Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 26023 del 15/10/2019

Cassazione civile sez. lav., 15/10/2019, (ud. 09/05/2019, dep. 15/10/2019), n.26023

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. NOBILE Vittorio – Presidente –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. BLASUTTO Daniela – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. PONTERIO Carla – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 17777-2018 proposto da:

B.D., elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA SAN PIETRO

IN VINCOLI 10, presso lo studio dell’avvocato LUIGI RAFFAELE

MEZZONI, rappresentata e difesa dall’avvocato FABRIZIO ACRONZIO;

– ricorrente –

contro

BANCA POPOLARE DI BARI SOCIETA’ COOPERATIVA PER AZIONI (già TERCAS

S.P.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore,

elettivamente domiciliata in ROMA, VIA POMPEO MAGNO, 23/A, presso lo

studio dell’avvocato GIAMPIERO PROIA, che la rappresenta e difende

unitamente all’avvocato FRANCO DI TEODORO;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 228/2018 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 05/04/2018 R.G.N. 875/2017;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

09/05/2019 dal Consigliere Dott. PAOLO NEGRI DELLA TORRE;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

CELESTE Alberto, che ha concluso per l’inammissibilità o in

subordine rigetto;

udito l’Avvocato LUIGI RAFFAELE MEZZONI per delega avvocato FABRIZIO

ACRONZIO;

udito l’Avvocato MATTEO SILVESTRI per delega verbale Avvocato

GIAMPIERO PROIA.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza n. 228/2018, pubblicata il 5 aprile 2018, la Corte di appello di L’Aquila ha dichiarato legittimo, qualificandolo per giusta causa, il licenziamento intimato a B.D. da Banca Tercas S.p.A. il 28/2/2014 per avere la stessa consegnato nel marzo 2013 ad D.M.A., già direttore generale della Banca, all’epoca coinvolto in procedimenti penali, con la complicità di altro dipendente e modalità clandestine, documentazione riservata di proprietà della datrice di lavoro e a cui non aveva ragione di accedere.

2. La Corte di appello ha ritenuto accertati i fatti sulla base delle dichiarazioni rese dalla B. in sede di audizione disciplinare e della loro sostanziale valenza confessoria, insita nella inverosimiglianza medesima delle successive giustificazioni a sostegno sia della inconsapevolezza del carattere riservato della documentazione, in considerazione delle modalità clandestine della consegna del plico, sia della mancata consegna di essa, che sarebbe stata sostituita con fogli in bianco: ciò che ha condotto la Corte a ritenere irrilevanti le intercettazioni telefoniche, da cui aveva preso avvio la contestazione, peraltro osservando come le denunciate violazioni delle norme procedimentali relative alla loro utilizzabilità non valessero in un contesto di natura privatistica.

3. La Corte ha inoltre ritenuto particolarmente grave la condotta contestata e adeguata la sanzione espulsiva, alla stregua degli obblighi di fedeltà e riservatezza imposti in linea generale a tutti i dipendenti di un’azienda di credito nonchè dell’avvenuto scioglimento, nel 2012, degli organi amministrativi e di controllo della banca e della sua sottoposizione alla procedura di amministrazione straordinaria per gravi irregolarità, anche riconducibili all’ex direttore generale.

4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la lavoratrice con sette motivi, cui ha resistito con controricorso, illustrato da memoria, la Banca Popolare di Bari soc. coop. per azioni (già Tercas S.p.A.).

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 268,270 e 271 c.p.p., degli artt. 2697, 2105 e 2106 c.p.c. e della L. n. 300 del 1970, art. 7 per avere la Corte di appello ritenuto dimostrati gli addebiti sulla base delle intercettazioni telefoniche disposte nel procedimento penale a carico del D.M., sebbene esse fossero state contestate nella loro utilizzabilità e nel loro contenuto, con conseguente mancato assolvimento dell’onere della prova da parte del datore di lavoro.

2. Con il secondo motivo viene dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 2105,2106,2119,1175,1375 e 1455 c.c., della L. n. 300 del 1970, art. 7 della L. n. 604 del 1966, artt. 1 e 3, dell’art. 38 c.c.n.l. di settore e dell’art. 8.11 Codice Etico, nonchè la violazione ex art. 360 c.p.c., n. 4 dell’art. 116 c.p.c., per avere la Corte di appello ritenuto che la ricorrente avesse violato l’obbligo di fedeltà nonostante che tale violazione ricorra unicamente nel caso in cui il lavoratore ponga in essere comportamenti contrari ai contenuti specifici dell’art. 2105 c.c., negli stessi non potendo annoverarsi il fatto di avere divulgato una perizia estimativa di un bene immobile di proprietà di terzi, anche perchè non produttiva di alcun danno per la Banca; per avere inoltre valutato secondo il suo prudente apprezzamento le prove per testi relative all’intervenuta raccomandazione a tutto il personale di recidere i contatti con il vecchio management, senza considerare che la ricorrente, non solo nel periodo a ridosso del commissariamento ma anche nei mesi successivi e fino al settembre 2012, non aveva mai prestato attività lavorativa presso la direzione generale ma presso varie filiali, come da produzioni documentali operate dalla Banca su ordine del giudice, e senza considerare, ai fini dell’apprezzamento dell’intensità del vincolo fiduciario, il livello di inquadramento (3a area) e le mansioni svolte (gestore family).

3. Con il terzo motivo vengono dedotti la violazione e falsa applicazione dell’art. 2106 in relazione all’art. 2119 c.c., la violazione ex art. 360 c.p.c., n. 4 dell’art. 133 c.p. e art. 111 Cost. e il vizio di cui all’art. 360, n. 5 per avere la Corte omesso l’esame di fatti decisivi ai fini del giudizio di proporzionalità tra addebito e sanzione inflitta, quali la condotta della dipendente successiva al marzo 2013, l’assenza di precedenti disciplinari e di dolo, l’applicazione in casi simili di sanzioni conservative, la mancanza di pregiudizio anche solo potenziale per la Banca.

4. Con il quarto vengono dedotti la violazione e falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., dell’art. 2697 c.c. e della L. n. 604 del 1966, artt. 1,3 e 5 e il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 per avere la Corte di appello omesso l’esame di fatti decisivi, quali le contestazioni della ricorrente, già nel corso dell’audizione disciplinare e poi in sede di giudizio, relative alla mancanza di prova della consegna e della divulgazione della perizia.

5. Con il quinto viene dedotto l’omesso esame di altri fatti decisivi oggetto di discussione fra le parti e cioè: il fatto che la ricorrente non aveva mai partecipato alle riunioni in occasione delle quali era stato raccomandato ai dipendenti di troncare i rapporti con la passata dirigenza della Banca; il fatto di non avere protratto la collaborazione con il D.M. dopo il marzo 2013 e fino alla scoperta dell’illecito; il fatto che lo scioglimento degli organi amministrativi della Banca e la sottoposizione della stessa alla procedura di amministrazione straordinaria non era avvenuta per condotte riconducibili al D.M.; il fatto che la ricorrente non fosse a conoscenza, all’epoca dei fatti contestati, dell’esistenza di due procedimenti penali a carico del medesimo; il fatto che le organizzazioni sindacali non avessero espresso alcuna preoccupazione per le conseguenze connesse al piano di risanamento in termini di permanenza della Banca e di salvaguardia dei posti di lavoro.

6. Con il sesto motivo viene dedotto l’omesso esame ex art. 360 c.p.c., n. 5, quale fatto anch’esso decisivo, della tolleranza dimostrata dalla Banca nei confronti di altri suoi dipendenti, i quali avevano posto in essere comportamenti analoghi a quello addebitato alla ricorrente.

7. Con il settimo, deducendo la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, la B. censura infine la sentenza impugnata nella parte in cui ha trattato delle conseguenze derivanti dall’applicazione di tale norma.

8. Il primo motivo non può essere accolto.

9. Al riguardo si osserva anzitutto che la censura di violazione dell’art. 2697 c.c. “è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del nuovo art. 360 c.p.c., n. 5)”: Cass. n. 13395/2018.

10. E’, in ogni caso, da rilevare che la Corte di merito, pur ribadendo l’utilizzabilità delle risultanze delle intercettazioni telefoniche, ha posto a fondamento della propria decisione la sostanziale ammissione dei fatti da parte della lavoratrice, in sede di procedimento disciplinare, anche alla luce della inaccettabilità delle successive giustificazioni a sostegno “sia dell’inconsapevolezza del carattere riservato della perizia (in considerazione delle modalità clandestine del recapito del plico) sia della mancata consegna” della stessa, che sarebbe stata “sostituita con fogli in bianco inseriti nel plico sigillato” (cfr. sentenza, pp. 12-13 e p. 9, ove il richiamo a riscontri istruttori circa l’inattendibilità di tale versione difensiva): con la conseguenza di ritenere le intercettazioni solo il fatto storico, attraverso il quale la Banca è venuta a conoscenza della condotta infedele della propria dipendente, e “superata” la questione della loro inutilizzabilità.

11. In sostanza, la ricorrente, sotto il velo della denuncia del vizio di cui all’art. 360, n. 3, lungi dal dedurre una violazione in senso proprio, sotto il profilo dell’affermazione o negazione dell’esistenza della norma in contestazione, ovvero una falsa applicazione determinata da un errore di sussunzione, ha inteso chiaramente rimettere in discussione l’accertamento compiuto dal giudice del merito in ordine alla sussistenza dei fatti posti a giustificazione della sanzione espulsiva.

12. Non può egualmente essere accolto il secondo motivo di ricorso.

13. In primo luogo, si deve rilevare che la lettura con lo stesso proposta dell’ambito di applicabilità dell’art. 2105 c.c. risulta superata nella giurisprudenza di questa Corte, la quale, con orientamento consolidato e risalente, ha precisato che “dal collegamento dell’obbligo di fedeltà, di cui all’art. 2105 c.c., con i principi generali di correttezza e buona fede ex artt. 1175 e 1375 c.c. deriva che il lavoratore deve astenersi non solo dai comportamenti espressamente vietati dal suddetto art. 2105, ma anche da qualsiasi altra condotta che, per la natura e per le sue possibili conseguenze, risulti in contrasto con i doveri connessi all’inserimento del lavoratore nella struttura e nell’organizzazione dell’impresa o crei situazioni di conflitto con le finalità e gli interessi della medesima o sia comunque idonea a ledere irrimediabilmente il presupposto fiduciario del rapporto” (Cass. n. 6957/2005).

14. La Corte di merito si è inoltre uniformata al parimenti consolidato e risalente indirizzo giurisprudenziale, per il quale “nel caso di giusta causa o giustificato motivo soggettivo di licenziamento, i fatti addebitati devono rivestire il carattere di grave negazione degli elementi del rapporto di lavoro, ed in particolare dell’elemento fiduciario; la valutazione relativa alla sussistenza del conseguente impedimento alla prosecuzione del rapporto deve essere operata con riferimento non già ai fatti astrattamente considerati, bensì agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonchè alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed alla intensità dell’elemento intenzionale e di quello colposo e ad ogni altro aspetto correlato alla specifica connotazione del rapporto, fermo restando che, nell’ipotesi di dipendenti di istituti di credito, l’idoneità del comportamento contestato a ledere il rapporto fiduciario – rapporto che è più intenso nel settore bancario – deve essere valutata con particolare rigore ed a prescindere dalla sussistenza di un danno effettivo per il datore di lavoro. Il relativo accertamento costituisce apprezzamento di fatto, come tale riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretto da motivazione congrua ed immune da vizi” (Cass. n. 1475/2004; conforme, fra altre: Cass. n. 6609/2003).

15. Quanto infine al vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, si deve rilevare che “in tema di valutazione delle prove, il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 c.p.c., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicchè la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura un vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, bensì un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come riformulato dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 convertito, con modif., dalla L. n. 134 del 2012” (Cass. n. 23940/2017).

16. I motivi terzo, quarto, quinto e sesto, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto connessi, risultano inammissibili.

17. Si deve infatti rilevare che gli stessi non si conformano al modello legale del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni nella L. 7 agosto 2012, n. 134, e a seguito delle precisazioni fornite, quanto a perimetro applicativo e oneri di deduzione, dalla giurisprudenza di questa Corte con le sentenze delle Sezioni Unite n. 8053 e n. 8054 del 2014 e con le successive numerose conformi.

18. In particolare, con le richiamate sentenze, le Sezioni Unite hanno precisato che l’art. 360 c.p.c., n. 5, come riformulato a seguito dei recenti interventi legislativi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sè, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorchè la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.

19. Nella specie, invero: a) risulta bensì indicato il luogo della discussione dei fatti, il cui esame si reputa omesso dalla Corte di merito, ma non i termini esatti in cui essi sono stati dedotti, non essendo stati riportati, ai fini dell’osservanza del requisito di cui all’art. 369 c.p.c., n. 4, quanto meno nei passi essenziali, gli atti relativi al dibattito processuale che li ha specificamente riguardati; b) larga parte dei fatti indicati nei motivi in esame, diversamente da quanto dedotto, ha formato oggetto di considerazione nella sentenza impugnata (e così la condotta della ricorrente successiva all’illecito contestato; l’assenza di un pregiudizio effettivo per la Banca; le circostanze rivelatrici della natura e della gravità dell’elemento intenzionale; le giustificazioni rese nel corso del procedimento disciplinare): c) degli altri fatti non è dimostrata la “decisività”, intesa quale attitudine a determinare un esito diverso della controversia, a fronte di un accertamento puntuale e accurato della vicenda da parte della Corte di merito, la quale ha analizzato sia il piano del comportamento concreto posto in essere dalla B., tanto sul versante oggettivo come su quello soggettivo, sia il contesto della situazione della Banca e della posizione giudiziaria dell’ex direttore generale, avendo come esatto criterio di apprezzamento – per quanto già rilevato (n. 14) – la peculiarità che contraddistingue il rapporto di lavoro del dipendente di un’azienda di credito e i suoi riflessi sulla valutazione del permanere del vincolo fiduciario.

20. Il settimo motivo infine risulta del tutto inammissibile, non riguardando neppure una ratio decidendi della sentenza impugnata, la quale ha accertato la sussistenza della giusta causa e la conseguente legittimità del licenziamento.

21. In conclusione, il ricorso deve essere respinto.

22. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 9 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2019

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