Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26033 del 17/11/2020

Cassazione civile sez. VI, 17/11/2020, (ud. 20/10/2020, dep. 17/11/2020), n.26033

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DORONZO Adriana – rel. Presidente –

Dott. LEONE Margherita Maria – Consigliere –

Dott. ESPOSITO Lucia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

Dott. MARCHESE Gabriella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 24164-2018 proposto da:

MINISTERO DELL’ISTRUZIONE DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA (OMISSIS),

in persona del Ministro pro tempore, ISTITUTO STATALE ISTRUZIONE

SECONDARIA SUPERIORE A (OMISSIS), UFFICIO SCOLASTICO REGIONALE

MOLISE, elettivamente domiciliati in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che li rappresenta e

difende ope legis;

– ricorrenti –

contro

N.M.G., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

IPPOLITO NIEVO 61, presso lo studio dell’avvocato STEFANIA ONORATO,

rappresentata e difesa dagli avvocati MARCO COSTANTINI, STEFANO

CAPPELLU;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 5/2018 della CORTE D’APPELLO di CAMPOBASSO,

depositata il 01/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 20/10/2020 dal Presidente Relatore Dott. ADRIANA

DORONZO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

il Tribunale di Isernia ha accolto la domanda proposta da N.M.G. e, per l’effetto, ha dichiarato la nullità del decreto del 31/7/2008, adottato dal dirigente scolastico dell’Istituto statale “(OMISSIS)” di Venafro, di decadenza dall’impiego della M. con effetto dal 1/8/2008;

la Corte d’appello di Campobasso, con sentenza pubblicata in data 1/3/2018, ha rigettato l’appello proposto dal Ministero della Istruzione e della Università e Ricerca, nonchè dall’Ufficio scolastico regionale per il Molise e dall’Istituto statale d’istruzione: in particolare, ha condiviso la valutazione espressa dal Tribunale circa la riconducibilità delle assenze dal 5/3/2004 al 31/7/2008 ad una grave patologia, come previsto dall’art. 17, comma 9, del c.c.n.l. del 5/9/1995, con la conseguenza che il detto periodo doveva essere detratto dal numero delle assenze registrate, il che conduceva al mancato superamento del tetto massimo di assenze previsto dalla legge per la decadenza dall’impiego;

sul punto la Corte territoriale ha ritenuto che la “documentazione prodotta dalle parti” comprovava che le assenze erano state determinate da una grave patologia psichiatrica (disturbo d’ansia generalizzata con episodici attacchi di panico; disturbo distimico); in particolare ha dato rilievo ad una certificazione rilasciata dall’ASREM in data 28/5/2008, in cui si attestava che la “signora N.M.G…… affetta da grave patologia, può beneficiare per anni 1 (uno) a decorrere dalla data odierna, dei periodi di assenza per malattia ai sensi dell’art. 17, comma 9, c.c.n.l.”, nonchè alla successiva nota del 17/6/2008 della stessa ASREM, con cui, richiesta di chiarimenti (in particolare che fosse fornita adeguata e chiara certificazione medica da cui risultasse la gravità della patologia, il tipo di terapia cui la dipendente era sottoposta e i suoi eventuali effetti invalidanti), l’Ente dichiarava di non poter fornire ulteriori informazioni, per tutelare la privacy della interessata;

contro la sentenza il MIUR ricorre per cassazione, cui resiste la M. con controricorso;

la proposta del relatore, unitamente al decreto di fissazione dell’adunanza camerale non partecipata, è stata notificata alle parti.

Diritto

CONSIDERATO

che:

il motivo di ricorso è prospettato, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, come violazione o falsa applicazione dell’art. 17, comma 9, del c.c.n.l. Scuola 2002-2005;

le parti ricorrenti reputano che la certificazione posta dalla Corte territoriale a base del riconoscimento del beneficio di cui all’art. 17, comma 9, del c.c.n.l. Scuola 2002-2005 (riprodotto nei CCNL successivi) inidonea allo scopo, perchè non conteneva un chiaro riferimento ai giorni di assenza per malattia, la quale può essere certificata solo dal medico curante, e all’impossibilità del dipendente di svolgere attività lavorativa in quanto affetto da patologie gravi che richiedevano terapie temporaneamente o parzialmente invalidanti; per contro, la decisione si era fondata su una certificazione e successiva integrazione rilasciata da una commissione avente finalità estranee alla giustificazione delle assenze dei dipendenti per ragioni di salute; non conteneva alcun riferimento ai giorni di malattia e non prevedeva una prognosi; quanto alla CTU disposta nel giudizio di merito, essa non valeva a fornire la prova richiesta, dal momento che il CTU non aveva riconosciuto la sussistenza di uno dei presupposti per l’applicazione della norma, e cioè che le terapie farmacologiche a cui l’interessata era stata sottoposta avessero effetti invalidanti;

il ricorso rispetta il disposto dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 1, dal momento che contiene la sommaria esposizione dei fatti di causa ed il motivo è chiaramente enucleato;

tuttavia, esso non sfugge alla sanzione dell’inammissibilità, sia pure per altra ragione;

va invero ricordato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione;

il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa dell’erronea ricognizione dell’astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (giurisprudenza costante: Cass. 05/02/2019, n. 3340; Cass. 14/01/2019, n. 640; Cass. 13/10/2017, n. 24155);

si è altresì affermato che nella deduzione del vizio di violazione di legge è onere del ricorrente indicare non solo le norme che si assumono violate ma anche, e soprattutto, svolgere specifiche argomentazioni intellegibili ed esaurienti, intese a motivatamente dimostrare in qual modo determinate affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata debbano ritenersi in contrasto con le indicate norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornite dalla giurisprudenza di legittimità, diversamente impedendo alla corte regolatrice di adempiere al suo compito istituzionale di verificare il fondamento della lamentata violazione (giurisprudenza costante: Cass. 21/08/2020, n. 17570; Cass. 05/08/2020, n. 16700);

il ricorrente, pur avendo prospettato il motivo di ricorso come violazione di legge, non adempie tali oneri, giacchè non specifica quale affermazione della corte territoriale sarebbe in contrasto con la norma della contrattazione collettiva invocata;

al contrario, in nessuna parte della sentenza si leggono enunciati in contrasto con la lettera e la ratio dell’art. 17, comma 9, del c.c.n.l.: a differenza di quanto opina il MIUR, la Corte territoriale non ha ritenuto superflua, ai fini dell’esclusione dal computo dei giorni di assenza ex art. 17, la sottoposizione della dipendente a terapie invalidanti ma, al contrario, ha ritenuto che tale circostanza di fatto emergesse, sia pure in via implicita, dalla certificazione rilasciata dalla ASREM (pag. 4, secondo e terzo periodo della sentenza);

in realtà, è evidente, ciò che si censura non è l’interpretazione della norma o il procedimento di sussunzione della fattispecie concreta nella norma regolatrice, bensì la valutazione che degli elementi probatori ha compiuto la Corte territoriale, insindacabile in questa sede in difetto di idonee censure che attingano vizi motivazionali e che, peraltro, sarebbero inammissibili in questa sede, dal momento che la decisione si fonda sulle medesime questioni inerenti a ragioni di fatto poste a base della decisione di primo grado (ex art. 348 ter c.p.c., commi 4 e 5);

infine, il motivo di ricorso è del tutto carente di specificità, dal momento che la parte ricorrente non trascrive la certificazione, nè la deposita unitamente al ricorso per cassazione, sicchè non risultano assolti gli oneri imposti dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e art. 369, comma 2, n. 4, a pena di inammissibilità e di improcedibilità del ricorso;

il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile e la parte ricorrente condannata al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come da dispositivo e si distraggono in favore dei procuratori della controricorrente;

non sussistono i presupposti per l’applicazione nei confronti della parte ricorrente, quale Amministrazione dello Stato, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, atteso che la stessa, mediante il meccanismo della prenotazione a debito, è esentata dal pagamento delle imposte e tasse che gravano sul processo (cfr. Cass. 1778/2016).

P.Q.M.

La Corte dichiara il ricorso inammissibile e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, che liquida in Euro 3000,00 per compensi professionali e Euro 200,00 per esborsi, oltre al rimborso forfettario del 15% per spese generali e agli altri accessori di legge, disponendone la distrazione in favore dei procuratori anticipatari, avvocati Stefano Cappellu e Marco Costantini.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 20 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 17 novembre 2020

 

 

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