Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2606 del 28/01/2022

Cassazione civile sez. trib., 28/01/2022, (ud. 12/10/2021, dep. 28/01/2022), n.2606

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GUIDA Riccardo – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – est. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

Sul ricorso n. 1042-2017, proposto da:

BROKER FISH COMPANY s.r.l., c.f. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante p.t., elettivamente domiciliata in Roma, alla p.zza

dei Prati degli Strozzi n. 33, presso lo studio dell’avv. Roberto

Grimaldi, rappresentata e difesa dall’avv. Nicola Rago;

– Ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, cf (OMISSIS), in persona del Direttore p.t.,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope

legis;

– Controricorrente –

Avverso la sentenza n. 321/05/2016 della Commissione tributaria

regionale delle Marche, depositata il 16.05.2016;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 12

ottobre 2021 dal Consigliere Dott. Francesco FEDERICI;

lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del

Sostituto Procuratore generale, Dott. Vitiello Mauro, che ha chiesto

la declaratoria di inammissibilità del ricorso.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La Broker Fish Company s.r.l. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 321/05/2016, depositata il 16.05.2016 dalla Commissione tributaria regionale delle Marche.

Ha riferito che a seguito di verifica ed acquisizione di documentazione relativa all’anno d’imposta 2006 l’Agenzia delle entrate notificò alla società l’avviso di accertamento (OMISSIS), con il quale fu rettificato l’imponibile della contribuente, esercente attività d’intermediazione nel commercio di prodotti alimentari, bevande e tabacco. La maggiore pretesa fiscale trovava prevalentemente causa nel disconoscimento di spese, dell’importo di Euro 170.000,00, contabilizzate a titolo di pubblicità e corrisposte al Sig. P.P., titolare di una attività artistica, pittore ed incisore. Nello specifico il P. si era contrattualmente impegnato a mettere a disposizione della società spazi pubblicitari, inserendo il logo della sponsorizzatrice in cataloghi, locandine, cartoline e brochure nelle manifestazioni dell’attività di promozione artistica cui avrebbe partecipato, in occasione di fiere e mostre personali di pittura su tutto il territorio nazionale e internazionale. Contestando il difetto di inerenza delle spese di pubblicità, ritenute abnormi per le forme prescelte rispetto all’attività esercitata dalla società, ed ingiustificate in relazione al volume d’affari della stessa, l’Agenzia delle entrate, per quanto qui di interesse, riconobbe la deducibilità del solo minor importo di Euro 40.479,00, recuperando a tassazione Euro 129.521,00.

La società impugnò l’atto impositivo dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Ascoli Piceno, che con sentenza n. 71/03/2013 accolse le ragioni del contribuente, annullando l’avviso d’accertamento. La pronuncia fu appellata dalla Amministrazione finanziaria dinanzi alla Commissione tributaria regionale delle Marche, che con la sentenza ora al vaglio della Corte riformò la decisione di primo grado, confermando pertanto integralmente l’atto impositivo.

Per la cassazione della sentenza del giudice regionale la società ha proposto ricorso affidandosi a due motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.

La Procura Generale ha chiesto il rigetto del ricorso. Nella pubblica udienza del 12 ottobre 2021 la causa è stata discussa, e nella camera di consiglio decisa.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo parte ricorrente si duole della violazione del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 36 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, invocando la nullità della sentenza per motivazione apparente e manifesta irriducibile contraddittorietà quanto al disconoscimento della deducibilità delle spese di pubblicità;

con il secondo motivo si duole della violazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, artt. 108 e 109, del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 19 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, quanto al mancato riconoscimento della inerenza delle spese di pubblicità sostenute dalla ricorrente.

I motivi possono essere trattati congiuntamente perché connessi dalla critica rivolta alla sentenza del giudice regionale, che, rigettando le ragioni del contribuente e riconoscendo di contro la correttezza dell’atto impositivo, ha disconosciuto l’inerenza delle spese di pubblicità dedotte dalla società. In particolare nel ricorso, sotto gli aspetti dell’error juris in procedendo e dell’error iuris in judicando, la difesa del contribuente si duole delle incongruenze logico-strutturali della motivazione, che impediscono di “rivelare la ratio decidendi adottata dalla Commissione Tributaria Regionale”. La critica della società è rivolta a denunciare una incongruità tra le questioni afferenti al ricalcolo dei ricavi per la determinazione della base imponibile, nella diversa impostazione operata dall’ufficio e dalla contribuente, e la questione della inerenza delle spese, disconosciuta dall’Agenzia delle entrate e su cui invece insiste la società. Si denuncia peraltro nel ricorso che il giudice regionale avrebbe fatto un incongruo riferimento all’anno 2008 e non a quello oggetto d’accertamento, ossia il 2006.

Ora, a parte l’irrilevanza del riferimento all’anno d’imposta 2008, che costituisce solo un evidente errore materiale in cui è incorsa la Commissione regionale, il ragionamento sulla congruità delle spese, nella sequenzialità logica delle argomentazioni elaborate dal giudice d’appello, ma più in generale delle difese articolate da entrambe le parti, è riconducibile comunque alla controversia principale su cui si avvita il presente giudizio, ossia alla riconoscibilità o meno delle spese di pubblicità, sostenute dalla società e da questa dedotte in bilancio, ma disconosciute dall’Amministrazione finanziaria perché ritenute non inerenti. Così che la questione da affrontare è se su quelle spese di pubblicità la motivazione seguita nella sentenza impugnata sia giuridicamente corretta o meno, alla luce dei principi di diritto che informano il concetto di inerenza dei costi.

Ebbene, l’Amministrazione finanziaria aveva rilevato la scarsa correlazione funzionale tra il costo sostenuto per la pubblicità e l’idoneità della prestazione a produrre utili, comprovata peraltro dalla incongruenza tra spesa sopportata ed utili conseguiti.

La questione di cui dunque questo collegio deve occuparsi, è se i costi di pubblicità sostenuti dal contribuente, società di intermediazione nel settore alimentare, che si è avvalsa della spendita del proprio logo e del proprio nome in eventi di carattere culturale celebrati nell’ambito dell’attività artistica (di pittore ed incisore) del Sig. P. in varie parti d’Italia, possano trovare o meno collocazione nel concetto di inerenza. A questo concetto pertanto occorre preliminarmente rivolgere l’attenzione.

Gli approdi interpretativi sul concetto di inerenza hanno avvertito l’assenza di una nozione giuridica. Come evidenziato in dottrina, si tratta piuttosto di un principio per taluni aspetti immanente nella Costituzione, un “corollario” del concetto di reddito, ma tuttavia oggetto di dibattito ancora aperto, per il quale il richiamo al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, rappresenta un mero “contenitore”, in cui è semplicemente prevista l’indeducibilità dei costi che dovessero risultare estranei all’attività svolta.

Nella giurisprudenza, secondo l’interpretazione tradizionale, esso trova allocazione nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5, e in particolare è ricondotto al rapporto tra costo ed impresa. E’ stato in particolare affermato che, con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109 (già 75) va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicché il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Cass., 11 agosto 2017, n. 20049; 9 maggio 2017, n. 11241; 27 febbraio 2015, n. 4041). Anche l’ampiezza dello spettro entro cui riconoscere un rapporto di inerenza è stata scrutinata dalla giurisprudenza, sensibile a non ridurre la relazione entro criteri meramente formali, ampliandone invece la portata mediante la valorizzazione del rapporto e delle ricadute concrete tra spesa e coerenza economica con l’attività di impresa. Per un verso dunque si è negato che il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo (ex multis, Cass., 8 ottobre 2014, n. 21184) e che al contrario incomba sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, nonché la ragione e la coerenza economica della spesa al fine della prova dell’inerenza (anche qui, ex multis, Cass., 26 maggio 2017, n. 13300; 30 maggio 2018, n. 13596; con specifico riferimento all’Iva cfr. 27 settembre 2013, n. 22130; 7 giugno 2018, n. 14858). Sotto altro aspetto tuttavia è stato opportunamente e condivisibilmente avvertito come ai fini della deducibilità dei costi per la determinazione del reddito d’impresa non è sufficiente che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Cass., 25 febbraio 2015, n. 3746). Il che introduce un criterio interpretativo non solo utilizzabile per negare inerenza a spese finalizzate esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali (come per la fattispecie analizzata nella pronuncia da ultimo citata), ma anche, al contrario, per valorizzare spese che concretamente, in prospettive di ampia visione, si rivelino utili al progetto imprenditoriale, pur rivelando – ma solo in apparenza – un rapporto debole tra costo e attività d’impresa.

Tale ultimo rilievo torna utile quando, con un più recente orientamento, la Corte, abbandonando il tradizionale criterio del rapporto tra costo e requisiti di congruità e vantaggiosità dello stesso e prendendo le distanze dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109 quale fondamento del concetto di inerenza, ha affermato che, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, non dal D.P.R., art. 109, comma 5 (già 75) appena richiamato, riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili. Si è in particolare sostenuto che l’inerenza deve esprimere la necessità di riferire i costi sostenuti all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza necessità di compiere valutazioni in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta. E’ infatti configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico, né deve assumere rilevanza la congruità delle spese, perché il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Cass., 11 gennaio 2018, n. 450).

L’impostazione da ultimo riferita assume tuttavia solo apparentemente una posizione di rottura con il passato, perché – ad una piana lettura – è meno lontana di quanto sembri dalla tradizionale interpretazione. Infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la cd. disposizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo, intesi evidentemente nella loro esclusività, non vuol significare che essi siano del tutto estranei al giudizio di valore, cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza, e dunque dei presupposti per la sua deducibilità. Qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e, per le società, lo scopo del conseguimento di utili (ai fini del fisco elemento di manifestazione di ricchezza e dunque presupposto stesso della tassazione), e qualunque finalità voglia perseguirsi con l’impresa, non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di gestione dell’attività, che contrastano assiomaticamente con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate – tali ovviamente non in rapporto all’esito del costo ma secondo un giudizio prognostico a monte, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa -. Ciò perché è agevole ipotizzare che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa – e da ultimo alla sua crisi e cessazione -, sicché i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come d’altronde evidenzia quello stesso innovativo orientamento, che infatti nella parte conclusiva dello sviluppo argomentativo afferma che “l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa”.

La convergenza tra due percorsi interpretativi, in apparente contraddizione, trova conferma anche considerando il tradizionale orientamento interpretativo del concetto di inerenza, atteso che la valorizzazione della congruenza e vantaggiosità del costo, rapportato già prima all’impresa, a ben vedere, implicava un giudizio di valore qualitativo della stessa spesa. Ciò, in maniera più o meno esplicitata, viene ribadito anche nelle decisioni più recenti di questa Corte (Cass., 17 gennaio 2020, n. 902; 21 novembre 2019, n. 30366; 23 maggio 2018, n. 12738; 17 luglio 2018, n. 18904). E ciò, infine, è quanto si evince dalla più recente giurisprudenza Euro-unitaria (cfr. la recente pronuncia della Corte di Giustizia 25 novembre 2021, C-334/2020, Amper Metal Kft).

Quello che deve comunque esigersi è la prova dell’utilità del servizio remunerato.

Tenendo presenti le preliminari considerazioni sul concetto di inerenza, nel caso in oggetto la Commissione regionale, riportando le ragioni poste dalla Amministrazione finanziaria a fondamento dell’atto impositivo, ha considerato che la società aveva destinato l’importo di Euro 170.000,00 per spese di pubblicità, consistenti nell’esibizione “del marchio di identificazione del committente su locandine di mostre di pittura, tenutesi in varie località italiane”, così sottolineando l’incongruenza tra l’oggetto dell’attività d’impresa – intermediazione nel commercio di prodotti alimentari e in particolare di prodotti ittici – e la generalità dei soggetti interessati all’attività artistica del P., definito pubblico di nicchia, lontano dalla comune clientela della società. Ha anche riportato in sentenza che l’Agenzia delle entrate avesse ritenuto irragionevole che la contribuente, per quel tipo di pubblicità, spendesse il 39% dei ricavi complessivi “fino ad arrivare a chiudere il bilancio in perdita”, così ponendo in discussione la logica economica dell’impresa. In sentenza ha anche riportato che l’Amministrazione finanziaria aveva accertato che il Sig. P. non registrava i compensi relativi alle fatture emesse nei confronti della Broker Fish, o ne registrava importi inferiori.

Ebbene, nel criticare le conclusioni, favorevoli alla società, cui era pervenuta la Commissione provinciale, il giudice d’appello, in modo probabilmente sintetico ma certamente comprensibile, ha ritenuto che quei costi di pubblicità fossero incompatibili con i presupposti della inerenza. Ciò sia in riferimento alla loro congruità, sia con riguardo alle utilità, ancorché solo potenziali, all’attività commerciale esercitata dalla Broker Fish. Al di là delle citazioni giurisprudenziali, il giudice ha cioè mostrato di non discostarsi dal concetto di inerenza che, pur con i distinguo interpretativi sopra richiamati ed a fronte del caso concreto, valorizzi un giudizio qualitativo del costo sostenuto, senza trascurare tuttavia che l’incongruenza e l’antieconomicità del medesimo costo incidono sugli indici di valutazione, con conseguente giudizio qualitativo negativo ed, infine, disconoscimento della inerenza del costo medesimo. Nel percorso argomentativo la Commissione tributaria regionale non si è dunque discostata dai principi di diritto dispensati dalla Corte di legittimità.

Se poi con le sue difese la ricorrente ha inteso sollecitare una rivalutazione dei dati riscontrati e valorizzati dal giudice d’appello, i motivi risulterebbero inammissibili, essendo inibito in sede di legittimità un accertamento in fatto.

Il ricorso in conclusione va rigettato.

All’esito del giudizio segue la soccombenza della ricorrente nelle spese processuali, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore dell’Agenzia delle entrate delle spese del giudizio di legittimità, che liquidano in Euro 3.700,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, il 12 ottobre 2021.

Depositato in Cancelleria il 28 gennaio 2022

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