Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26041 del 16/12/2016


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Cassazione civile, sez. trib., 16/12/2016, (ud. 04/11/2016, dep.16/12/2016),  n. 26041

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VIVALDI Roberta – Presidente –

Dott. TORRICE Amelia – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – rel. Consigliere –

Dott. ACETO Aldo – Consigliere –

Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 16665/2010 proposto da:

BEVIROMA SRL in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIOVANNI PAISIELLO 15, presso

lo studio dell’avvocato GRAZIANO BRUGNOLI, che lo rappresenta e

difende giusta delega a margine;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 94/2009 della COMM.TRIB.REG. di ROMA,

depositata il 12/05/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

04/11/2016 dal Consigliere Dott. FABRIZIA GARRI;

udito per il controricorrente l’Avvocato CASELLI che ha chiesto il

rigetto;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Fatto

RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO

La Commissione Tributaria Regionale di Roma ha dichiarato inammissibile l’appello proposto da Beviroma s.r.l. avverso la sentenza della Commissione Tributaria Provinciale di Roma del 17.9.2007 che aveva respinto il ricorso proposto dalla società avverso l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) relativo ad IVA, Irpeg, Irap per l’anno 2002 ed ha condannato la società al pagamento delle spese.

La Commissione ha evidenziato che il ricorso spedito alla controparte in data 9 giugno 2008 e depositato presso la Commissione regionale il successivo 10 giugno era stato depositato presso la Commissione provinciale solo il 31 ottobre quando il termine di trenta giorni prescritto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, era oramai decorso.

Per la cassazione della sentenza ricorre la società Beviroma a r.l. e censura la sentenza con due motivi cui resiste con controricorso l’Agenzia delle Entrate che ne eccepisce l’inammissibilità in relazione all’inadeguatezza dei quesiti formulati e comunque l’infondatezza.

Parte ricorrente ha depositato copia della sentenza che in data 27.11.2015 ha dichiarato il fallimento della società in liquidazione.

Preliminarmente all’esame delle censure formulate con il ricorso va rammentato che l’intervenuto fallimento della Bevi Roma Distribuzione s.r.l. in liquidazione nel corso del presente giudizio di cassazione non ne comporta l’interruzione.

La giurisprudenza di questa Corte ha costantemente affermato in tema di giudizio di cassazione, l’intervenuta modifica della L. Fall., art. 43, per effetto del D.Lgs. 9 gennaio 2006, n. 5, art. 41, nella parte in cui recita che “l’apertura del fallimento determina l’interruzione del processo”, non comporta una causa di interruzione del giudizio in corso in sede di legittimità posto che in quest’ultimo, che è dominato dall’impulso d’ufficio, non trovano applicazione le comuni cause di interruzione del processo previste in via generale dalla legge. (Cass. n. 21153 del 2010, n. 17450 del 2013, n. 24635 del 2015 e recentemente Cass. n. 19119 del 2016).

Quanto alla denunciata inammissibilità delle censure formulate nel ricorso per violazione dell’art. 366 bis c.p.c., ratione temporis applicabile al presente ricorso, si osserva che il quesito che conclude il primo motivo di ricorso individua esattamente la questione sulla quale la Corte è chiamata a decidere (se trovi applicazione ai ricorsi depositati prima dell’intervento della Corte Costituzionale con la sentenza n. 321 del 2009 – che ha ritenuto che il deposito di copia dell’atto di appello presso la cancelleria della Commissione tributaria di primo grado che ha pronunciato la sentenza impugnata debba essere effettuato a pena di inammissibilità nel termine di trenta giorni dalla notifica – anche nel caso di tardato adempimento ovvero se tale sanzione operi solo per il caso di deposito del tutto omesso) e non si limita affatto ad una generica istanza di decisione sull’esistenza della violazione di legge denunziata nel motivo (Cass. s.u. 21672 del 2013). Il primo motivo è pertanto ammissibile.

Altrettanto deve dirsi per il secondo motivo di ricorso con il quale si lamenta l’errata applicazione dell’art. 92 c.p.c..

Anche con riguardo a tale censura, infatti, risulta ben chiaro il quesito al quale la Corte è chiamata a rispondere e sostanzialmente se l’irregolarità processuale non immediatamente percepibile costituisse un giusto motivo di compensazione delle spese.

Venendo all’esame delle censure formulate con il primo motivo di ricorso con il quale è denunciata la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, si osserva che “la norma di cui al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, nel testo integrato dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 3 bis, comma 7, conv. con modifiche dalla L. n. 248 del 2005, – dopo aver disposto, mediante il richiamo alla previsione di cui al precedente art. 22, comma 1, che il ricorso in appello deve, a pena d’inammissibilità, essere depositato nella segreteria della commissione tributaria (regionale) adita entro trenta giorni dalla proposizione del ricorso in appello sancisce: “Ove il ricorso non sia notificato a mezzo di ufficiale giudiziario, l’appellante deve, a pena d’inammissibilità, depositare copia dell’appello presso l’ufficio di segreteria della commissione tributaria che ha pronunziato la sentenza impugnata”; tale secondo adempimento, anch’esso testualmente prescritto a pena d’inammissibilità dell’appello presuppone ineludibilmente l’esecuzione entro un termine perentorio.

Detto termine, non contenuto espressamente nella norma (in vigore dal 3/12/2005), è stato identificato in quello di trenta giorni dalla proposizione dell’impugnazione, già indicato dalla prima parte del D.Lgs. n. 54 6 del 1992, comma 2, dell’art. 53 (attraverso il richiamo all’art. 22, comma 1) per il deposito del ricorso presso la segreteria della commissione ad quem (cfr. Cass. Trib. 8388 e 21047/2010). La Corte Costituzionale ha infatti chiarito (con la sentenza n. 321 del 2009, punto 6.4 del Considerato in diritto) che “un termine perentorio per il deposito della copia dell’appello nella segreteria della Commissione tributaria provinciale è sicuramente ricavabile, in via interpretativa, dal complesso delle norme in materia di impugnazione davanti alle commissioni tributarie. Tale termine (come si è visto ai punti 6.1 e 6. 2) non può che identificarsi con quello stabilito per la costituzione in giudizio dell’appellante; costituzione che avviene mediante il deposito del ricorso in appello presso la segreteria della Commissione tributaria regionale entro trenta giorni dalla proposizione dell’appello (D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 2, e art. 22, commi 1 e 3)”. Tale disposizione, ha superato anche il vaglio costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 321 del 2009, n. 43 del 2010, n. 141 del 2011) ed è stata espunta dal nostro sistema dal D.Lgs. 21 novembre 2014, n. 175, art. 36, comma 1, ma solo con effetto dal 21 dicembre 2014 e dunque con disposizione successiva ai fatti di causa e non applicabile retroattivamente. La norma abrogatrice non è ricognitiva di una diversa portata della disposizione, sostanzialmente elusiva del precetto positivamente sussistente al tempo predetto con le conseguenze descritte (cfr. Cass. n. 5376 del 2015 e n. 1636 del 2016).

In sostanza la sentenza della Corte Costituzionale citata nel rigettare la questione sottopostale ha evidenziato che nel sistema normativo tratteggiato dalle disposizioni esaminate era enucleabile in via interpretativa l’esistenza di un termine per l’adempimento introdotto a pena di inammissibilità del ricorso termine che non poteva che essere quello stesso di trenta giorni stabilito per la costituzione in giudizio. Ne segue che è corretta e conforme a Costituzione l’interpretazione data dalla Commissione regionale la cui sentenza sul punto deve essere confermata.

Il secondo motivo di ricorso è del pari infondato.

Di regola, infatti, alla soccombenza segue la condanna al pagamento delle spese del giudizio e rientra nel potere discrezionale del giudice di merito la valutazione dell’esistenza dei giusti motivi di compensazione delle spese del giudizio (art. 92 nel testo antecedente le modifiche apportate dalla L. n. 263 del 2005). Non incorre nel vizio denunciato il giudice di appello che condanni la parte integralmente soccombente al pagamento delle spese nè tale statuizione è sindacabile in sede di legittimità non essendosi verificata alcuna violazione del divieto, posto dall’art. 91 c.p.c., di porre anche parzialmente le spese a carico della parte vittoriosa. Nè sussiste un dovere del giudice di motivare il provvedimento adottato. (cfr. Cass. n. 17692 del 2003 e recentemente nn. 12158 e 14348 del 2016 sempre con riguardo al regime delle spese antecedente alle modifiche apportate dalla L. n. 263 del 2005).

In conclusione e per le ragioni sopra esposte il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate nella misura indicata in dispositivo.

PQM

Rigetta il ricorso.

Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in Euro 4200,00 per compensi professionali oltre a spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 4 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 16 dicembre 2016

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