Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26042 del 17/11/2020

Cassazione civile sez. VI, 17/11/2020, (ud. 24/09/2020, dep. 17/11/2020), n.26042

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 3

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. AMENDOLA Adelaide – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 19471-2018 proposto da:

OSER S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA DI PIETRA 26, presso lo

studio dell’avvocato ELISABETTA BULDO, rappresentata e difesa

dall’avvocato GENNARO STELLATO;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE – RISCOSSIONE, (OMISSIS), in persona del

Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA DEI

PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la

rappresenta e difende ope legis;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5203/2017 della CORTE D’APPELLO di NAPOLI,

depositata il 20/12/2017;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 24/09/2020 dal Consigliere Relatore Dott. MARCO

ROSSETTI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Nel 2011 la società Oser s.p.a. (che in seguito muterà forma e ragione sociale in Oser s.r.l.) convenne dinanzi al Tribunale di Napoli la società Equitalia Polis s.p.a. (oggi soppressa dal D.L. 22 ottobre 2016, n. 193, art. 1, e le cui attribuzioni sono state trasferite ope legis alla Agenzia delle Entrate – Riscossione), esponendo che:

-) nel 2000 aveva acquistato un lotto di terreni esteso per circa 10 ettari;

-) nel 2005 la società appaltatrice del servizio di riscossione dei tributi aveva iscritto ipoteca sui suddetti terreni, a garanzia di “contributi finanziari non pagati” (così il ricorso, pag. 3);

-) nel 2009 la società Oser si accordò con tale D.N.C. per la vendita dei suddetti terreni; provvide contestualmente ad estinguere il proprio debito nei confronti dell’erario, e chiese alla società Equitalia di provvedere alla cancellazione dell’ipoteca;

-) alla data fissata per la stipula del contratto definitivo di alienazione dei fondi, ovvero al 18 gennaio 2010, la Equitalia non aveva ancora provveduto alla cancellazione dell’ipoteca;

-) a causa dei ritardi della Equitalia il promissario acquirente con lettera del 26 gennaio 2010 revocò la propria proposta di acquisto.

Concluse pertanto chiedendo la condanna della società convenuta al risarcimento del danno patito in conseguenza dello sfumare dell’affare sopra indicato.

2. La Equitalia si costituì chiedendo il rigetto della pretesa.

Con sentenza 4 maggio 2012 n. 5221 il Tribunale di Napoli accolse la domanda e condannò la società convenuta al pagamento in favore della società attrice della somma di Euro 200.000, pari alla differenza fra il prezzo d’acquisto del terreno e il prezzo d’acquisto offerto dall’acquirente poi receduto dall’affare.

La sentenza venne appellata da Equitalia.

3. Con sentenza 20 dicembre 2017 n. 5203 la Corte d’appello di Napoli accolse il gravame e rigettò la domanda attorea.

Il giudice di secondo grado ritenne sussistente una condotta negligente da parte dell’agente della riscossione, ma insussistente la prova del danno.

Ritenne la Corte d’appello che:

-) la Equitalia, al contrario di quanto ritenuto dal primo giudice, aveva espressamente contestato il quantum debeatur, ed in particolare il valore del terreno dichiarato dalla società attrice, sicchè tale capo di domanda non poteva ritenersi incontestato;

-) la circostanza che il terreno acquistato dalla Oser avesse un valore di mercato pari a Euro 650.000 “era rimasta allo stato di mera allegazione difensiva”;

-) non era credibile che una persona disposta a pagare Euro 850.000 per l’acquisto di un terreno potesse recedere dal proprio intento a causa della mancata cancellazione d’una iscrizione ipotecaria presa a garanzia di un debito residuo di soli 191 Euro, il quale risultava peraltro già estinto in virtù d’un pagamento effettuato vari mesi prima della data fissata per la stipula del contratto definitivo;

-) infine osservò la Corte d’appello che “la mancata vendita di un immobile non comporta di per sè un pregiudizio, se si tiene conto delle notorie plusvalenze immobiliari nel tempo”.

4. La sentenza d’appello è stata impugnata per cassazione dalla Oser s.r.l., con ricorso fondato su un solo motivo articolato in più censure. Ha resistito con controricorso l’Agenzia delle entrate – Riscossione.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con l’unico motivo il ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione dell’art. 2697 c.c., e dell’art. 115 c.p.c..

Il motivo, se pur formalmente unitario, contiene tre censure.

1.1. Con una prima censura la ricorrente sostiene che erroneamente la Corte d’appello ha ritenuto che la Equitalia, in primo grado, avesse validamente contestato il quantum debeatur.

Sostiene la ricorrente che la Equitalia, nel costituirsi in primo grado, formulò delle contestazioni generiche, come tali inidonee ad assolvere l’onere di specifica contestazione richiesto dall’art. 115 c.p.c..

1.2. Con una seconda censura la ricorrente sostiene che la Corte d’appello ha errato nel ritenere che la società attrice non avesse dimostrato il valore commerciale dell’immobile. Tale valore era invece dimostrato dal deposito dell’atto pubblico d’acquisto, valore debitamente iscritto nel bilancio d’esercizio della Oser, e che l’atto di vendita costituiva di per sè prova del valore di mercato dell’immobile ipotecato.

1.3. Con una terza censura, infine, la ricorrente investe l’affermazione compiuta dalla Corte d’appello secondo cui “la mancata vendita di un bene immobile non comporta di per sè un pregiudizio”; sostiene che il principio affermato dalla Corte d’appello si trasformerebbe in una prova impossibile a darsi da parte del danneggiato.

1.4. La prima delle suesposte censure è infondata.

Questa Corte ha infatti più volte affermato che l’onere di analitica contestazione, di cui all’art. 115 c.p.c., sussiste soltanto quando i fatti dedotti in giudizio siano comuni alle parti.

Quell’onere invece non sussiste, e di conseguenza non si producono gli effetti di cui all’art. 115 c.p.c., in caso di mancata analitica contestazione, per i fatti i quali non possono che essere a conoscenza soltanto della parte che li deduce (Sez. 3, Sentenza n. 3576 del 13/02/2013, Rv. 625006 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 14652 del 18/07/2016, Rv. 640518 – 01; Sez. L -, Ordinanza n. 87 del 04/01/2019, Rv. 652044 – 01).

1.5. La seconda delle suesposte censure è inammissibile, in quanto investe il giudizio di valutazione delle prove. Nè può ritenersi irrazionale l’affermazione secondo cui il prezzo d’un immobile indicato nell’atto d’acquisto non sia sufficiente a dimostrare il valore di mercato dell’immobile, quando siano trascorsi dieci anni tra la stipula dell’atto e la valutazione giudiziaria del valore dell’immobile.

1.6. La terza delle suesposte censure resta assorbita dal rigetto delle prime due.

Ritiene nondimeno il Collegio che la motivazione della sentenza impugnata debba essere, su questo punto, corretta nell’interesse della legge, in quanto non conforme a diritto.

1.7. La Corte d’appello di Napoli, dopo avere ritenuto non provata da parte della società attrice l’entità del danno di cui aveva chiesto il risarcimento, ha ritenuto di aggiungere – con argomento ad abundantiam

– che la perduta possibilità di vendere un immobile “non comporta di per sè un pregiudizio”. Il proprietario di un immobile – ha osservato la Corte partenopea – se per fatto o colpa altrui non dovesse riuscire a concluderne la progettata vendita, conserva pur sempre la disponibilità del bene, il quale potrebbe teoricamente aumentare di valore con l’andare del tempo.

Da ciò ha tratto la conclusione che la perdita causata dallo sfumare d’una vendita immobiliare, non avendo “carattere di definitività”, non costituirebbe ex se un danno risarcibile.

In sostanza, la Corte d’appello ha ritenuto che non sussista un danno risarcibile quando sia anche solo possibile che, col decorso del tempo, il pregiudizio patito dal danneggiato possa ridursi o scomparire.

Tale affermazione non è corretta in punto di diritto e deve essere emendata.

1.7.1. Il problema affrontato dalla Corte partenopea, e risolto nei termini suddetti, è quello degli effetti del fattore “tempo” sulle operazioni di accertamento e liquidazione del danno.

Il decorso del tempo può incidere tanto sul contenuto del danno, quanto sulla misura del risarcimento.

Il tempo incide sul contenuto del danno quando, nell’intervallo tra danno e liquidazione, si riduca o si ampli il novero delle utilità perdute dal danneggiato: come nel caso, ad es., dei danni che si producono de die in diem; oppure nel caso del sopravvenire di interventi legislativi che escludano o riducano le conseguenze dannose dell’illecito.

Il tempo incide sulla misura del risarcimento quando, nell’intervallo tra danno e liquidazione, fermo restando il numero e la natura dei beni perduti, ne muti il valore, oppure s’alteri il potere d’acquisto della moneta.

1.7.2. Quanto all’incidenza del fattore tempo sul contenuto del danno aspetto che non viene in rilievo in questo giudizio -, è pacifico che il contenuto oggettivo del danno vada stabilito al momento della liquidazione, giudiziale o consensuale che sia, e non al momento in cui ebbe a verificarsi (e tanto meno con riferimento ad un momento futuro rispetto alla liquidazione).

Il risarcimento infatti, se deve consistere nella prestazione dell’equivalente della perdita subita, non può che adeguarsi alla misura del danno, quale essa risulta nel momento in cui viene risarcito. Non si risarcisce il danno, o tutto il danno, se non si mette il danneggiato nelle condizioni in cui si sarebbe trovato se l’evento dannoso non si fosse verificato; e non lo si mette in quelle condizioni se non gli si attribuisce l’equivalente pecuniario del momento in cui ha luogo il ristoro del danno (così già Sez. 1, Sentenza n. 1189 del 23/05/1962, Rv. 251946 01; il principio in ogni caso è pacifico: ex multis, per l’affermazione esplicita di esso, Sez. 3, Sentenza n. 23225 del 16/11/2005, Rv. 587947 – 01, e soprattutto Sez. U, Sentenza n. 1712 del 17/02/1995, Rv. 490480 – 01).

Se dunque tra il momento del fatto illecito e quello della liquidazione il danno si attenua, di tale circostanza occorrerà tenere conto al momento della aestimatio; lo stesso andrà fatto nel caso di aggravamento.

1.7.3. Quanto all’incidenza del decorso del tempo sulla misura del risarcimento, come accennato tale incidenza può manifestarsi in due modi:

a) quando, nell’intervallo tra danno e liquidazione, s’accresca o diminuisca il controvalore monetario del bene perduto;

b) quando, nell’intervallo tra danno e liquidazione, pur restando invariato il valore reale del bene perduto, ne muti l’espressione monetaria a causa di fenomeni inflattivi o deflattivi.

Di questa seconda eventualità il giudice deve tenere conto ricorrendo alla rivalutazione officiosa del credito risarcitorio, in base – come è d’uso – all’indice del costo della vita per le famiglie di operai ed impiegati calcolato dall’ISTAT, rivalutando (o devalutando, nel caso di deflazione) il credito risarcitorio al momento della liquidazione.

Della circostanza sub (a) (mutamento del valore della cosa danneggiata) il giudice deve anche in questo caso tenere conto, stimando il valore della cosa perduta al momento della liquidazione.

Poichè, infatti, il risarcimento del danno è governato dal principio di indifferenza di cui è espressione l’art. 1223 c.c., nella monetizzazione di esso occorrerà considerare non il valore che il bene perduto aveva al momento del danno, ma il valore che avrebbe acquistato al momento della liquidazione, se si fosse trovato ancora nel patrimonio del debitore. Se così non fosse, il risarcimento si trasformerebbe – come osservato dalla dottrina – in “vana chimera”.

1.7.4. Può accadere, infine, che al momento della liquidazione sia ragionevole prevedere che la misura del pregiudizio sofferto dal danneggiato possa accrescersi o diminuire in futuro.

Anche di tali circostanze il giudice dovrà tenere conto nella misura del risarcimento, ma a condizione che:

a) l’incremento o il decremento siano ragionevolmente prevedibili, e non mere ipotesi o congetture;

b) che del danno sia ragionevolmente prevedibile un aumento successivo al momento della liquidazione è circostanza che dovrà essere allegata e provata dal danneggiato;

c) che del danno sia ragionevolmente prevedibile una riduzione in epoca successiva alla liquidazione è circostanza che dovrà essere allegata e provata dal responsabile, in quanto fatto modificativo della pretesa attorea.

1.7.5. Le regole giuridiche sopra indicate non sono state rispettate dalla sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che il promittente venditore d’un immobile, quando l’affare sfumi a causa del fatto illecito d’un terzo, non possa patire danno a causa del “possibile incremento futuro del valore dell’immobile”.

Tale affermazione infatti non tiene conto nè del principio secondo cui la stima del danno deve essere compiuta con riferimento al momento della liquidazione, e non con riferimento a momenti futuri; nè del principio secondo cui la circostanza che il danno possa ridursi in epoca posteriore alla liquidazione, per condurre ad una riduzione del risarcimento, deve essere tempestivamente eccepita, validamente dimostrata, ed attingere almeno la soglia della ragionevole probabilità.

1.7.6. Alla luce dei criteri sopra indicati, le regole di diritto che la sentenza impugnata avrebbe dovuto affermare, in tema di aestimatio del danno sofferto dal promittente venditore d’un immobile in conseguenza della perdita dell’affare imputabile alla condotta d’un terzo sarebbero dovute essere le seguenti:

a) il venditore ha patito un danno pari alla differenza tra il valore commerciale dell’immobile al momento della liquidazione, e il prezzo offerto dall’acquirente rivalutato al momento della liquidazione;

b) della possibilità di incrementi futuri del valore dell’immobile invenduti può tenersi conto, a condizione che la relativa eccezione sia stata sollevata dal convenuto, e che l’incremento di valore sia ragionevolmente prevedibile, e non meramente ipotizzato;

c) della possibilità che il promittente venditore, conservando la disponibilità dell’immobile, possa proficuamente impiegarlo per ricavarne un lucro o tentare una nuova vendita può tenersi conto, secondo i principi della compensatio lucro cum damno, a condizione che tali eventualità siano ragionevolmente prevedibili, e non meramente ipotizzate.

Nei termini che precedono deve intendersi corretta, nell’interesse della legge, la motivazione della sentenza impugnata.

2. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, ai sensi dell’art. 385 c.p.c., comma 1, e sono liquidate nel dispositivo.

L’inammissibilità del ricorso costituisce il presupposto, del quale si dà atto con la presente sentenza, per il pagamento a carico della parte ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione, ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17).

P.Q.M.

(-) dichiara inammissibile il ricorso;

(-) condanna Oser s.r.l. alla rifusione in favore di Agenzia delle Entrate – Riscossione delle spese del presente giudizio di legittimità, che si liquidano nella somma di Euro 7.290, di cui 200 per spese vive, oltre I.V.A., cassa forense e spese forfettarie D.M. 10 marzo 2014, n. 55, ex art. 2, comma 2;

(-) dà atto che sussistono i presupposti previsti dal D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, per il versamento da parte di Oser s.r.l. di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per l’impugnazione.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sesta Sezione civile della Corte di cassazione, il 24 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2020

 

 

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