Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26112 del 17/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 17/11/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 17/11/2020), n.26112

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. D’ANGIOLELLA Rosita – rel. Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –

Dott. CENICCOLA Aldo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 627/14 R.G., proposto da:

Agenzia delle Entrate, in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato che la rappresenta e difende ope

legis;

– ricorrente –

contro

Bel Poggio s.r.l., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata

e difesa, giusta procura a margine del ricorso, dall’avv.to Giovanni

Angelozzi, con il quale è elettivamente domiciliata in Roma, Viale

delle Milizie, n. 38.

– controricorrente –

avverso sentenza della Commissione regionale del Lazio n. 60/10/2013,

depositata il 07/05/2013, non notificata.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con avviso di accertamento, per l’anno 2006, l’Agenzia delle entrate accertava, in capo alla società Bel Poggio s.r.l., esercente l’attività di ristoranti, trattorie e pizzerie, maggiori imposte ai fini Ires, Irap ed Iva, relative a maggiori ricavi e redditi d’impresa rispetto a quelli dichiarati; l’accertamento traeva origine da una verifica fiscale che rilevava alcune irregolarità nella contabilità dell’impresa; nello specifico, la verifica contabile della società fu fatta prendendo in esame gli ordinativi di alcune tipologie di carne, in quanto materia prima usata nella preparazione dei pasti principali dell’attività di ristorazione, rinomata proprio per tale pietanza, determinando in n. 64.486 le porzioni di carne ritraibili dagli acquisti contabilizzati; tuttavia, dalla verifica risultava che il numero di porzioni di carne che risultavano fatturate era pari a n. 22.297 con una differenza rispetto a quelle non fatturate di 28.438 porzioni. Tale irregolarità, insieme alla non coerenza del ricarico rispetto agli studi di settore di riferimento, determinò l’emissione dell’avviso per antieconomicità della gestione dell’impresa.

La società proponeva ricorso alla Commissione tributaria provinciale di Roma, deducendo l’illegittimità e l’erroneità dell’avviso in quanto basato su di una serie di presunzioni e prove logiche infondate; chiedeva, dunque, l’annullamento dell’avviso e, in subordine, la riduzione della somma ripresa a tassazione.

La Commissione tributaria provinciale accoglieva parzialmente il ricorso della società, rideterminando, in meno, l’ammontare dei ricavi (da Euro 761.008,88 determinati dall’Ufficio ad Euro 34.464,00).

2. La società contribuente impugnava tale decisione innanzi alla Commissione tributaria regionale del Lazio chiedendo l’integrale annullamento dell’opposto accertamento; l’Agenzia delle entrate resisteva al gravame formulando appello incidentale inteso ad ottenere la conferma integrale dell’avviso.

La Commissione tributaria regionale del Lazio, con la sentenza in epigrafe, accoglieva integralmente l’appello della società annullando l’avviso di accertamento “in quanto illegittimamente emesso in carenza dei relativi presupposti e privo di adeguata motivazione” con conseguente rigetto dell’appello incidentale proposto dall’Amministrazione finanziaria.

3. L’Amministrazione finanziaria ha proposto ricorso per Cassazione avverso tale sentenza deducendo quattro motivi. La società Bel Poggio s.r.l. ha resistito con controricorso ed ha presentato memoria ex art. 380 bis 1 c.p.c..

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate deduce la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R.29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), della stessa disposizione, comma 2 e del D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 sexies, per aver la Commissione tributaria regionale mal applicato i presupposti legittimanti l’accertamento analitico-induttivo operato dall’Ufficio in relazione al D.P.R. cit., art. 39, comma 1 e non, invece, in base al comma 2 della stessa disposizione che riguarda la diversa ipotesi dell’accertamento cd. “induttivo puro”.

1.2. Con il secondo motivo di ricorso, l’Agenzia delle entrate deduce, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame circa fatti decisivi per il giudizio, che sono stati oggetto di discussione tra le parti proprio sul punto riguardante l’antieconomicità della gestione dell’impresa di cui alle circostanze fattuali evidenziate nelle motivazioni dell’accertamento (riportato alle pagg. 8 e 13 del ricorso) e nel processo verbale di constatazione (riportato alla pag. 14 del ricorso) ed in base alle quali l’Ufficio ha fondato l’accertamento presuntivo dei redditi del contribuente.

1.3. Con il terzo, deduce la violazione e falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, u.c., e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, laddove la Commissione tributaria regionale ha annullato l’avviso sul presupposto che fosse privo di adeguata motivazione, trascurando che, invece, l’avviso di accertamento indicava non solo le ragioni per le quali si era proceduto ad una verifica analitica-induttiva, ma anche gli elementi di fatto su cui si basava la pretesa fiscale. All’uopo, la ricorrente ha trascritto in ricorso la motivazione dell’avviso di accertamento (v. pag. 17 del ricorso).

1.4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia, nuovamente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio, laddove la Commissione tributaria regionale ha annullato l’avviso per carenza di motivazione dell’avviso ignorando del tutto le allegazioni difensive dell’Ufficio di cui alle controdeduzioni svolte in primo grado (come riportate alla pag. 19 del ricorso) ed in appello; da tali allegazioni difensive la Commissione tributaria regionale avrebbe dovuto agevolmente desumere che il calcolo si basava sui dati ricavabili dalla fatture emesse dalla stessa società e che la società non era stata in grado contrastare alcunchè in ordine alle specifiche osservazioni dei verificatori.

2. Va premesso che l’apparato motivazionale della decisione impugnata si basa su due rationes decidendi: a) il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento (aggredito con il terzo ed il quarto motivo di ricorso); b) il merito della pretesa (aggredito con il primo ed il secondo motivo di ricorso); la Commissione regionale ha, cioè, affermato la nullità dell’avviso di accertamento per carenza di motivazione in ordine ai presupposti previsti dal D.P.R. cit., art. 39, comma 2, per la ricostruzione induttiva dei reddito (v. pag. 2 della sentenza qui gravata) ed è pervenuta a tale decisione ritenendo che l’Agenzia delle entrate non aveva giustificato i presupposti per fare ricorso all’accertamento induttivo, pur in presenza di regolarità formale della contabilità della società ed in mancanza di difformità importati dagli studi di settore.

2.1. Secondo l’ordine logico delle questioni di cui all’art. 276 c.p.c., comma 2, vanno trattate distintamente le due rationes decidendi, affrontando prima quella relativa al difetto di motivazione dell’avviso (di cui al terzo e quarto motivo di ricorso) che riguarda un vizio formale dell’atto impugnato, ponendosi, così, come questione assorbente rispetto ad ogni altra, in quanto tale vizio, laddove sussistente, sarebbe idoneo a sorreggere la decisione di integrale annullamento dell’avviso.

3. Ciò posto, la ricorrente pone, con il terzo motivo, la questione pregiudiziale del difetto di motivazione, sotto il profilo della violazione di legge. Tale mezzo è inammissibile.

3.1 Per giurisprudenza unanime di questa Corte il vizio di “violazione e falsa applicazione di norme di diritto” consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge ed inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione: il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato, dunque, dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (cfr. Sez. 5, 20/03/2009, n. 6813).

In tale ultima ipotesi, per le sentenze pubblicate successivamente all’11 settembre 2012, data dalla quale è entrato in vigore l’art. 360 c.p.c., nuovo testo del n. 5, l’impugnazione è consentita per la diversa ipotesi di omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti.

3.1. Nel caso in esame, tenuto conto dell’apparato motivazionale della sentenza impugnata, non v’è dubbio che la Commissione tributaria regionale abbia fondato entrambe le rationes decidendi su di un accertamento in fatto e non su di un’erronea ricognizione della fattispecie astratta, così che non è configurabile il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, di cui al terzo motivo che risulta inammissibile.

4. Stessa sorte, per le stesse ragioni, segue il primo motivo di ricorso, anch’esso deducente il vizio di legge e, quindi, anch’esso inammissibile.

5. Si tratta, dunque, di accertare se sussista il vizio censurato (non solo con il quarto motivo, pregiudiziale, ma anche con il secondo), di erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa.

6. Ritiene il Collegio che i motivi (secondo e quarto) con i quali la ricorrente ha dedotto il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5, sono oltre che ammissibili – essendo stata l’impugnazione proposta come omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti – fondati. Essi, per la loro stretta connessione, vengono esaminati congiuntamente.

7. Appare opportuno evidenziare che l’accertamento fiscale da cui muove la presente controversia, è un accertamento di tipo analitico-induttivo, accertamento che origina dall’analisi dei costi sostenuti ed esposti in contabilità dall’impresa per giungere a ritenere insufficienti i ricavi dichiarati (nella specie relativi all’anno 2006). Con riguardo all’accertamento analitico-induttivo, questa Corte ha da tempo chiarito che “l’accertamento con metodo analitico-induttivo, con quale il fisco procede alla rettifica di singoli componenti reddituali, ancorchè di rilevante importo, è consentito, ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, giacchè la disposizione presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e, tuttavia, contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti che facciano seriamente dubitare della completezza e fedeltà della contabilità esaminata” (cfr., ex plurimis, Sez. 5, 24/09/2014, n. 20060). In materia di Iva, è stato soggiunto che “l’Amministrazione finanziaria, in presenza di contabilità formalmente regolare ma intrinsecamente inattendibile per l’antieconomicità del comportamento del contribuente, può desumere in via induttiva, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, commi 2 e 3, sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti, il reddito del contribuente utilizzando le incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, incombendo su quest’ultimo l’onere di fornire la prova contraria e dimostrare la correttezza delle proprie dichiarazioni” (cfr., Sez. 6-5, 30/12/2015, n. 26036; eadem, Sez. 5, 11/10//2018, n. 25217).

E’ stato evidenziato che, nel giudizio tributario, una volta contestata dall’Erario l’antieconomicità di un’operazione posta in essere dal contribuente che sia imprenditore commerciale, perchè basata su contabilità complessivamente inattendibile in quanto contrastante con i criteri di ragionevolezza, diviene onere del contribuente stesso dimostrare la liceità fiscale della suddetta operazione ed il giudice tributario non può, al riguardo, limitarsi a constatare la regolarità della documentazione cartacea. Infatti, è consentito al fisco dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere minori costi, utilizzando presunzioni semplici e obiettivi parametri di riferimento, con conseguente spostamento dell’onere della prova a carico del contribuente, che deve dimostrare la regolarità delle operazioni effettuate a fronte della contestata antieconomicità (cfr. Sez. 5, 14/06/2013, n. 14941; Sez. 5, 25/10/2017, n. 25257).

7.1. Alla luce di tali principi risulta che la sentenza impugnata ha omesso di esaminare e valutare in concreto se gli elementi (presuntivi) risultanti dalla motivazione dell’accertamento e dal p.v.c., come richiamati negli atti difensivi dei giudizi di merito (v. pagg. 13 e 14 del ricorso) in base ai quali l’Ufficio ha ritenuto di adottare il metodo analitico-induttivo, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett. d), del D.P.R. n. 600 del 1973, pure in presenza di contabilità formalmente tenuta, rispondessero ai requisiti previsti dall’art. 2729 c.c. (cd. presunzioni semplici) e se gli stessi fossero stati superati dalla prova contraria del contribuente. Quand’anche si volessero apprezzare alcuni cenni motivazionali della sentenza impugnata come l’espressione di una compiuta valutazione (negativa) – da parte della Commissione tributaria regionale – dei suddetti elementi presuntivi dedotti dall’Ufficio, la sentenza non si sottrarrebbe alla censura di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 sotto il profilo della “motivazione apparente” non avendo spiegato adeguatamente il perchè della carenza motivazionale dell’avviso (cfr. Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).

7.2. Già nell’avviso di accertamento (la cui motivazione è riportata in ricorso) e, poi, nelle difese dei giudizi di merito, il fatto decisivo e controverso riguardava i dati delle fatture emesse dalla stessa società unitamente ai dati desunti dalle rilevazioni statistiche effettuate presso altri esercenti di settore (ristorazione con prevalenza della pietanza di carne); in particolare, la ricostruzione indiretta dei ricavi e la valutazione di antieconomicità è stata ricavata, in primo luogo, dalla voci del bilancio societario da cui è stato evinto “che a fronte di un valore di produzione pari ad Euro 1.202.433,00 corrispondono costi di produzione per Euro 1.172.373,00 e che la differenza di Euro 30.060,00 è assorbita da altri elementi di gestione non caratteristica generando un risultato civilistico ante imposte pari ad Euro 11.990,00”; inoltre, dalla dichiarazione fiscale mod. U60, per l’anno 2006, ove è riportata una perdita di esercizio pari ad Euro 5.331,00 e ciò per il riporto delle perdite pregresse; anche dai parametri dello studio di settore di riferimento, dai quali è risultata l’incoerenza del ricavo dichiarato inferiore rispetto al valore minimo dello studio di riferimento (2,07 contro 2,19). Ancora, con la verifica contabile sono stati esaminati gli ordinativi di alcune tipologie di carne – “indicate a pag. 6 del p.v.c.” – in quanto l’attività di ristorazione della società era rinomata soprattutto per i piatti carne, così che sono stati ricostruiti n. 64.486 le porzioni di carne ritraibili dagli acquisti contabilizzati, è stato ricavato il numero di porzioni di carne fatturata (pari a 22.297) ed, infine il numero di pasti completi, considerando, per presunzione, che in ogni pasto vi fosse una porzione di carne. Si è così ottenuto, per differenza, il numero di porzioni di carne non fatturate di 28.438 porzioni, con la maggiore rideterminazione del reddito d’impresa.

7.3. Nessuna carenza motivazionale dell’avviso appare dunque riscontrabile, ma ciò che pare omesso è, dunque, l’esame di tali elementi e, quindi, la valutazione sull’antieconomicità della gestione d’impresa; una volta effettuata tale verifica, nel caso di esito positivo, il giudice di merito avrebbe dovuto, poi, verificare se i fatti dedotti dal contribuente per dimostrare, come suo onere, la regolarità delle operazioni effettuate, prevalessero sulle presunzioni poste a base dell’accertamento dell’Ufficio e, quindi, eventualmente annullare l’avviso.

8. In conclusione, ritenuta l’inammissibilità dei motivi primo e terzo, il ricorso va accolto in relazione ai restanti motivi e per quanto in motivazione; per l’effetto, la sentenza impugnata va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, perchè proceda ad un nuovo esame della controversia nei termini su esposti.

La Commissione tributaria regionale è tenuta a provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso ai sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Commissione tributaria regionale del Lazio, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche in ordine alle spese del presente giudizio.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della V sezione civile della Corte di Cassazione, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2020

 

 

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