Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2605 del 31/01/2017

Cassazione civile, sez. VI, 31/01/2017, (ud. 01/12/2016, dep.31/01/2017),  n. 2605

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 4573-2015 proposto da:

POSTE ITALIANE SPA, in persona dell’Amministratore Delegato e legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI LIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta procura a margine del ricorso;

– ricorrente –

contro

C.S.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 538/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 04/02/2014;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

01/12/2016 dal Consigliere Dott. GARRI FABRIZIA.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE

La Corte di appello di Roma in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Frosinone che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto intercorso tra Poste Italiane s.p.a. e C.S. dal 1.7.2000 al 30.9.2000 e condannato la società al risarcimento del danno pari alle retribuzioni maturate e non erogate dalla messa in mora alla ricostituzione del rapporto con gli accessori dovuti per legge, ha dichiarato la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato tra le parti a decorrere dal 1.7.2000 e condannato la società al pagamento di una indennità risarcitoria quantificata il 3,5 mensilità della retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi e rivalutazione monetaria dalla scadenza del rapporto al saldo.

Per la cassazione della sentenza ricorre Poste Italiane s.p.a. che denuncia la violazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175, 1375, 2697, 1427 e 1431 c.c., art. 100 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, e l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La violazione e falsa applicazione del CCNL 1994, art. 8 e della L. n. 56 del 1987, art. 23, artt. 1362 e ss c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3. La violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, e l’omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32, e dell’art. 429 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, C.S. è rimasto intimato.

Tanto premesso il ricorso è fondato e deve essere accolto nei termini di seguito esposti.

1. – risoluzione per mutuo consenso del rapporto.

La Corte territoriale nel valutare la situazione sottoposta al suo esame, con giudizio di merito ispirato a valutazioni di tipicità sociale si è esattamente attenuta ai principi dettati dalla Cassazione che ha più volte ribadito che: a) in via di principio è ipotizzarle una risoluzione del rapporto di lavoro per fatti concludenti (cfr., ad es., Cass. 6 luglio 2007 n. 15264, 7 maggio 2009 n. 10526); b) l’onere di provare circostanze significative al riguardo grava sul datore di lavoro che deduce la risoluzione per mutuo consenso (cfr. ad es. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070 e 2 dicembre 2000 n. 15403); c) la relativa valutazione da parte del giudice costituisce giudizio di merito; d) la mera inerzia del lavoratore nel contestare la clausola appositiva del termine, così come la ricerca medio tempore di una occupazione, non sono sufficienti a far ritenere intervenuta la risoluzione per mutuo consenso.

Nè del resto l’azienda, che avendo eccepito la risoluzione per mutuo consenso aveva l’onere di provare le circostanze dalle quali desumere la volontà chiara e certa delle parti di volere porre definitivamente fine al rapporto di lavoro (v. Cass. 2 dicembre 2002 n. 17070), ha fatto riferimento a concreti e significativi comportamenti del lavoratore che deponessero nel senso di non volere la prosecuzione del rapporto, neppure potendosi attribuire siffatta volontà a chi sia stato costretto ad occuparsi o comunque cercare occupazione dopo aver perso il lavoro per cause diverse dalle dimissioni, o a chi, come invece argomenta l’azienda, non abbia avuto una tempestiva reazione alla cessazione del rapporto per scadenza del termine.

2. – legittimità dell’apposizione del termine al contratto.

Va premesso che la Corte territoriale è incorsa in un evidente errore laddove ha ritenuto la nullità del termine in relazione alla mancanza di autorizzazione da parte della contrattazione collettiva della specifica causale apposta al contratto successivamente al 30 aprile 1998.

Premesso che come risulta con chiarezza ed inequivocabilmente dagli atti riprodotti nel ricorso il contratto con il C. era stato concluso per la “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie” va rammentato che la Cassazione in numerose pronunce rese su fattispecie analoghe ha affermato che l’assunzione per “necessità di espletamento del servizio in concomitanza di assenze per ferie nel periodo giugno – settembre” costituisce un’ipotesi di assunzione a termine prevista dal C.C.N.L. del 26 novembre 1994, art. 8, – in esecuzione della “delega in bianco”, a favore dei sindacati, di cui alla L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, – per la quale non è necessario nè indicare nominativamente i lavoratori sostituiti nè allegare e provare che altri lavoratori siano stati in concreto collocati in ferie. Per tali assunzioni deve essere escluso il limite temporale del 30 aprile 1998 previsto dalla contrattazione collettiva per la diversa causale di assunzione “per esigenze eccezionali, conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi e in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane”, sicchè esse hanno continuato ad essere legittimamente effettuate sino all’entrata in vigore del D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368. (cfr. Cass. n. 6097 del 2014).

Ne segue che devono essere accolte le censure che sotto vari profili investono la stringata motivazione della sentenza sulla illegittimità del termine apposto al contratto che sul punto deve essere cassata. Rimane travolto il capo della decisione sulle conseguenze economiche e restano assorbite le relative censure.

Alla luce delle esposte considerazioni il primo motivo di ricorso, manifestamente infondato, deve essere respinto mentre il secondo motivo, manifestamente fondato, deve essere accolto con assorbimento delle altre censure.

Per l’effetto la deve essere sentenza cassata in relazione al motivo accolto e rinviata alla Corte di appello di Roma, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

PQM

La Corte, rigetta il primo motivo di ricorso. Accoglie il secondo motivo, assorbiti gli altri. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 1 dicembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2017

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