Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2606 del 31/01/2017


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Cassazione civile, sez. VI, 31/01/2017, (ud. 01/12/2016, dep.31/01/2017),  n. 2606

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5256-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE Spa, in persona del Presidente del Consiglio di

Amministrazione e Legale rappresentante pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIALE MAZZINI 134, presso lo studio

dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la rappresenta e difende, giusta

procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

T.R.M., elettivamente domiciliata in ROMA, GIULIO CESARE

61, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO DRISALDI, rappresentata e

difesa dall’avvocato BENEDETTO GUGLIELMO, giusta mandato a margine

del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 296/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 14/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. GARRI FABRIZIA;

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte di appello di Roma ha parzialmente accolto l’appello di Poste Italiane s.p.a. ed ha confermato l’infondatezza dell’eccezione di risoluzione per mutuo consenso del rapporto intercorso tra le parti nel periodo dal 23.12.1997 al 31.1.1998 ai sensi del CCNL 26 novembre 1994, art. 8, come integrato dall’accordo del 25.9.1997 per esigenze di carattere eccezionale conseguenti alla ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali della società; confermato la illegittima apposizione del termine al contratto per la diversa ragione che la società, sulla quale gravava il relativo onere, non aveva offerto la prova dell’avvenuto rispetto della quota percentuale massima di assunzioni a termine prescritta dalla L. n. 56 del 1987, art. 23 e dall’art. 8 del ccnl richiamato mentre ha ritenuto che in relazione al sopravvenuto intervento della L. n. 183 del 2010, art. 32, le conseguenze economiche dell’accertata illegittimità del termine dovessero essere contenute nella misura di 3,5 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita dalla lavoratrice oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalla domanda giudiziaria.

Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane s.p.a. che articola sei motivi cui resiste la rupia con controricorso e deposita memoria con la quale insiste nelle conclusioni prese.

Tanto premesso e sulle censure svolte si osserva quanto segue:

1. – risoluzione per mutuo consenso del rapporto (primo motivo). 1,a Corte territoriale nel valutare la situazione sottoposta al suo esame, con giudizio di merito ispirato a valutazioni di tipicità sociale si è esattamente attenuta ai principi dettati dalla Cassazione che ha più volte ribadito che: a) in via di principio è ipotizzarle una risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526); b) l’onere di provare circostanze significative al riguardo grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403); c) la relativa valutazione da parte del giudice costituisce giudizio di merito; d) la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine, così come la ricerca medio tempore di una occupazione, non sono sufficienti a far ritenere intervenuta la risoluzione per mutuo consenso.

Nè del resto l’azienda, che avendo eccepito la risoluzione per mutuo consenso aveva l’onere di provare le circostanze dalle quali desumere la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine al rapporto di lavoro (v. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070), ha fatto riferimento a concreti e significativi comportamenti della lavoratrice che deponessero nel senso di non volere la prosecuzione del rapporto, neppure potendosi attribuire siffatta volontà a chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni, o a chi, come invece argomenta l’azienda, non abbia avuto una tempestiva reazione alla cessazione del rapporto per scadenza del termine.

Peraltro la Corte di merito ha sottolineato come nell’arco di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto e la proposizione del ricorso la lavoratrice abbia in più occasioni offerto la propria prestazione così confermando il suo interesse alla prosecuzione del rapporto.

Il motivo appare pertanto manifestamente infondato (in questo senso numerose decisioni e tra le più recenti Cass. n. 14985 del 2014 e nn. 10031 e 24189 del 2015).

2. – clausola di contingentamento (secondo terzo e quarto motivo).

Del pari infondate le censure con le quali la società lamenta un vizio di ultrapetizione da parte della Corte di appello che neppure in via di riproposizione delle difese formulate in primo grado era stato investito dell’esame dell’eccezione di avvenuto rispetto della clausola di contingentamento.

Ed infatti nella premessa del ricorso di primo grado la T. aveva rammentato che l’assunzione a termine poteva essere effettuata nel limite del 10% dei lavoratori assunti a tempo indeterminato.

La sentenza di primo grado ha ritenuto illegittima l’apposizione del termine sul diverso rilevo che la clausola non presentava in necessari caratteri di specificità.

Nella memoria di costituzione in appello aveva richiamato le difese svolte in primo grado e tra queste il rispetto della percentuale di contingentamento.

Ne segue che la Corte non è incorsa nel denunciato vizio di ultapetizione.

Neppure poi si ravvisa la denunciata violazione degli artt. 115, 116 e 420 c.p.c. o l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio (art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5).

La Corte infatti ha dato atto di aver esaminato le allegazioni della società e, con valutazione di merito in questa sede non censurabile, ha ritenuto che non fosse stata offerta una prova idonea a confermare l’avvenuto rispetto delle percentuali previste.

E’ fondata invece la censura che investe la statuizione con la quale è stabilita la decorrenza degli accessori sulla indennità risarcitoria liquidata. Premesso che non sussiste la denunciata nullità della sentenza per contrasto tra dispositivo e motivazione posto che nel dispositivo non è precisata la decorrenza degli accessori spettanti e dunque necessariamente lo stesso deve essere integrato dalla motivazione, erra tuttavia la Corte di merito nel fissare la decorrenza dalla domanda giudiziaria. Alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte alla quali si rinvia (cfr. tra le più recenti Cass. ord. 6 – lav. n. 17266 del 2016 ed ivi richiami di giurisprudenza), infatti, gli accessori decorrono solo dalla sentenza che converte il rapporto e non dalla domanda giudiziaria come ritenuto dalla Corte di appello.

Ne segue che la sentenza, sul punto deve essere cassata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, può tuttavia essere decisa nel merito con condanna della società a corrispondere sull’indennità risarcitoria della L. n. 183 del 2010, ex art. 32, gli interessi legali e la rivalutazione monetaria a decorrere dalla data della sentenza che ha convertito il rapporto da tempo determinato a tempo indeterminato. Ferme le spese dei gradi di merito, le spese del presente giudizio, stante il limitato accoglimento del ricorso, vanno compensate nella misura di 1/5 tra le parti, mentre i restanti 4/5 per il principio della soccombenza, sono poste a carico della ricorrente e vengono liquidate, per l’intero, come da dispositivo.

PQM

La Corte, rigetta i primi cinque motivi di ricorso accoglie il sesto.

Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e decidendo nel merito condanna la società ricorrente a corrispondere gli interessi legali e la rivalutazione monetaria sull’indennità risarcitoria della L. n. 183 del 2010, ex art. 32, a decorrere dalla sentenza che ha convertito il rapporto.

Condanna parte ricorrente al pagamento di quattro quinti delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano nell’intero in Euro 4000,00 per compensi professionali ed in Euro, 100,00 per esborsi oltre al 15% per spese forfetarie ed accessori come per legge. Compensa tra le parti il residuo quinto.

Così deciso in Roma, a seguito di riconvocazione, il 11 gennaio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2017

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