Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2608 del 05/02/2014


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 2608 Anno 2014
Presidente: MASSERA MAURIZIO
Relatore: ROSSETTI MARCO

SENTENZA

sul ricorso 9358-2010 proposto da:
CORTE ROSADA S.R.L. IN LIQUIDAZIONE 00188300909 in
persona del liquidatore Sig. EMILIO BENATO,
elettivamente domiciliata in ROMA, VIA L. MANCINELLI
65, presso lo studio dell’avvocato MOSCATI ENRICO,
rappresentata e difesa dall’avvocato ZORZAN ARRIGO
2013

TIZIANO giusta delega in atti;
– ricorrente –

2215
contro

INTESA SANPAOLO S.P.A.

già BANCA INTESA S.P.A.

00799960158 in persona del legale rappresentante Dr.

1

Data pubblicazione: 05/02/2014

ANGELO ELIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE
DI VILLA GRAZIOLI 15, presso lo studio dell’avvocato
GARGANI BENEDETTO, che la rappresenta e difende
unitamente all’avvocato ROBINO GASPARE giusta delega
in atti;

avverso la sentenza n. 548/2009 della CORTE D’APPELLO
di MILANO, depositata il 24/02/2009, R.G.N. 2090/2004;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica
udienza del 26/11/2013 dal Consigliere Dott. MARCO
ROSSETTI;
udito l’Avvocato ENRICO MOSCATI per delega;
udito l’Avvocato GASPARE ROBINO;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore
Generale Dott. TOMMASO BASILE che ha concluso per il
rigetto del ricorso;

2

– controricorrente –

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Udienza del 26 novembre
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SVOLGIMENTO DEL PROCESSO
1. La società Corte Rosada s.r.l. nel 1989 prestò fideiussione a favore della
banca “Banco Ambrosiano Veneto s.p.a.”, a garanzia dei crediti da
quest’ultima vantati nei confronti della società Iniziative Industriali s.p.a..

Dopo qualche anno (1994) vennero dichiarati falliti sia il debitore

principale (Iniziative Industriali s.p.a.) sia il fideiussore (Corte Rosada s.r.I.).
Sorse così controversia tra la curatela del fallimento “Corte Rosada” e la
banca garantita, riguardante la validità della fideiussione prestata dalla
Corte Rosada in bonis.
Tale controversia venne transatta il 28.4.1995, con un accordo in virtù del
quale la curatela rinunciò a contestare la validità della fideiussione prestata
dalla Corte Rosada in bonis, e la banca rinunciò agli interessi maturati fino
alla data del fallimento del fideiussore.
In virtù di tale accordo, il credito della banca nei confronti del fideiussore
Corte Rosada venne ammesso al passivo del fallimento di quest’ultima
società, per l’importo di sei miliardi di lire.

3. Dopo diversi anni, nel 2002 la Intesa Gestione Crediti s.p.a. (società cui il
relativo credito era stato ceduto dal Banco Ambrosiano Veneto s.p.a., e che
in seguito mutò ragione sociale dapprima in “Banca Intesa s.p.a.”, e quindi
in “Intesa Sanpaolo s.p.a.”, e come tale d’ora innanzi sarà indicata) chiese
ed ottenne dal Tribunale di Monza il sequestro conservativo dei beni della
Corte Rosada s.r.l. in bonis, a garanzia del pagamento degli interessi
maturati sul debito della Corte Rosada nel periodo tra la dichiarazione di
fallimento e l’effettivo pagamento (e dunque nel periodo in cui il corso degli
interessi era rimasto sospeso ex lege verso la curatela).
Sia nel ricorso cautelare, sia nel provvedimento di sequestro, si subordinava
l’efficacia della misura cautelare all’avvenuta chiusura del fallimento.

4. Ottenuto il sequestro, la Intesa Sanpaolo convenne in giudizio dinanzi il
Tribunale di Milano la Corte Rosada s.r.l. in bonis, chiedendone la condanna
al pagamento degli interessi sopra indicati.

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2.

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Udienza del 26 novembre
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Anche in questo caso la società attrice precisava che la domanda di
condanna doveva intendesi subordinata al ritorno in bonis della debitrice.

5. La Corte Rosada s.r.l. si costituì ed eccepì:
– in rito, l’inammissibilità della domanda, sul presupposto che il credito

creditori in sede fallimentare;
– nel merito, che la fideiussione indicata come fonte del credito azionato era
nulla, e che comunque gli interessi vantati dalla banca sarebbero dovuti
decorrere dalla data della transazione stipulata tra questa e la curatela, e
non dalla data del fallimento.

6.

Il Tribunale di Monza, con sentenza 28.2.2004 n. 712, accolse la

domanda e condannò Corte Rosada s.r.l. al pagamento in favore della
Intesa Sanpaolo di euro 1.110.696,011, oltre le spese di lite.
La sentenza subordinava l’efficacia della statuizione al ritorno in bonis della
Corte Rosada.

7. La sentenza venne appellata da Corte Rosada s.r.I., ribadendo nella
sostanza le eccezioni sollevate dinanzi al Tribunale.
L’appello venne rigettato dalla Corte d’appello di Milano con la sentenza
24.2.2009 n. 548.
Tale sentenza viene ora impugnata per cassazione dalla Corte Rosada s.r.l.
in liquidazione, sulla base di tre motivi. La Intesa Sanpaolo ha resistito con
controricorso.
Tutte e due le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..
MOTIVI DELLA DECISIONE
1. Il primo motivo di ricorso.

Col primo motivo di ricorso la Corte Rosada lamenta, ai sensi dell’art. 360, n.
3, c.p.c., la violazione degli artt. 43, 51 e 55 del r.d. 16.3.1942 n. 267
(legge fallimentare).
Espone che la domanda formulata nei suoi confronti dalla Intesa Sanpaolo
doveva essere dichiarata inammissibile. Tale domanda infatti, ancorché

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e

azionato dalla Banca Intesa dovesse essere accertato nel concorso degli altri

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formulata in via subordinata rispetto al ritorno in bonis della convenuta,
secondo la Corte Rosada non rientrerebbe nelle ipotesi in cui la
giurisprudenza ha ammesso una persistente legittimazione processuale in
proprio dell’imprenditore fallito, e ciò per quattro ragioni:
(a)

perché la domanda formulata dalla Intesa Sanpaolo “trovava il suo

nei confronti del fallito, ai sensi dell’art. 51 r.d. 267/42 (così il ricorso, pp.
10-11);
(b) perché la Intesa Sanpaolo non era un creditore rimasto estraneo alla
procedura, in quanto era stato ammesso al passivo fallimentare il suo
credito per il capitale (ibidem, pp. 13-15);
(c) perché il credito per interessi maturati dopo il fallimento, azionato dalla
Intesa Sanpaolo, non poteva essere ritenuto un credito “estraneo alla
procedura”, in quanto scaturente da un credito ammesso al passivo (ibidem,
pp. 16-17);
(d) infine, perché la domanda formulata dalla Intesa Sanpaolo pregiudicava
i creditori intervenuti e non integralmente soddisfatti.
Questo motivo di ricorso è infondato con riferimento a ciascuno dei profili
appena indicati, per i motivi che saranno indicati nei §§ che seguono.

1.1. Il primo profilo del primo motivo.
1.1.1. La dichiarazione di fallimento ha, tra i suoi effetti, quello di privare il
fallito della legittimazione ad agire o resistere in giudizio. Questo principio è
sancito dall’art. 43, comma 1, r.d. 16.3.1942 n. 267, ai sensi del quale
“nelle controversie, anche in corso, relative a rapporti di diritto patrimoniale
del fallito compresi nel fallimento sta in giudizio il curatore”.
La ragione per la quale il fallito non può domandare in prima persona
l’adempimento delle obbligazioni di cui sia creditore, né essere convenuto
per l’adempimento di quelle di cui sia debitore, risiede nel fatto che l’esito di
questi giudizi incide sul patrimonio del fallito, e quindi influisce sulla
formazione dell’attivo e sulla soddisfazione dei creditori ammessi al
concorso.

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presupposto” nell’istanza di sequestro conservativo, istanza inammissibile

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Questa finalità segna il fondamento ed il limite della perdita di
legittimazione in capo al fallito.
Se, infatti, la legittimazione di quest’ultimo è trasferita ope legis al curatore
al fine di salvaguardare gli interessi dei creditori, di tale trasferimento non
vi sarà bisogno per tutte quelle azioni insuscettibili di nuocere al ceto

Questo principio viene espresso con la tradizionale formula secondo cui la
perdita di legittimazione processuale in capo al fallito, per effetto della
dichiarazione di fallimento, non è assoluta ma relativa, e non comprende:
(a) dal punto di vista oggettivo, i diritti e le azioni esclusi dal fallimento;
(b) dal punto di vista soggettivo, i diritti e le azioni proposti da creditori che,
in luogo di partecipare al concorso, abbiano scelto di soddisfarsi
sull’eventuale patrimonio che residuerà alla distribuzione dell’attivo (c.d.
tutela postfallimentare).

1.1.2. I princìpi appena esposti sono incontrastati nella giurisprudenza di
legittimità, e prevalenti in dottrina. In applicazione di essi si è ammesso, ad
esempio:
(-) che il creditore del fallito possa convenirlo in giudizio in proprio,
chiedendo espressamente una condanna da intendersi eseguibile solo
nell’ipotesi in cui questi dovesse ritornare in bonis (Sez. 3, Sentenza n.
10640 del 26/06/2012; Sez. 1, Sentenza n. 5727 del 23/03/2004, e via
risalendo, sino alla sentenza “capostipite”, rappresentata da Cass. n. 3475
del 1955);
(-) che la pubblica amministrazione possa emettere nei confronti del fallito
una ordinanza-ingiunzione per il pagamento d’una sanzione amministrativa,
destinata a produrre effetti quando il trasgressore sia tornato in bonis (Sez.
1, Sentenza n. 12563 del 08/07/2004);
(-) che il fallito possa partecipare al giudizio arbitrale, al fine di ottenere un
lodo destinato a produrre i propri effetti nei confronti del fallito una volta
che questi sarà ritornato

in bonis (Sez. 1, Sentenza n. 8545 del

28/05/2003);

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creditorio.

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(-) che il fallito possa essere convenuto in giudizio con una domanda
fondata su un rapporto di cui gli organi fallimentari si siano disinteressati, e
tesa ad ottenere una condanna da far valere dopo la chiusura del fallimento
(Sez. L, Sentenza n. 3245 del 05/03/2003; Sez. 1, Sentenza n. 1359 del

1.1.3. Si applichino ora i princìpi appena esposti al caso di specie.
La Intesa Sanpaolo ha domandato nei confronti della Corte Rosada una
pronuncia di condanna, da far valere subordinatamente al ritorno in bonis
della debitrice, ed in tal senso ha disposto il Tribunale, con la sentenza poi
confermata dalla Corte d’appello.
La Intesa Sanpaolo si è dunque legittimamente avvalsa della facoltà
concessale dall’art. 43 r.d. 267/42, nella tradizionale interpretazione che di
questa norma ha dato la giurisprudenza: e cioè optare per la c.d. tutela
postfallimentare del proprio credito. Rispetto a tale domanda, pertanto, la
Corte Rosada s.r.l. in proprio non era affatto priva di legittimazione passiva,
a nulla rilevando la contemporanea pendenza della procedura fallimentare.

1.1.4. La conclusione appena esposta non è infirmata da alcuno dei rilievi
formulati dalla società ricorrente ed esposti supra, § 1.1.2.

1.1.5. Nulla rileva, in primo luogo, che la domanda di condanna proposta
personalmente nei confronti del fallito sia stata preceduta da un ricorso per
sequestro conservativo, accolto in sede di reclamo.
Il sequestro conservativo, infatti, non è – al contrario di quanto dedotto in
iure dalla parte ricorrente – “i/ presupposto sostanziale e processuale” della
domanda di condanna (così il ricorso, pp. 10-11).
Per effetto della riforma dei procedimenti cautelari, introdotta dall’art. 90
della I. 26.11.1990 n. 353, il procedimento cautelare ante causam e la fase
di cognizione piena del merito costituiscono due giudizi distinti e separati,
ancorché tra loro strumentali.
La fase di merito, infatti, non ha più ad oggetto la “convalida” del
provvedimento cautelare, ma il rapporto giuridico a garanzia del quale

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18/02/1999).

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venne concesso il provvedimento d’urgenza. Essa costituisce quindi un
giudizio sul rapporto, e non più un giudizio sull’atto di autorizzazione del
sequestro o di concessione di altra misura cautelare.
Sulla base del principio della autonomia tra fase cautelare e fase di merito,
pacifico anche in dottrina, si è ad esempio ritenuto:

quanto dedotto nella fase cautelare, e possano intervenire parti ulteriori
(Sez. 3, Sentenza n. 22830 del 10/11/2010);
(-) che è inammissibile impugnare la sentenza che decide la fase di merito,
adducendo vizi processuali verificatisi nella fase cautelare (Sez. L, Sentenza
n. 2821 del 05/02/2009);
(-) che la procura rilasciata al difensore soltanto per la fase cautelare è
inefficace per l’introduzione del giudizio di merito (Sez. 3, Sentenza n.
10822 del 08/06/2004).
Deve pertanto negarsi la correttezza giuridica del principio invocato dal
ricorrente, e cioè che il provvedimento di sequestro conservativo costituisse
“il presupposto sostanziale e processuale” della domanda di merito proposta
dalla Intesa Sanpaolo. Al contrario, tale domanda era ammissibile ex se, a
nulla rilevando l’esistenza del precedente provvedimento cautelare.

1.2. Il secondo profilo de/primo motivo di ricorso.
Altrettanto irrilevante è la seconda allegazione

in iure della società

ricorrente, secondo cui la Intesa Sanpaolo non avrebbe potuto domandare
la condanna della Corte Rosada in proprio, perché non era “un creditore
estraneo alla procedura”, avendo già ottenuto l’ammissione al passivo per la
quota capitale del credito.
Essa infatti non tiene conto che la Intesa Sanpaolo ha chiesto ed ottenuto
l’ammissione al passivo per un credito

diverso

da quello azionato

direttamente nei confronti della Corte Rosada.
Il primo, avente ad oggetto la somma dovuta dal fallito nella veste di
fideiussore, indubitabilmente soggetto al concorso degli altri creditori; il
secondo, avente ad oggetto somme di denaro che il fallimento mai poteva

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(-) che nel giudizio di merito possano formularsi domande nuove rispetto a

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essere condannato a pagare, e quindi ovviamente estraneo alla regola del
concorso ed alla procedura fallimentare.

1.3. Il terzo profilo del primo motivo di ricorso.
Sotto un terzo profilo, la Corte Rosada insiste nel sostenere l’inammissibilità

assumendo che il credito per interessi maturati dopo il fallimento, azionato
dalla Intesa Sanpaolo, non poteva essere ritenuto un credito “estraneo alla
procedura”, in quanto scaturente da un credito ammesso al passivo (così il
ricorso, pp. 16-17).
Tale affermazione non tiene conto di un principio tanto risalente quanto
pacifico sia nella dottrina unanime che nella giurisprudenza: quello secondo
cui l’art. 55 r.d. 267/42, là dove stabilisce che il corso degli interessi è
sospeso nel periodo compreso tra la dichiarazione di fallimento e la chiusura
dello stesso, rileva solo nei confronti della curatela ed ai soli effetti del
concorso.
Nei confronti del fallito, invece, gli interessi continuano a decorrere anche
durante la procedura, e gli potranno essere domandati dopo la chiusura del
fallimento se e quando dovesse tornare in bonis (Sez. 2, Sentenza n.
12262 del 03/12/1997, in motivazione): prova ne sia che, anche durante la
pendenza del fallimento, gli interessi maturati dopo l’apertura di esso
restano dovuti dagli eventuali fideiussori del fallito (ex permultis, Sez. 1,
Sentenza n. 11228 del 28/08/2000; Sez. 3, Sentenza n. 7603 del
14/08/1997). Il che non potrebbe spiegarsi, data l’accessorietà
dell’obbligazione del fideiussore, se non presupponendo che gli interessi
dovuti dal debitore principale continuano a maturare dopo l’apertura del
fallimento, sebbene non siano dovuti da quest’ultimo.

1.4. Il quarto profilo del primo motivo di ricorso.
Sotto un quarto profilo, infine, la Corte Rosada assume che la domanda
della Intesa Sanpaolo si sarebbe dovuta dichiarare inammissibile, perché
pregiudicava i creditori intervenuti e non integralmente soddisfatti.
Anche questo argomento è privo di rilievo, ed anzi di ardua comprensibilità.

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della domanda proposta nei suoi confronti dalla banca Intesa Sanpaolo,

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A prescindere da qualsiasi rilievo sull’interesse – ex art. 100 c.p.c. – della
Corte Rosada a sollevare questioni circa la lesione del diritto di credito altrui,
appare decisiva la considerazione che,

in apicibus, al momento della

chiusura del fallimento non possono darsi che due possibilità:
(a) o tutti i creditori intervenuti sono stati integralmente soddisfatti, ed

un terzo aggredisca esecutivamente il patrimonio residuato dopo la chiusura
del fallimento;
(b)

ovvero non tutti i creditori intervenuti sono stati integralmente

soddisfatti: ed in questo caso, ove emergano nuove attività
successivamente alla chiusura del fallimento, costoro saranno tutelati dallo
strumento della riapertura del fallimento, di cui all’art. 121 I. fall.: ed anche
in tal caso, essendo preferiti rispetto al creditore che ha optato per la tutela
postfallimentare, nessun nocumento potranno subire per effetto della
sentenza che abbia condannato il fallito in proprio al pagamento di una
somma di denaro subordinatamente al ritorno in bonis.

2. Il secondo motivo di ricorso.
2.1. Col secondo motivo di ricorso la Corte Rosada lamenta che la sentenza
impugnata sia sorretta da una motivazione

“omessa, insufficiente o

contraddittoria”, nella parte in cui ha escluso che l’obbligazione azionata
dalla Intesa Sanpaolo in sede extraconcorsuale fosse estinta.
Il motivo si fonda su un presupposto di fatto: che il fallimento della Corte
Rosada e la Intesa Sanpaolo (illo tempore, “Banco ambrosiano Veneto”)
abbiano stipulato una transazione novativa, in virtù della quale il primo
rinunciò agli atti del giudizio promosso al fine di far accertare l’invalidità
della fideiussione stipulata dalla Corte Rosada in bonis a beneficio della
banca, e la seconda rinunciò globalmente a tutti gli interessi maturati sul
proprio credito, sia anteriori che successivi alla dichiarazione di fallimento.
Muovendo da questo presupposto di fatto, la Corte Rosada assume che delle
due l’una:
(a) se la suddetta transazione ebbe effetto novativo, il credito della banca
per gli interessi doveva ritenersi estinto per rinuncia in sede transattiva;

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allora ovviamente nessun pregiudizio costoro potranno subire dal fatto che

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(b) se la suddetta transazione invece non ebbe effetto novativo, sì da
lasciare intonso il credito della banca per interessi, allora si dovevano
ritenere ancora opponibili, dalla Corte Rosada alla banca, tutte le eccezioni
di nullità ed annullabilità della fideiussione che aveva formato l’oggetto
dell’accordo transattivo, non esaminate dalla Corte d’appello.

conclude la Corte Rosada – sarebbe perciò contraddittoria, nella parte in cui
avrebbe:
(-) da un lato, ritenuto escluso dalla transazione il credito per interessi
maturati dopo la dichiarazione di fallimento, così mostrando di qualificare
come “non novativa” la transazione stessa;
(-) dall’altro, ritenute “assorbite” dalla transazione tutte le questioni inerenti
la validità della fideiussione oggetto dell’accordo transattivo, così mostrando
di ritenere “novativa” la transazione stessa.

2.2. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.

2.2.1. In punto di fatto, la società ricorrente pone a fondamento del ricorso
una precisa circostanza, e cioè che per effetto della transazione stipulata tra
la curatela e la banca, quest’ultima avrebbe rinunciato al credito per
interessi maturati dopo la dichiarazione di fallimento.
La sentenza impugnata, tuttavia, aveva accertato un fatto ben diverso: e
cioè che la suddetta transazione “non aveva toccato per nulla la diversa
pretesa (…) azionata nel giudizio presente, degli interessi legali maturati
(…) dalla data del fallimento alla data del pagamento” (così la sentenza
impugnata, pag. 6, sesto rigo).
Rispetto a questo accertamento in fatto della Corte d’appello, la società
ricorrente non lamenta la violazione delle norme in materia di
interpretazione dei contratti (artt. 1361 e ss. c.c.), ma lamenta la
contraddittorietà della motivazione.
E tuttavia, vertendosi in tema di interpretazione di contratti, il ricorso
fondato su un vizio di motivazione nell’accertamento dell’effettivo contenuto
del contratto avrebbe richiesto la deduzione dell’avvenuto deposito del

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La motivazione adottata da quest’ultima nella sentenza impugnata –

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contratto in corso di causa, e la trascrizione nel ricorso del testo
contrattuale della cui difettosa interpretazione ci si duole.
Nel caso di specie, invece:
(a) il testo della transazione tra la banca e la curatela non risulta mai essere
stato prodotto da alcuna delle parti in causa;

risulterebbe la correttezza della propria interpretazione;
(c) il verbale di causa, nel quale il giudice della domanda di nullità della
fideiussione diede atto dell’intervenuta transazione (e dal quale la Corte
Rosada pretenderebbe che la corte d’appello avrebbe dovuto trarre la prova
dell’estinzione del credito per interessi), è testo ben diverso dal contratto di
transazione, e che non può surrogare la mancata produzione di quest’ultimo
ai fini della corretta interpretazione del negozio.
Il

motivo in esame, in definitiva, vuole contrapporre una propria

interpretazione del contratto di transazione stipulato tra banca e fallimento
a quella adottata dalla Corte d’appello, ma senza indicare dove e quando il
suddetto testo contrattuale sia stato prodotto nei gradi di merito, né
trascrivendone il contenuto.
Tale vizio rende inammissibile il motivo.

2.2.2. Per la stessa ragione, inammissibile è la doglianza con la quale la
Corte Rosada si duole del fatto che la Corte d’appello avrebbe trascurato di
provvedere sulle sue domande di nullità della fideiussione: ed infatti,
avendo la Corte stabilito – con accertamento in fatto insindacabile in questa
sede – che per effetto della transazione la validità della fideiussione non era
più contestabile, e non avendo la ricorrente depositato né trascritto il testo
della transazione, non è ammissibile in questa sede sindacare la suddetta
interpretazione del contratto di transazione adottata dalla Corte d’appello.

2.2.2. In punto di diritto, poi – lo si rileva unicamente ad abundantiam – è
bene ricordare che:
(a) la Corte Rosada mostra di ritenere che una transazione debba avere
carattere novativo sol perché una delle parti stipulanti abbia rinunciato a

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(b) la ricorrente non si è premurata di trascrivere le clausole dalle quali

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sollevare questa o quella eccezione: tesi inusitata, la quale finirebbe per
condurre a qualificare come “novativa” qualsiasi transazione, posto che per
la validità di questo tipo di contratto è sempre necessaria una concessione
alla controparte;
(b) la curatela fallimentare non poteva essere debitore di alcuna somma a

banca, giusto il divieto di cui all’art. 55 I. fall.; la banca, di conseguenza,
stipulando la transazione col fallimento non poteva rinunciare al relativo
credito, per la semplice ragione che non si può rinunciare a crediti di cui non
si sia titolari.

3. Il terzo motivo di ricorso.
3.1. Col terzo motivo di ricorso la Corte Rosada lamenta la violazione di
legge, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., con riferimento all’art. 1282 c.c..
La ricorrente si duole della statuizione con la quale il giudice di merito l’ha
condannata, nella veste di fideiussore, a pagare alla Intesa Sanpaolo gli
interessi da questa maturati sul debito principale, con decorrenza dalla data
dell’apertura del fallimento.
Allega la ricorrente che il credito vantato dalla banca, in conto capitale,
sorse non dalla fideiussione stipulata con la Corte Rosada in bonis, ma dalla
transazione stipulata tra la banca e la curatela, con la quale quest’ultima
rinunciò a far valere le eccezioni di invalidità della fideiussione stessa.
Gli interessi su tale credito, pertanto, non potevano che decorrere dalla data
della transazione, non esistendo prima di essa un credito liquido ed esigibile.

3.2. Anche questo motivo di ricorso è infondato.
La transazione non estingue le obbligazioni che ne formano oggetto, se non
quando possa qualificarsi come novativa.
Si sono già indicate al § 2.2.1, tuttavia, le ragioni per le quali non è
possibile, in questa sede, sindacare l’accertamento in fatto col quale il
giudice di merito ha qualificato come non novativa la transazione stipulata
tra la banca e la curatela.

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titolo di interessi maturati dopo l’apertura del fallimento nei confronti della

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Udienza del 26 novembre
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Ne consegue che il credito per il quale la banca ha chiesto in giudizio il
pagamento degli interessi maturati dopo il fallimento è il medesimo credito
vantato nei confronti del debitore principale; debito che era stato garantito
dal fideiussore, il quale pertanto è tenuto in proprio al pagamento degli
interessi maturasti dopo la dichiarazione di fallimento, interessi che per le

La Corte d’appello, pertanto, non ha violato l’art. 1282 c.c., perché non ha
fatto decorrere gli interessi da un momento anteriore alla nascita del credito.
Inammissibili, infine, in questa sede sono le censure riguardanti
l’individuazione del saggio degli interessi e l’avvenuta regolare costituzione
in mora del debitore principale. Tali questioni sono state infatti ritenute
dalla Corte d’appello assorbite dalla già ricordata transazione tra banca e
curatela, in virtù della quale la seconda rinunciò a sollevare eccezioni in
merito alla validità di quest’ultima. Né tale statuizione, per quanto già detto,
può essere rivisitata in questa sede, non avendo alcuna delle parti né
depositato nei gradi di merito il testo della transazione, né avendo la
ricorrente trascritto le relative clausole nel ricorso.
4. Le spese.
Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente, ai
sensi dell’art. 385, comma 1, c.p.c..
P.q.m.
la Corte di cassazione:
-) rigetta il ricorso;
-) condanna la Corte Rosada s.r.l. alla rifusione nei confronti della Intesa
Sanpaolo s.p.a. delle spese del presente grado di giudizio, che si liquidano
in euro 8.200 (di cui 200 per spese).
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Terza Sezione civile
della Corte di cassazione, addì 26 novembre 2013.

regole già esposte il creditore non poteva esigere dalla curatela.

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