesime società ricorrenti, ha ritenuto inammissibile, perché introdotta solo in sede di precisazione delle conclusioni, con ampliamento del thema decidendum, la questione relativa all’eventuale responsabilità di Montana Alimentari s.p.a. quale conferitaria del complesso aziendale già di titolarità della Montorsi Blasi s.p.a..

La censura è priva di pregio.

Diversamente da quanto affermato delle ricorrenti, la Corte distrettuale dopo avere ritenuto inammissibile la denuncia (v. pag. 10 della sentenza gravata), ha comunque esaminato nel merito il mezzo di impugnazione, affermando, da un lato, che non era stata provata da parte attrice-appellante che la Montorsi Blasi avesse concretamente dato causa alla contaminazione del sito, dall’altro, che il conferimento d’azienda non integrava gli effetti di una successione a titolo universale, per cui nessuna responsabilità poteva essere automaticamente ascritta in capo alla Montana per il solo fatto di essere succeduta nell’esercizio della medesima azienda, derivando gli obblighi di prevenzione e riparazione da responsabilità D.Lgs. n. 152 del 2006, ex art. 253.

La motivazione della corte di merito, logica non contraddittoria e conforme al diritto, non è stata adeguatamente censurata dalle ricorrenti che non pongono in evidenza alcun difetto del ragionamento del giudice di merito mentre la censura, pur denunziando una violazione di legge si risolve in un’inammissibile richiesta di rivalutazione degli elementi di prova;

– con il secondo motivo viene denunciata la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., art. 2729 c.c. e D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253 -in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – quanto alla ritenuta mancanza di prova da parte della Corte distrettuale della riferibilità alla Montorsi Blasi s.p.a. della contaminazione del sito, anche sotto il profilo del nesso di causalità, trattandosi nella specie della esistenza di una “causalità materiale” tra condotta ed evento e di una responsabilità “per pura causalità”.

Con il terzo mezzo viene dedotta la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 200, art. 253 e art. 2558 c.c., anche per omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per avere il giudice distrettuale escluso la responsabilità della Montana s.p.a. per il solo fatto di essere succeduta non a titolo universale nella medesima azienda per essere indifferente al fine dell’affermazione della responsabilità il titolo della successione.

Con il quarto motivo si insiste nella violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253, anche per omesso esame di un fatto decisivo in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, per non avere la Corte territoriale considerato che la Montana s.p.a. era subentrata nell’esercizio della medesima attività produttiva della Montursi Blasi s.p.a., traendone le conclusioni del caso.

Con il quinto ed ultimo motivi è denunciata la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c., dell’art. 2729 c.c. e del D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 253 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per non avere la Corte di merito considerato che la responsabilità da inquinamento del sito andava condotta sulla base del criterio del ‘più probabile che non’ in base al principio di causalità materiale.

I motivi dal due al cinque, esaminabili congiuntamente per la evidente connessione argomentativa, risultano infondati.

Vanno fatte in via preliminare alcune precisazioni.

La prima è che oggetto della controversia non sono le passività ambientali tout court, cioè gli effetti negativi sulla qualità e/o sull’esercizio delle facoltà dominicali sul sito acquistato derivanti da pregressi fatti di inquinamento taciuti all’acquirente suscettibili ad esempio di tradursi in eventuali richieste di annullamento del contratto – ma la questione più circoscritta dell’esercizio dell’azione di rivalsa di cui all’art. 253 Codice dell’Ambiente, comma 4, da parte del proprietario non colpevole, delle spese sopportate per realizzare le opere di bonifica rese necessarie da fatti di inquinamento posti in essere dall’alienante.

La seconda è che il D.Lgs. n.. n. 152 del 2006, raccogliendo l’eredità del Decreto Ronchi, prevede che accanto alla responsabilità dell’inquinatore si collochi, ad ulteriore garanzia dell’esecuzione degli interventi previsti, quella del proprietario del sito inquinato, benché le due “responsabilità” si fondino su presupposti giuridici diversi ed abbiano differente natura. In merito alla responsabilità in capo al c.d. proprietario incolpevole, si è formato un orientamento oramai consolidato che ne esclude “il coinvolgimento coattivo (…) nelle attività di rimozione, prevenzione e messa in sicurezza di emergenza: al più tale soggetto potrà essere chiamato, nel caso, a rispondere sul piano patrimoniale e a tale titolo potrà essere tenuto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi, secondo quanto desumibile dal contenuto dell’art. 253 Codice dell’ambiente” (da ultimo cfr. Cons. Stato 25 gennaio 2018 n. 502). Il proprietario incolpevole è tenuto ad adottare, ai sensi dell’art. 245, comma 2, soltanto le misure di prevenzione di cui all’art. 240, comma 1, lett. 1), ovvero “le iniziative per contrastare un evento, un atto o un’omissione che ha creato una minaccia imminente per la salute o per l’ambiente intesa come rischio sufficientemente probabile che si verifichi un danno sotto il profilo sanitario o ambientale in un futuro prossimo, al fine di impedire o minimizzare il realizzarsi di tale minaccia”; gli interventi di riparazione, messa in sicurezza, bonifica e ripristino gravano esclusivamente sul responsabile della contaminazione, cioè sul soggetto al quale sia imputabile, almeno sotto il profilo oggettivo, l’inquinamento (art. 244, comma 2); se il responsabile non sia individuabile o non provveda gli interventi che risultassero necessari sono adottati dalla p.a. competente (art. 244, comma 4), salvo che non vi provveda spontaneamente il proprietario del sito o altro soggetto interessato; se tali attività sono eseguite dalla Pubblica amministrazione le spese sostenute potranno essere recuperate, sulla base di un motivato provvedimento (che giustifichi, tra l’altro, l’impossibilità di accertare l’identità del soggetto responsabile ovvero quella di esercitare azioni di rivalsa nei confronti del medesimo soggetto ovvero la loro infruttuosità), agendo piuttosto in rivalsa verso il proprietario, che risponderà nei limiti del valore di mercato del sito a seguito dell’esecuzione degli interventi medesimi (art. 253, comma 4).

La responsabilità dell’autore dell’inquinamento, ai sensi del comma 2 del menzionato art. 17 (ora art. 253 Codice dell’ambiente), è stata oggetto di approfondimento da parte di questa Corte (Cass. n. 22 gennaio 2019 n. 1573), secondo cui “la qualifica di ‘responsabile’ attiene non al giudizio di valore della condotta sotto il profilo soggettivo del requisito psicologico (dolo o colpa), ma al giudizio eziologico relativo al profilo oggettivo dell’avere meramente dato causa logica indennitaria che presiede al sistema normativo in esame, secondo la quale il responsabile del procedimento è tenuto a tenere indenne l’amministrazione o il proprietario del sito delle spese sopportate per la bonifica e conseguenti al fatto obiettivo dell’inquinamento, “sul presupposto del mero evento, senza connotazioni soggettive di valore quanto alla condotta del responsabile. Vi è nella fattispecie legale una responsabilità per pura causalità non riconducibile neanche alla responsabilità civile di tipo oggettivo, la quale contempla pur sempre una forma di imputazione soggettiva dell’evento dannoso di natura ‘posizionale’, dipendente cioè dalla particolare collocazione del soggetto reso responsabile rispetto alla causa del danno, tale da renderlo come il soggetto che meglio di chiunque altro può prevenire tale pregiudizio (ne è un esempio, proprio nel D.Lgs. n. 152 del 2006, la responsabilità per danno ambientale prevista dall’art. 311, comma 2, in relazione al tipo di attività svolta dall’operatore). Ai fini della disciplina in esame la responsabilità dell’inquinamento non corrisponde a responsabilità per danno ma a responsabilità dell’evento, cui la legge collega un complesso di effetti giuridici.

Quale debba essere la disciplina applicabile all’azione esercitata dal proprietario del sito, il quale non essendo responsabile dell’inquinamento abbia provveduto a sue spese alla bonifica del sito inquinato, non è affatto chiarito dal legislatore ed in dottrina si discute del se egli faccia valere in via di surrogazione il diritto spettante alla Pubblica amministrazione, creditore originario, ovvero se eserciti un proprio diritto, secondo il modello dell’azione di rivalsa e, di conseguenza, è controverso quale sia il contenuto del suo onere probatorio, cioè non è pacifico se egli debba dimostrare gli elementi su cui si fonda la responsabilità dell’inquinatore. La sentenza richiamata (Cass. n. 1573/2019 cit.), valorizzando la logica indennitaria, dimostra di aderire alla tesi secondo cui il proprietario fa valere lo stesso diritto che avrebbe potuto esercitare la Pubblica amministrazione, cioè il proprietario non chiede il risarcimento del danno extracontrattuale, ma il rimborso delle spese necessarie all’espletamento di una pubblica funzione, con conseguente inapplicabilità dello statuto disciplinare proprio dell’illecito civile, tanto in ordine alla prova della ricorrenza degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità quanto con riferimento alla prescrizione ed alla solidarietà.

Proprio applicando tali conclusioni al caso di specie la Corte distrettuale ha accertato nell’impugnata sentenza, da un canto che l’odierna controricorrente non è responsabile della contaminazione del sito de quo, stante l’accertata mancanza di un rapporto di causalità tra l’attività svolta in concreto dalla Montana s.p.a., proprietaria-venditrice del sito (attività di commercializzazione e lavorazione delle carni, al pari della sua dante causa, Montorsi Blasi s.p.a.) ed il superamento dei limiti di contaminazione dovuto agli idrocarburi, come documentato dalla grosse cisterne posizionate sotto il pavimento dello stabilimento, giacché dalle prove testimoniali escusse risulta che la Montana per la sua attività industriale utilizzava soltanto gas metano, dato quest’ultimo riscontrato dalle bollette esaminate, incompatibili con una utilizzazione anche di idrocarburi (v. pag. 12 sentenza impugnata). Per altro verso, la Corte distrettuale ha rilevato che la situazione di inquinamento fosse già esistente al momento dell’acquisto da parte della medesima Montana trattandosi “di cisterne più che obsolete e risalenti che non recavano segni segni di utilizzo recente” (v. pag. 13 del provvedimento gravato).

Va infine sotto altro profilo posto in rilievo che, al di là della formale intestazione dei motivi, le ricorrenti deducono in realtà doglianze (anche) di vizio di motivazione al di là dei limiti consentiti dalla vigente formulazione dell’art. 360 c.p.c., comma 1 n. 5, (v. Cass., Sez. Un., 7 aprile 2014 n. 8053), nel caso ratione temporis applicabile, sostanziantesi nel mero omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che sia stato oggetto di discussione tra le parti, dovendo riguardare un fatto inteso nella sua accezione storico-fenomenica, e non anche come nella specie l’omessione, l’insufficienza o la contraddittorietà della motivazione (cfr. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014 cit., e, confotinemente, Cass., 29 settembre 2016 n. 19312).

La Corte distrettuale ha, inoltre, ritenuto che l’istruttoria non avesse consentito di raggiungere neanche la prova che ad inquinare fosse stata la Montorsi Blasi s.p.a. (v. pag. 11 della decisione impugnata) e che comunque il conferimento d’azienda intervenuto in favore della Montana s.p.a. non integrava gli effetti di una successione a titolo universale, ma di una successione inter vivos. Con la conseguenza peraltro che non sarebbe succeduta negli obblighi di bonifica di cui al D.Lgs. n. 22 del 2006, art. 17 che non potevano considerarsi esistenti al tempo della cessione avvenuta nel 1996, introdotti dal (c.d. decreto Ronchi), D.Lgs. n. 22 del 1997, art. 17, comma 2 (ora art. 253 Codice dell’ambiente bonifica).

All’inammissibilità dei motivi consegue l’inammissibilità del ricorso.

Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte delle società ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna le società ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali del giudizio di legittimità in favore della società controricorrente che liquida in complessivi Euro 7.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte delle società ricorrenti dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2021

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