Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26144 del 06/12/2011

Cassazione civile sez. lav., 06/12/2011, (ud. 06/10/2011, dep. 06/12/2011), n.26144

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LAMORGESE Antonio – Presidente –

Dott. NOBILE Vittorio – Consigliere –

Dott. ZAPPIA Pietro – Consigliere –

Dott. BALESTRIERI Federico – rel. Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 25509-2007 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA MAZZINI 27, presso lo studio

dell’avvocato TRIFIRO’ SALVATORE, che la rappresenta e difende,

giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

F.G., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE,

rappresentato e difeso dagli avvocati SERTORI GIOVANNI, MEDINA

ALBERTO, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 751/2006 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 19/10/2006 r.g.n. 406/05;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

06/10/2011 dal Consigliere Dott. FEDERICO BALESTRIERI;

udito l’Avvocato PAOLO ZUCCHINALI per delega SALVATORE TRIFIRO’;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CESQUI Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Il Tribunale di Milano dichiarava la nullità della clausola appositiva del termine al contratto di lavoro stipulato tra F.G. e la società Poste Italiane il 20 ottobre 1998 ex art. 8 del c.c.n.l. 1994 e successive integrazioni; l’esistenza tra le parti di un rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato da tale data, condannando la società Poste al pagamento delle retribuzioni dalla costituzione in mora.

La Corte d’appello di Milano, con sentenza depositata il 19 ottobre 2006, respingeva il gravame proposto dalla società Poste.

Quest’ultima propone ricorso per cassazione, affidato a dieci motivi, poi illustrati con memoria. Resiste con controricorso il F..

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1- Con il primo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 2, per avere la corte di merito erroneamente disatteso l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Esponeva la società che tale consenso può esprimersi anche per facta condudentia, nella specie da individuarsi nell’inerzia del lavoratore per un apprezzabile lasso di tempo successivamente alla risoluzione del rapporto.

Ad illustrazione del motivo formulava il seguente quesito di diritto:

“dica la Corte se ai sensi dell’art. 1372 c.c. il comportamento inerte delle parti avente durata e modalità tali da evidenziare il completo disinteresse al ripristino del rapporto di lavoro, debba considerarsi quale mutuo consenso in ordine alla cessazione di esso”.

2. Il motivo è inammissibile per la genericità del quesito, nel quale, come nel motivo che dovrebbe illustrare, non sono indicate nè la durata in tesi idonea a configurare un comportamento concludente, nè le invocate altre modalità del comportamento del lavoratore rilevanti a tal fine.

Occorre infatti rammentare che “Il quesito di diritto deve consistere in una chiara sintesi logico-giuridica della questione sottoposta al vaglio del giudice di legittimità, formulata in termini tali per cui dalla risposta – negativa od affermativa – che ad esso si dia, discenda in modo univoco l’accoglimento od il rigetto del gravame. Ne consegue che è inammissibile laddove esso sia formulato in modo del tutto generico”, Cass. 28 settembre 2007 n. 20360, ed “inidoneo a far comprendere alla Corte, dalla sua sola lettura, l’errore di diritto asseritamente compiuto dal giudice di merito”, Cass. 7 aprile 2009 n. 8463.

3. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia il vizio di omessa motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e cioè la prolungata inerzia del F. successiva alla cessazione dell’ultimo contratto, anche in considerazione de fatto che risultava che vari dipendenti avevano reperito altra occupazione successivamente alla scadenza del contratto di lavoro con la società.

Il motivo risulta in parte assorbito e per il resto inammissibile.

Questa Corte ha in proposito più volte affermato (cfr. da ultimo, Cass. 11 marzo 2011 n. 5887; Cass. 18 novembre 2010 n. 23319) che in tema di risoluzione del rapporto di lavoro subordinato per mutuo consenso tacito ed al fine della dimostrazione della chiara e certa comune volontà delle parti di porre fine ad ogni rapporto lavorativo, non è di per sè sufficiente la mera inerzia del lavoratore dopo l’impugnazione del licenziamento, o il semplice ritardo nell’esercizio del diritto. Quanto alla mancata valutazione, da parte della corte di merito, del reperimento di altra occupazione, deve evidenziarsi che la stessa ricorrente deduce di aver allegato, nelle precedenti fasi del giudizio, che molti lavoratori avevano iniziato una diversa attività lavorativa presso altri datori, e che tra di essi doveva certamente annoverarsi il ricorrente (pag. 12 ricorso), caratterizzando così la censura di inammissibile genericità.

4. Con il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo la società Poste denuncia la contraddittorietà della motivazione della corte territoriale circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, e cioè l’esistenza di un limite temporale di validità delle pattuizioni delle parti sociali L. n. 56 del 1987, ex art. 23, nonchè violazione, per lo stesso motivo, della L. n. 230 del 1962, artt. 1 e 2, oltre che della L. n. 56 del 1987, art. 23, degli accordi sindacali del 25 settembre 1997 e successivi.

I motivi, che stante la loro connessione possono essere congiuntamente trattati, sono infondati.

La corte di merito non ha infatti dubitato della facoltà delle parti sociali di prevedere liberamente nuove ipotesi di assunzione a termine in base all’ampia delega contenuta nella L. n. 56 del 1987, art. 23, ma ha tuttavia ritenuto, in linea con la giurisprudenza di questa Corte e dell’autonomia negoziale collettiva, che tali pattuizioni contenessero un preciso limite temporaneo di validità, da individuarsi al 30 aprile 1998 (ex plurimis, Cass. 9 giugno 2006 n. 13458, Cass. 20 gennaio 2006 n. 1074, Cass. 3 febbraio 2006 n. 2345, Cass. 2 marzo 2006 n. 4603). In tali pronunce questa Corte ha chiarito che negando che te parti collettive, con l’accordo del 25 settembre 1997, avessero inteso introdurre limiti temporali al ricorso ai contratti a termine, si dovrebbe concludere che gli accordi attuativi sopra indicati non avrebbero avuto alcun senso, neppure se considerati come meramente ricognitivi. In particolare, se il contratto del 25 settembre 1997 non avesse previsto alcun termine di efficacia per la facoltà conferita all’Azienda di stipulare i contratti a termine – essendo questa consentita al definitivo compimento della ristrutturazione – non avrebbe avuto alcun senso stipulare gli accordi attuativi in cui invece un termine risulta indicato; una diversa interpretazione escluderebbe qualunque effetto sia all’accordo attuativo in pari data, in cui si dava atto che l’azienda si trovava in stato di ristrutturazione fino al 31 gennaio 1998, sia al successivo accordo “attuativo” del 16 gennaio 1998, giacchè nulla ci sarebbe stato da “attuare” e nulla da “riconoscere” dal punto di vista temporale. Ancora minore senso avrebbe avuto la pattuizione contenuta in quest’ultimo accordo per cui ai contratti a termine poteva procedersi fino al 30 aprile 1998, ovvero che la società sarebbe stata specificamente legittimata a ricorrere ai contratti a termine “oltre” la data fissata.

5. Con il settimo e nono motivo la società Poste denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 1206, 1207, 1219, 2094 e 2099 c.c., nonchè vizio di contraddittorietà della motivazione per avere la corte territoriale ritenuto spettare al lavoratore una somma pari alle retribuzioni maturate, pur in assenza di prestazione lavorativa e di idonea costituzione in mora.

La ricorrente formulava, quindi, il seguente quesito di diritto: “Per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 e segg. cod. civ. e se la notifica del ricorso ex art. 414 c.p.c. possa essere considerata atto di messa in mora”.

Tale quesito risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso, ex multis, Cass. 4 gennaio 2011 n. 80).

Del resto è stato anche precisato che “è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie” (Cass. sez. un. 30 ottobre 2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass. 7 aprile 2009 n. 8463).

Nella specie, lamentato un error in iudicando e non in procedendo, non è neppure riprodotto od allegato al ricorso, in contrasto col principio dell’autosufficienza, il ricorso introduttivo o la richiesta del tentativo obbligatorio di conciliazione al fine di valutarne la idoneità a costituire valida costituzione in mora.

6. Con l’ottavo motivo la ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 112, 324, 346, 433 e 436 c.p.c. e dell’art. 2909 c.c., lamentando che la corte di merito, nonostante il Tribunale avesse disposto la detrazione dell’aliunde perceptum dal dovuto, aveva, pur in assenza di appello incidentale, riformato sul punto la sentenza gravata.

Il motivo è infondato per inconferenza, avendo la corte territoriale, per quanto qui interessa, respinto l’appello della società Poste.

7. Con il decimo motivo la società lamenta la violazione degli artt. 1218, 1219, 1223, 1227, 2099 e 2697 c.c. per non avere la corte territoriale comunque escluso il risarcimento dei danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza, id est ricercando una diversa occupazione (in tal senso il quesito di diritto).

Il motivo è inammissibile per la genericità del quesito, non contenendo, al pari del motivo di cui costituisce illustrazione, alcun elemento per valutare la dedotta violazione delle norme indicate e segnatamente dell’art. 1227 c.c..

8. Il ricorso deve in definitiva respingersi.

Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in Euro 40,00 Euro 2.500,00 per onorari, oltre spese generali, i.v.a. e c.p.a..

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 6 ottobre 2011.

Depositato in Cancelleria il 6 dicembre 2011

Sostieni LaLeggepertutti.it

La pandemia ha colpito duramente anche il settore giornalistico. La pubblicità, di cui si nutre l’informazione online, è in forte calo, con perdite di oltre il 70%. Ma, a differenza degli altri comparti, i giornali online non ricevuto alcun sostegno da parte dello Stato. Per salvare l'informazione libera e gratuita, ti chiediamo un sostegno, una piccola donazione che ci consenta di mantenere in vita il nostro giornale. Questo ci permetterà di esistere anche dopo la pandemia, per offrirti un servizio sempre aggiornato e professionale. Diventa sostenitore clicca qui

LEGGI ANCHE



NEWSLETTER

Iscriviti per rimanere sempre informato e aggiornato.

CERCA CODICI ANNOTATI

CERCA SENTENZA