Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2611 del 04/02/2010

Cassazione civile sez. I, 04/02/2010, (ud. 02/12/2009, dep. 04/02/2010), n.2611

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PROTO Vincenzo – Presidente –

Dott. DI PALMA Salvatore – Consigliere –

Dott. NAPPI Aniello – Consigliere –

Dott. ZANICHELLI Vittorio – Consigliere –

Dott. SALVATO Luigi – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Fallimento della società irregolare in nome collettivo D.G.

C. e D.G.A. e dei soci illimitatamente

responsabili, in persona del Curatore fallimentare – elettivamente

domiciliato in ROMA, via dei Due Macelli n. 66, presso lo studio

dell’avv. Gian Paolo Zanchini (studio Lovells), rappresentato e

difeso dall’avv. Romano Pietro, in virtù di procura a margine del

ricorso;

– ricorrente –

contro

R.C.M.;

– intimata –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania del 10 dicembre

2003;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 2

dicembre 2009 dal Consigliere dott. Luigi Salvato;

udito per il ricorrente Fallimento L’avv. Pietro Romano, che ha

chiesto l’accoglimento del ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.

ABBRITTI Pietro, che ha concluso per l’inammissibilità o il rigetto

del ricorso.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

1.- Il curatore del fallimento della società di fatto tra D.G. C. e D.G.A. (di seguito Fallimento) conveniva in giudizio davanti al Tribunale di Siracusa R.C.E., chiedendo che fosse dichiarata l’inefficacia – a norma della L. Fall., art. 67, comma 1, n. 1 – dell’atto (OMISSIS) con il quale D.G.C. e D.G.A. avevano venduto alla convenuta una porzione di fabbricato costituita da un vano al piano interrato di mq. 500 e da un vano negozio al piano terra, compresa nell’edificio posto in (OMISSIS), per il prezzo di L. 200 milioni, notevolmente inferiore all’effettivo valore del bene trasferito.

La convenuta si costituiva in giudizio e resisteva alla domanda, deducendo la congruità del prezzo pagato e la mancata conoscenza dello stato di insolvenza dei venditori e chiedendo, in riconvenzionale, la condanna della procedura al pagamento di L. 100 milioni, pari al costo delle opere di completamento e rifinitura dell’immobile consegnato al rustico.

Disposta e attuata indagine tecnica al fine di accertare il valore di mercato dell’immobile all’epoca del contratto di compravendita, il Tribunale, con sentenza 4 ottobre 1993, accoglieva la domanda condannando la convenuta al rilascio delle due unità immobiliari.

La Corte d’appello di Catania, con sentenza 18 giugno 1996, rigettava l’appello della R., dedotto principalmente sul punto che il prezzo indicato nell’atto pubblico di compravendita era inferiore a quello effettivamente pattuito e corrisposto (pari a L. 300 milioni), quale risultante dalla controdichiarazione redatta contestualmente all’atto di trasferimento. Rilevava al riguardo la Corte di merito che il documento contenente la controdichiarazione in ordine al prezzo dissimulato, privo di data certa, era inopponibile al curatore, nè la prova sulla asserita data poteva essere fornita a mezzo di testimoni o per presunzioni.

Ferma dunque l’accertata sproporzione tra prezzo pagato e valore dell’immobile, riteneva la Corte che la convenuta non aveva vinto la presunzione di conoscenza dello stato di insolvenza dei venditori – posta a suo carico dalla L. Fall., art. 67, comma 1, non essendo sufficiente a quel fine l’allegazione che gli stessi venditori al tempo della compravendita avevano in corso la costruzione di altri edifici per essersi aggiudicati l’opera relativa in una gara d’appalto o che il cantiere nel quale erano compresi i vani ceduti “era in attività”, poichè tali circostanze non sono compatibili con lo stato di dissesto dell’impresa, mentre la presunzione legale di conoscenza era avvalorata in fatto “da una specifica circostanza particolarmente significativa, quale il trasferimento delle due unità immobiliari allo stato rustico”.

2.- Per la cassazione di detta sentenza proponeva ricorso la R. e questa Corte, con sentenza del 14 gennaio 1999, n. 351, rigettava i primi due motivi, concernenti la prova del pagamento di un prezzo superiore a quello indicato nel contratto notarile di compravendita ed accoglieva.

La sentenza accoglieva, invece, il terzo motivo, con il quale la R. aveva dedotto la violazione delle norme che presiedono alla valutazione delle prove presuntive, nonchè difetto di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del requisito soggettivo dell’azione revocatoria.

In particolare, la sentenza premetteva che “la conoscenza del dissesto (…) sfugge necessariamente alla prova diretta, sicchè alla presunzione relativa posta dalla L. Fall., art. 67, comma 1 non possono essere opposti che elementi presuntivi fondati sulle manifestazioni obbiettive dell’imprenditore (in realtà insolvente) percepibili, dalla parte entrata in relazione con lui, con l’impiego della ordinaria diligenza imposta dalla natura dell’affare. L’onere della prova liberatoria posto a carico dell'”altra parte” può dirsi dunque assolto se quelle manifestazioni accertate su impulso probatorio di essa o non controverse nel giudizio siano sintomatiche del normale esercizio dell’impresa”. La pronuncia osservava, quindi, che “la decisione impugnata considera il complesso di comportamenti appariscenti dei venditori come prospettati dalla R. (ma non riferisce se al riguardo siano stati assunti mezzi istruttori o se quei comportamenti non siano controversi nel giudizio), quali la persistente attività del cantiere edile nel cui fabbricato erano comprese le due unità immobiliari compravendute, la contestuale gestione di altri cantieri per la costruzione di numerosi edifici, la aggiudicazione di nuove opere in una gara di appalto, ma nega che “tali circostanze” siano “incompatibili con lo stato di dissesto dell’impresa”, mentre la presunzione legale di conoscenza sarebbe stata confermata dalla “specifica circostanza particolarmente significativa” come “il trasferimento delle due unità immobiliari allo stato rustico”.

Dunque, sottolineava ancora la pronuncia, “palese è il vizio logico dell’argomento principale su cui si fonda il giudizio ora riferito, giacchè la Corte di merito a ben vedere pone a carico della R. l’onere di provare fatti obbiettivi idonei ad escludere la sussistenza stessa dello stato di insolvenza (incompatibili, appunto con il dissesto), come se il tema dell’accertamento presuntivo fosse costituito dalle condizioni effettive di normalità dell’impresa e non invece dalla apparenza affidabile di simili condizioni; mentre per altro rimane priva di giustificazione – e perciò si espone alla censura di insufficiente motivazione – l’affermazione che il trasferimento delle due unità immobiliari “allo stato rustico” (prive cioè, pare doversi intendere, delle rifiniture) darebbe conferma della consapevolezza nella acquirente della crisi economica dei venditori”.

La sentenza cassava, infine, la pronuncia di merito, stabilendo che il giudice del rinvio avrebbe dovuto procedere “al riesame degli elementi presuntivi sui quali la R. fonda la asserita prova della ignoranza dello stato di insolvenza dei venditori” e dare “adeguata motivazione del convincimento che si sarà formato al riguardo”.

3.- Il Fallimento riassumeva il giudizio e la Corte d’appello di Catania, con sentenza del 10 dicembre 2003, in accoglimento dell’appello, ed in riforma della sentenza del Tribunale di Siracusa del 4 ottobre 1993, rigettava la domanda.

Per quanto qui interessa, la Corte territoriale riteneva insussistente la prova della scientia decoctionis, in quanto la R. aveva dedotto nella comparsa di costituzione di primo grado “che i venditori non avevano subito alcun protesto nè procedure esecutive, non avevano cessato la loro attività ed anzi, avevano intrapreso in quel periodo lavori per oltre L. tre miliardi”, anche su appalto dell’Istituto Autonomo case popolari di (OMISSIS).

Sussistevano, quindi, elementi da ritenere incompatibili con lo stato di insolvenza e siffatte circostanze non erano “state mai contestate nè avanti il tribunale nè avanti la Corte di appello, essendosi la curatela fallimentare limitata a sostenere la loro irrilevanza ai fini della decisione”.

Il giudice del rinvio, richiamate alcune pronunce di questa Corte in ordine al principio di non contestazione, che rendeva rilevanti le succitate circostanze, osservava che la circostanza che la società fallita nel mese di luglio 1981 aveva ancora cantieri aperti confortava il giudizio di inesistenza di elementi tali da palesare lo stato di decozione.

Infine, la Corte distrettuale riteneva “elemento equivoco” la circostanza che le unità immobiliari erano state alienate “allo stato rustico” e così anche un ricorso per sequestro conservativo proposto dalla R., siccome di data successiva al contratto in questione.

3.- Per la cassazione di detta sentenza ha proposto ricorso il Fallimento, affidato a due motivi; non ha svolto attività difensiva l’intimata.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1.- Il ricorrente, con il primo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 2729 c.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 c.p.c., n. 5) deducendo che la sentenza impugnata non avrebbe adeguatamente motivato in ordine alla prova della inscientia decoctionis, poichè avrebbe valorizzato a tal fine elementi inidonei. In particolare, la mancata cessazione dell’attività e l’avere intrapreso ulteriori lavori sarebbero circostanze generiche, prive dei caratteri necessari per assumerle quali elementi presuntivi, vieppiù in difetto di ogni indicazione in ordine alle modalità con cui l’acquirente ne avrebbe avuto conoscenza.

Secondo il Fallimento, il giudice del merito avrebbe malamente svalutato la rilevanza dell’istanza di sequestro conservativo proposto dalla R., omettendo di considerare che ella aveva denunciato che il “grave dissesto finanziario” della venditrice era notorio, mentre neppure avrebbe adeguatamente valorizzato la circostanza che l’immobile era stato venduto al rustico.

Infine, l’esclusione della scientia decoctionis neppure avrebbe potuto essere affidata soltanto all’inesistenza di protesti cambiar e di procedure esecutive.

Il Fallimento, con il secondo motivo, denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. e dell’art. 67, L. Fall., in relazione all’art. 115 c.p.c. (art. 360 c.p.c., n. 3), nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia (art. 360 n. 5 c.p.c.)/ nella parte in cui la pronuncia ha ritenuto provate le circostanze indicate nel primo mezzo, in quanto non contestate, erroneamente evocando al riguardo un principio enunciato da due sentenze di questa Corte concernenti il processo del lavoro.

Inoltre, i “fatti enunciati nella istanza al Giudice delegato” per l’autorizzazione alla proposizione del giudizio, nonchè “nella comparsa di costituzione in sede di appello (nella quale si nega espressamente di non aver contestato i fatti dedotti dalla convenuta …)” smentirebbero “in punto di fatto il presupposto utilizzato dalla Corte” per sostenere la conclusione censurata, non sussistendo elementi in grado di dare univoca significazione al “contegno delle parti nel processo (ed in particolare il silenzio di chi abbia interesse a contraddire)”.

2.- I due motivi, da esaminare congiuntamente, in quanto giuridicamente e logicamente connessi sono infondati.

3.- La sentenza impugnata, come indicato nella narrativa, è stata resa all’esito di giudizio di rinvio, conseguito alla sentenza di questa Corte n. 351 del 1999.

Pertanto, occorre premettere che questa pronuncia ha cassato la pronuncia che aveva ritenuto non provata da parte della R. la inscientia decoctionis, in quanto aveva posto a carico della predetta “l’onere di provare fatti obbiettivi idonei ad escludere la sussistenza stessa dello stato di insolvenza (incompatibili, appunto con il dissesto), come se il tema dell’accertamento presuntivo fosse costituito dalle condizioni effettive di normalità dell’impresa e non invece dalla apparenza affidabile di simili condizioni”. Inoltre, ha affermato che l’onere della prova liberatoria può ritenersi assolto, qualora sia dimostrata l’esistenza, alla data di compimento dell’atto astrattamente revocabile, di “manifestazioni obiettive” “sintomatiche del normale esercizio dell’impresa”, che devono essere “accertate su impulso probatorio” della parte convenuta, “o non controverse nel giudizio”. Infine, ha rilevato che la pronuncia di merito aveva dato atto dei comportamenti prospettati dalla R. come sintomatici della normalità dell’attività d’impresa, “ma non riferisce se al riguardo siano stati assunti mezzi istruttori o se quei comportamenti non siano controversi nel giudizio”, e, da un canto, ne aveva negato, erroneamente, la rilevanza, non considerando che occorreva valutare la “apparenza affidabile di simili condizioni”; dall’altro, aveva insufficientemente motivato in ordine alla rilevanza, in senso contrario, del trasferimento delle unità immobiliari “allo stato rustico”.

La sentenza ha, quindi, onerato il giudice del rinvio del compito di procedere “al riesame degli elementi presuntivi sui quali la R. fonda la asserita prova della ignoranza dello stato di insolvenza dei venditori” e dare “adeguata motivazione del convincimento che si sarà formato al riguardo”.

3.1.- Tale essendo il principio enunciato dalla sentenza n. 351 del 1999, e le ragioni della cassazione della pronuncia, risulta chiaro che la Corte territoriale, quale giudice del rinvio, ha correttamente osservato il vincolo che le faceva carico.

La pronuncia qui impugnata ha, infatti, dato atto della sussistenza, alla data del contratto di compravendita ((OMISSIS)), di una serie di elementi astrattamente sintomatici della normalità nell’esercizio dell’attività di impresa, consistenti: nel fatto che la società fallita aveva “nei mesi di (OMISSIS) ancora cantieri aperti a (OMISSIS) (tanto che lo stesso curatore richiedeva al giudice delegato la nomina di un coadiutore)” (pg. 10); nella circostanza che i venditori, come dedotto dalla R. nella comparsa di costituzione, non avevano subito alcun protesto nè procedure esecutive, non avevano cessato la loro attività ed anzi avevano intrapreso in quel periodo lavori per oltre tre miliardi”, per conto proprio e quali vincitori di un appalto bandito dall’Istituto Autonomo Case Popolari di (OMISSIS) (pg. 9).

Il giudice del merito ha ritenuto dette circostanze, in particolare la “costruzione di nuovi edifici e la continuità del cantiere, unitamente all’assenza di procedure esecutive”, “non compatibili con lo stato di insolvenza” (pg. 9), ritenendo irrilevanti, in contrario, sia la vendita al rustico (poichè “diverse possono essere le motivazioni” di tale scelta”, compatibili con la inscientia decoctionis, quali, tra queste, la necessità di avere l’immediata disponibilità dei locali), sia la proposizione di un ricorso per sequestro conservativo, siccome inoltrato il (OMISSIS), e cioè sette mesi dopo il contratto di compravendita.

Si tratta, come è chiaro, di una motivazione sufficiente, congrua ed immune da vizi logici che ha dato corretta applicazione alla sentenza n. 351 del 1999, ma anche, più in generale, alla giurisprudenza di questa Corte in tema di prova della inscientia decoctionis, secondo la quale essa può essere offerta dimostrando, anche mediante il ricorso a presunzioni, la insussistenza, al momento dell’atto, di elementi rivelatori dello stato di insolvenza, ovvero mediante la prova della ricorrenza di circostanze tali da indurre una persona di normale prudenza e avvedutezza a ritenere che l’impresa si trovasse in situazione di normale esercizio (tra le tante, Cass. n. 3781 del 2008; n. 5917 del 2002).

Le censure, nel punto concernente la asserita rilevanza della vendita “al rustico” e del ricorso per sequestro conservativo, non prospettano, infatti, vizi denunciabili ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma contrappongono, inammissibilmente, una diversa interpretazione rispetto a quella offerta dalla Corte territoriale.

In particolare, relativamente a quest’ultimo elemento, il ricorrente prospetta che la R. avrebbe dedotto nella domanda di sequestro conservativo che il dissesto finanziario era notorio. Tuttavia, il Fallimento, in violazione del principio di autosufficienza, non ha trascritto il contenuto dell’atto, così da permettere di apprezzare che il riferimento contenuto nella domanda cautelare era stato operato con modalità ed in termini tali da evidenziare la conoscenza dell’insolvenza già alla data di stipula del contratto di compravendita.

Le censure, nel punto concernente la prova degli ulteriori elementi dai quali è stata desunta la inscientia decoctionis sono, in parte, infondate, in parte inammissibili.

In primo luogo, va, infatti, osservato che la sentenza impugnata ha desunto la continuità dell’attività di impresa, svolta con modalità tali da indurre in una persona di normale avvedutezza il convincimento sull’inesistenza dello stato di decozione, da elementi anche ulteriori rispetto a quelli ritenuti non contestati, poichè ha precisato che la società poi fallita aveva “nei mesi di (OMISSIS) ancora cantieri aperti a (OMISSIS) (tanto che lo stesso curatore richiedeva al giudice delegato la nomina di un coadiutore)” (pg. 10).

In secondo luogo, relativamente agli ulteriori elementi ed alla valorizzazione della loro mancata contestazione, va premesso che anche in riferimento alle norme del codice di rito qui applicabili (il giudizio di primo grado è stato introdotto con citazione del 2.2.1982) operava il principio secondo il quale i fatti allegati da una parte possono considerarsi pacifici, si da potere essere posti a base della decisione, non solo quando siano stati esplicitamente ammessi dalla controparte, ma anche quando questa non li contesti specificamente ed imposti altrimenti il proprio sistema difensivo (per tutte, Cass. n. 5733 del 2993). Ed è appunto questo il principio al quale risulta improntata la pronuncia, al di là dei richiami giurisprudenziali in essa svolti, sicchè non occorre qui occuparsi della possibilità di estendere il principio di non contestazione proprio del rito del lavoro anche al rito ordinario, nè occuparsi della sua conformazione, quale conseguita alle riforme processuali degli anni 90.

Ebbene, a fronte della corretta evocazione di detto principio, che va condiviso e ribadito, la contestazione della sufficienza, congruità e logicità della motivazione, dedotta, in relazione a tale profilo, lamentando l’insussistenza del presupposto che avrebbe consentito di ritenere i fatti non contestati, imponeva all’istante, in adempimento dell’onere di autosufficienza del ricorso, di trascrivere le parti rilevanti degli atti del giudizio di merito contenenti la contestazione delle deduzioni svolte dalla convenuta in ordine agli elementi di fatto valorizzati per ritenere la inscientia decoctionis (su principio di autosufficienza, tra le più recenti, Cass. S.U. n. 16528 del 2008; Cass. n. 15952 del 2007), così da consentire a questa Corte di valutare, senza accedere agli atti di merito, la fondatezza della deduzione in punto di contestazione.

Tanto non è, invece, accaduto; il ricorrente si è, infatti, limitato ad invocare i “fatti enunciati nella istanza al Giudice delegato al fallimento” e le “valutazioni in fatto utilizzate nell’atto di citazione e, specialmente, nella comparsa di costituzione in sede di appello”, nella quale “si nega espressamente di non aver contestato i fatti dedotti dalla convenuta” (così nel secondo motivo di censura, pg. 10), con prospettazione che, in quanto così formulata, è palesemente inidonea a far ritenere adempiuto l’onere di autosufficienza, con conseguente inammissibilità delle doglianze concernenti la motivazione, nel punto in cui ha ritenuto pacifici e non contestati gli elementi di fatto sopra indicati.

Il ricorso va, quindi, rigettato; non deve essere resa pronuncia sulle spese, non avendo l’intimata svolto attività difensiva.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2009.

Depositato in Cancelleria il 4 febbraio 2010

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