Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2600 del 02/02/2018


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Cassazione civile, sez. lav., 02/02/2018, (ud. 08/11/2017, dep.02/02/2018),  n. 2600

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con sentenza pubblicata il 30.5.12 la Corte d’appello di Milano confermava – per quel che rileva nella presente sede – la condanna di Billa Aktiengesellshaft, Sede secondaria in Italia, a pagare per il periodo ottobre 2004 – luglio 2005 ai suoi dipendenti di cui in epigrafe il premio aziendale previsto dagli accordi collettivi aziendali 5.7.74, 6.7.79 e successivi aggiornamenti.

2. Rilevava la Corte territoriale che tali accordi avevano previsto la possibilità di tacito rinnovo annuale, fatta salva eventuale disdetta da manifestarsi entro il 31 gennaio di ciascun anno. La società sosteneva di aver manifestato la propria disdetta dapprima verbalmente nel corso di una riunione con le organizzazioni sindacali tenutasi il 27.1.04, poi per iscritto con lettera del 29 gennaio 2004. Ma – notavano i giudici di merito essendo pervenuta ad una delle parti stipulanti solo il 3 febbraio successivo, la disdetta doveva considerarsi tardiva, con conseguente rinnovo degli accordi fino alla scadenza del luglio 2005.

3. Per la cassazione della sentenza ricorre Billa Aktiengesellshaft (oggi incorporata da Penny Market GmbH) affidandosi a sette motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

4. I controricorrenti di cui in epigrafe resistono con unico atto.

5. Gli altri intimati non hanno svolto attività difensiva.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1373 c.c. in riferimento agli artt. 1334,1350,1362,1351 e 1352 c.c., per avere l’impugnata sentenza negato efficacia alla disdetta degli accordi relativi al premio aziendale manifestata oralmente dalla società (nel corso dell’incontro del 27.1.04 con le organizzazioni sindacali), ritenendo all’uopo necessaria la forma scritta, nonostante che – obietta la ricorrente – per il recesso tale forma sia dovuta solo se espressamente pattuita o se concernente un contratto solenne ex art. 1350 c.c.; nel caso di specie la disdetta, espressa dapprima in forma orale dalla società alle organizzazioni sindacali il 27.1.04, doveva quindi considerarsi tempestiva.

1.2. Il secondo motivo deduce violazione o falsa applicazione degli artt. 1373,1334 e 1350 c.c., in relazione agli artt. 1351 e 1352 c.c., nella parte in cui la sentenza impugnata ha ritenuto dovuta la forma scritta della disdetta perchè pretesa dalle parti collettive nella riunione del 27.1.04: oppone la società la non conferenza del richiamo, operato dalla Corte territoriale, alla ben diversa ipotesi del rapporto fra contratto preliminare e contratto definitivo e a precedenti giurisprudenziali concernenti contratti che la legge espressamente considera solenni.

1.3. Con il terzo motivo ci si duole di omesso esame d’un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, consistente nella avvenuta disdetta verbale manifestata nel corso della riunione del 27.1.04 e nella relativa istanza di prova testimoniale coltivata dalla società.

1.4. Analoga doglianza viene fatta valere anche con il quarto motivo, sotto forma di denuncia di violazione o falsa applicazione dell’art. 111 Cost. in relazione all’art. 24 Cost. e art. 101 c.p.c..

1.5. Il quinto motivo denuncia omesso esame d’un fatto decisivo e controverso oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’asserito accordo fra loro intervenuto nel corso della riunione del 27.1.04 affinchè la disdetta fosse manifestata per iscritto, accordo apoditticamente affermato dalla sentenza impugnata senza che su di esso sia stato svolto alcun accertamento istruttorio.

1.6. Il sesto motivo prospetta violazione o falsa applicazione dell’art. 641 c.p.c. in relazione al motivo di gravame con cui la società aveva sostenuto la nullità dei decreti ingiuntivi nn. 16871/08 e 16872/08 (l’opposizione ai quali, da parte della società, aveva originato il presente giudizio) in quanto privi dell’indicazione del termine entro il quale pagare la somma ingiunta: su tale motivo di gravame – lamentava la società ricorrente – nulla aveva risposto la sentenza impugnata.

1.7. Il settimo motivo denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 139,148 e 149 c.p.c., in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., nella parte in cui la Corte territoriale non ha considerato che la decadenza dalla disdetta è impedita già dalla mera consegna della relativa lettera all’agente postale, di guisa che il dichiarante non può soffrire le conseguenze sfavorevoli di eventuali ritardi altrui.

2.1. I primi due motivi di ricorso – da esaminarsi congiuntamente perchè connessi – sono fondati.

Per quanto concerne gli accordi o contratti collettivi di lavoro, una volta venuto meno l’ordinamento corporativo e, con esso, l’art. 2072 cod. civ., inizialmente Cass. n. 5119/87, Cass. n. 5034/89 e Cass. n. 823/93 affermarono la necessità della forma scritta ad substantiam, desunta vuoi dal rispetto del principio dell’affidamento vuoi da norme come, ad esempio, gli artt. 2113 e 2077 c.c., la L. n. 741 del 1959, art. 3 o l’art. 425 c.p.c., che implicitamente presuppongono una forma scritta.

Difforme statuizione fu adottata da Cass. n. 8083/87 nel risolvere il diverso, ma connesso, problema della necessità della forma scritta per il mandato conferito dai lavoratori ai rappresentanti sindacali, relativo alla conclusione di un accordo aziendale avente ad oggetto la sospensione del rapporto: tale sentenza ritenne valido il mandato, conferito con comportamenti concludenti, in quanto non era prevista la forma scritta ad substantiam per la stipulazione dell’accordo aziendale (Cass. n. 8083/87).

Ancora per la non configurabilità d’una forma scritta ad substantiam si pronunciò Cass. n. 4030/93.

Si giunse, infine, alla sentenza n. 3318/95, con cui le S.U. di questa S.C. statuirono che, in mancanza di norme che prevedano, per i contratti collettivi, la forma scritta e in applicazione del principio generale della libertà della forma (in base al quale le norme che prescrivono forme peculiari per determinati contratti o atti unilaterali sono di stretta interpretazione, ossia insuscettibili di applicazione analogica), un accordo aziendale è valido anche se non stipulato per iscritto.

In senso conforme si pronunciò Cass. n. 11111/97.

Non si ravvisano ragioni idonee a mutare quest’ultimo indirizzo interpretativo, a tal fine non bastando le pur evidenti esigenze funzionalistiche che consigliano l’adozione d’un testo scritto, ma che di per sè non possono imporlo in difetto d’una sanzione a pena di nullità prevista dalla legge o dall’autonomia privata.

Per questa ragione non vale invocare gli artt. 2077 o 2113 c.c., la L. n. 741 del 1959, art. 3, l’art. 425 c.p.c. od altre analoghe disposizioni in cui il testo scritto – non sancito a pena di nullità – è implicitamente presupposto a fini meramente ricognitivi.

In altre parole, va mantenuto saldo il consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale in virtù del quale le norme secondo cui determinati contratti o atti devono essere posti in essere con una forma particolare sono di stretta interpretazione.

Ciò sia detto in ossequio al principio di libertà delle forme che deriva dall’art. 1325 c.c., n. 4 (fermo restando che qualsiasi atto, per esistere nel mondo giuridico, deve pur sempre manifestarsi all’esterno ed assumere, quindi, una qualche forma, sia essa verbale, scritta, per fatti concludenti etc.).

Ne discende che è corretto parlare comunemente di forma libera, come regola, di forma vincolata, come eccezione.

E’ pur vero che in alcune ipotesi questa Corte ha statuito la necessità della forma scritta anche in assenza di espressa disposizione normativa, ma ciò è avvenuto in base ad un’interpretazione estensiva e non analogica di norme che imponevano la redazione per iscritto di atti connessi, come avvenuto – ad esempio – per il contratto che risolva un preliminare comportante l’obbligo di trasferire la proprietà o diritti reali su immobili (v. Cass. n. 13290/15 fino a risalire, indietro nel tempo, a Cass. S.U. n. 8878/90).

Una volta stabilita la libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro, la medesima libertà deve essere ravvisata anche riguardo agli atti che ne siano risolutori, come il mutuo dissenso (art. 1372 c.c., comma 1) o il recesso unilaterale (o disdetta) ex art. 1373 c.c., comma 2.

Tanto deriva dal consolidato principio dottrinario e giurisprudenziale per cui il recesso è un negozio recettizio che, pur non richiedendo formule sacramentali, nondimeno resta assoggettato agli stessi vincoli formali eventualmente prescritti per il contratto costitutivo del rapporto al cui scioglimento sia finalizzato (cfr. Cass. n. 14730/2000, Cass. n. 5454/90 e Cass. n. 5059/86).

Ove tali vincoli non siano previsti – come nel caso degli accordi o dei contratti collettivi di lavoro – si riespande il principio della libertà della forma della manifestazione di volontà, tanto per il contratto quanto per i negozi connessivi (come il recesso unilaterale ex art. 1373 c.c., comma 2).

E’, poi, opportuno precisare che anche per la forma ad probationem tantum è necessaria un’apposita previsione (che nel caso di specie non sussiste) e che esula dalla presente sede il discorso attinente alla forma definita “integrativa” da quella parte della dottrina che la ricava dalle norme che prevedono una determinata forma al solo fine di far sì che il contratto produca tra le parti effetti ulteriori rispetto a quelli tipici e immediati (v., ad es., artt. 1524,1605,2787 e 2800 c.c.).

2.2. La qui ribadita libertà della forma del contratto collettivo di lavoro e dei negozi connessivi (come il recesso unilaterale ex art. 1373 c.c., comma 2) reca con sè la fondatezza – nei sensi qui di seguito meglio chiariti – degli ulteriori motivi di censura riferiti alla mancata ammissione delle prove testimoniali a tal fine chieste e coltivate dalla società ricorrente.

Essa è onerata ex art. 2697 c.c., comma 2, della dimostrazione (in quanto ricopre il ruolo sostanziale di convenuto eccipiente) sia dell’esistenza d’una effettiva disdetta verbale espressa nel corso della summenzionata riunione del 27.1.04 sia del carattere meramente confermativo della successiva lettera del 29 gennaio 2004, per superare la contraria affermazione degli odierni controricorrenti, secondo i quali, invece, in quella riunione le parti avrebbero pattuito la comunicazione scritta del recesso.

A sua volta l’onere di comunicare per iscritto la disdetta, ove pattuito nel corso della summenzionata riunione del 27.1.04, risulterebbe rilevante non ai fini degli artt. 1351 o 1352 c.c., ma perchè una pattuizione del genere equivarrebbe ad una concorde richiesta di ripensamento tale da inficiare un’ipotetica iniziale volontà di recesso da parte aziendale, così implicandone l’assenza o (il che è lo stesso ai presenti fini) la non attualità alla data del 27.1.04.

Nel caso di specie comunque non soccorrerebbe l’art. 1351 cod. civ. (applicabile solo quando una determinata forma sia stabilita dalla legge e non pure quando essa sia stata prevista dalle parti per un contratto per il quale la legge non dispone alcunchè: cfr. Cass. n. 3980/81) nè l’art. 1352 cod. civ. (perchè il vincolo d’una futura forma può, a sua volta, essere posto soltanto per iscritto).

Di tali principi non ha fatto applicazione la sentenza impugnata, che – in violazione degli artt. 24 e 111 Cost. – è pervenuta al diniego della prova (ritualmente chiesta dalla società ricorrente) in base all’erroneo presupposto che nella vicenda in esame la disdetta non potesse darsi che in forma scritta.

Vanno disattese le obiezioni mosse dai controricorrenti alla possibilità d’una prova testimoniale della disdetta, vuoi perchè ex art. 421 c.p.c., comma 2, nel processo del lavoro non si applicano i limiti alla prova testimoniale previsti dagli artt. 2721,2722 e 2723 c.c. (cfr., per tutte, Cass. n. 9228/09), vuoi perchè tali limiti sono riferibili ai soli contratti e non anche agli atti unilaterali (cfr., per tutte, Cass. n. 5417/14).

2.3. E’ fondato il quinto motivo di censura (scrutinabile come vizio di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, nel testo, applicabile ratione temporis, previgente rispetto alla novella di cui al D.L. n. 83 del 2012, art. 54, convertito in L. 7 agosto 2012, n. 134): la sentenza impugnata ha affermato del tutto apoditticamente che nel corso della riunione del 27.1.04 le parti avrebbero pattuito la necessità d’una comunicazione scritta del recesso senza che, però, sia stato svolto alcun accertamento istruttorio a riguardo.

Per altro, tale affermazione dei giudici di merito, ancor prima che apodittica, è comunque superata dalla sopra chiarita inapplicabilità degli artt. 1351 e 1352 cod. civ..

2.4. E’, invece, infondato il sesto motivo di ricorso.

Nel vigente ordinamento processuale, ispirato ad un assetto teleologico delle forme, la loro inosservanza importa nullità solo se espressamente comminata dalla legge (v. art. 156 c.p.c., comma 1) o se tale da rendere l’atto inidoneo a raggiungere il suo scopo (v. art. 156 c.p.c., comma 2).

Non è questa l’ipotesi della fissazione del termine entro il quale pagare la somma ingiunta ex art. 641 c.p.c..

E’, poi, appena il caso di segnalare l’irrilevanza del motivo di censura, atteso che, per costante ed ultratrentennale insegnamento giurisprudenziale, l’opposizione a decreto ingiuntivo non costituisce un’impugnazione del decreto volta a farne valere vizi originari, ma dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione di merito inteso all’accertamento del credito inizialmente fatto valere in via monitoria.

Pertanto, la sentenza che decide la controversia deve accogliere la domanda dell’attore (vale a dire del creditore istante), rigettando conseguentemente l’opposizione, quante volte abbia a riscontrare che i fatti costitutivi del diritto azionato risultino esistenti e provati al momento della decisione, indipendentemente dall’ammissibilità o validità del decreto e/o dalla fondatezza della pretesa nel momento in cui fu presentato il ricorso ex art. 633 cod. proc. civ. (cfr., ex aliis, Cass. n. 20858/12; Cass. n. 9927/04; Cass. n. 6421/03; Cass. n. 2573/02; Cass. n. 5055/99; Cass. n. 1494/99; Cass. n. 807/99, Cass. n. 3628/87).

2.5. Ancora infondato è il settimo motivo, dovendosi dare continuità alla giurisprudenza delle S.U. di questa S.C. (v. sentenza n. 24822/15) secondo cui la regola della scissione degli effetti della notificazione per il notificante e per il destinatario – introdotta dall’art. 149 c.p.c., comma 3, aggiunto dalla L. n. 263 del 2005, art. 2,comma 1, e, ancor prima, sancita dalla sentenza n. 477/02 della Corte cost. – si applica solo agli atti processuali e agli effetti sostanziali dei primi ove il diritto non possa farsi valere se non con un atto processuale, come avviene – ad esempio – riguardo all’interruzione della prescrizione di azione costitutiva, che non può realizzarsi se non esercitando in giudizio l’azione medesima.

Non è questo il caso in esame.

3.1. In conclusione, il ricorso è da accogliersi nei sensi di cui in motivazione, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, che dovrà accertare se e in che termini nella summenzionata riunione del 27.1.04 vi sia stata un’effettiva disdetta orale degli accordi collettivi aziendali 5.7.74, 6.7.79 e successivi aggiornamenti.

Ciò il giudice di rinvio dovrà verificare alla luce dei seguenti principi di diritto:

a) il principio di libertà della forma si applica anche all’accordo o al contratto collettivo di lavoro di diritto comune, di guisa che essi – a meno di eventuale diversa pattuizione scritta precedentemente raggiunta ai sensi dell’art. 1352 c.c. dalle medesime parti stipulanti – ben possono realizzarsi anche verbalmente o per fatti concludenti;

b) tale libertà della forma dell’accordo o del contratto collettivo di lavoro concerne anche i negozi connessivi, come il recesso unilaterale ex art. 1373 c.c., comma 2;

c) la parte che eccepisce l’avvenuto recesso unilaterale è onerata ex art. 2697 c.c., comma 2, della prova relativa e, ove alla manifestazione orale segua, su richiesta dell’altro o degli altri contraenti, una dichiarazione scritta del medesimo tenore, è altresì onerata della prova del carattere meramente confermativo – anzichè innovativo – di tale successiva dichiarazione.

P.Q.M.

accoglie il ricorso nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d’appello di Milano in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 2 febbraio 2018

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