Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25979 del 15/10/2019

Cassazione civile sez. trib., 15/10/2019, (ud. 26/06/2019, dep. 15/10/2019), n.25979

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Presidente –

Dott. FUOCHI TINARELLI Giuseppe – Consigliere –

Dott. CATALLOZZI Paolo – Consigliere –

Dott. TRISCARI Giancarlo – rel. Consigliere –

Dott. SUCCIO Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 24423 del ruolo generale dell’anno 2012

proposto da:

Cad Tergeste s.r.l., in persona del legale rappresentante pro

tempore, rappresentata e difesa dagli Avv.ti Ezio Volli e Stefano

Coen per procura speciale a margine del ricorso, elettivamente

domiciliata in Roma, Piazza di Priscilla, n. 4, presso lo studio di

quest’ultimo difensore;

– ricorrente –

contro

Agenzia delle dogane e dei Monopoli, in persona del Direttore pro

tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello

Stato, presso i cui uffici in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, è

domiciliata;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione tributaria

regionale del Friuli Venezia Giulia, n. 21/10/2012, depositata in

data 26 marzo 2012;

udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 26 giugno 2019

dal Consigliere Giancarlo Triscari;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto procuratore

generale Dott. Ettore Pedicini, che ha concluso chiedendo

l’inammissibilità o l’infondatezza dei motivi di ricorso;

udito per l’Agenzia delle dogane l’Avv. dello Stato Alfonso Peluso.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane aveva emesso nei confronti del Centro Assistenza Doganale Tergeste s.r.l. (di seguito: Cad Tergeste s.r.l.) tre avvisi di rettifica con i quali, a seguito di controllo a posteri

delle operazioni di importazione di capi di abbigliamento e maglieria varia per conto della ditta importatrice Fashion Style di C.M., aveva accertato il mancato pagamento di maggiori diritti di confine; l’Agenzia delle dogane, inoltre, aveva emesso anche un successivo atto di contestazione e irrogazioni delle sanzioni nonchè una cartella di pagamento conseguente ad uno degli avvisi di rettifica in precedenza notificato; i capi di abbigliamento erano stati realizzati in Bosnia Erzegovina da una ditta (la Eurotriko d.o.o.), di cui era proprietario lo stesso importatore Fashion Style di C.M., che aveva utilizzato i filati italiani esportati dalla ditta MG Boy’s, in regime di perfezionamento passivo, per essere ivi lavorati e trasformati in maglieria da reimportare in Italia; era tuttavia risultato che il prezzo indicato nella documentazione di esportazione del filato era inferiore a quello sostenuto per il suo acquisto, e lo stesso prodotto finito, cioè la maglieria prodotta dalla Eurotriko d.o.o., era stato importato ad prezzo più basso di quello pagato per il solo filato, sicchè si configurava una sottofatturazione del prezzo corrisposto dalla ditta importatrice al fine di evadere l’imposta di confine; era, inoltre risultato che: a) la dichiarazione su fattura ai fini della prova dell’origine preferenziale della merce era irregolare e la dichiarazione di origine preferenziale, attestata dai certificati EUR1, era irregolare in quanto l’autorità estera non aveva dato risposta al sollecito dell’autorità italiana circa la richiesta di regolarità presentata in sede di procedura di cooperazione; b) la classificazione doganale relativa ad alcune importazioni non era corretta; avverso i suddetti atti impositivi Cad Tergeste s.r.l. aveva proposto ricorso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Trieste che lo aveva rigettato; avverso la pronuncia del giudice di primo grado aveva proposto appello la società contribuente.

La Commissione tributaria regionale del Friuli Venezia Giulia ha rigettato l’appello, in particolare ha ritenuto che: secondo la legislazione interna ed unionale i centri di assistenza doganale, quale la società contribuente, agiscono sempre in nome proprio e per conto altrui, sicchè deve riconoscersi la responsabilità degli stessi per il mancato assolvimento dell’Iva sull’importazione; non rilevava, al fine di escludere la responsabilità della società contribuente, la circostanza che trovava applicazione nella fattispecie la disciplina del deposito fiscale e l’assolvimento dell’Iva mediante l’inversione contabile, considerato che, nel caso di specie, la merce era stata sottofatturata e quindi scortata da un titolo originario inidoneo alla concessione del beneficio preferenziale, con la conseguenza che erano state irregolari sia le formalità previste per l’importazione sia il pagamento dei relativi diritti doganali dovuti per la parte non riscossa; non sussisteva, nella fattispecie, la decadenza della pretesa fiscale, tenuto conto del fatto che risultava essere stato instaurato un procedimento penale a carico della ditta importatrice, sicchè il termine di decadenza triennale doveva essere considerato prorogato; non sussisteva alcuna lesione del diritto di difesa della contribuente di cui alla L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7; non sussisteva alcuna violazione della buona fede della società, non potendo escludere la sua responsabilità la circostanza che la stessa non aveva potuto avere conoscenza della condotta di M.C., titolare della ditta importatrice, non avendo intrattenuto alcun rapporto con la MG Boys; non rilevava, ai fini della eventuale riduzione della pretesa, la circostanza che M.C., titolare della ditta importatrice, aveva versato, in sede di procedura di patteggiamento, l’importo di Euro 10.000,00 a titolo di deposito cauzionale; non sussisteva, infine, alcuna violazione della procedura di determinazione del valore effettivo della merce importata.

Avverso la pronuncia in esame ha proposto ricorso il Cad Tergeste s.r.l. affidato a sette motivi di censura, cui ha resistito l’Agenzia delle dogane con controricorso, illustrato da successiva memoria.

Il Cad Tergeste s.r.l. ha altresì depositato nota dell’8 giugno 2015 di deposito documenti.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Preliminarmente, va disattesa l’eccezione di parte controricorrente di inammissibilità del ricorso, fondata sulla circostanza che la sentenza impugnata risulta conforme, per quanto attiene alle questioni di diritto affrontate, all’orientamento espresso dalla giurisprudenza di legittimità, tenuto conto del fatto che parte ricorrente, oltre che prospettare motivi di censura che attengono a questioni di diritto, ha altresì proposto motivi di ricorso ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), profili sui quali è comunque necessario procedere all’esame specifico degli stessi.

1. Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, per violazione della L. n. 66 del 1992, L. n. 213 del 2000, del D.M. n. 549 del 1992, e dell’art. 5 Codice Doganale Comunitario, nonchè per carenza di motivazione, per avere ritenuto che la contribuente, quale centro di assistenza doganale, avendo operato quale rappresentante indiretto dell’importatore, era da considerarsi responsabile della violazione delle previsioni in materia di diritti di importazione.

1.1. Il motivo è infondato.

Questa Corte ha più volte precisato che i CAD (Centri di Assistenza Doganali) istituiti con D.M. Finanze n. 549 del 1992, sono società costituite tra spedizionieri doganali, abilitate ad emettere dichiarazioni doganali, in rappresentanza sia diretta che indiretta, previa l’acquisizione ed il controllo formale della documentazione fornita dal proprietario delle merci. Successivamente, in attuazione della L. n. 213 del 2000, con decreto del 7 dicembre 2000 sono state disciplinate le procedure autorizzatorie e le modalità di esercizio delle procedure semplificate di cui al Reg. CEE n. 2913 del 1992, art. 76, nonchè il rilascio delle medesime ai CAD. La spendita da parte del CAD del proprio nome in qualità di dichiarante ai sensi dell’art. 201 C.D.C., fa sì che la sua responsabilità sia perfettamente solidale con quella del mandante (importatore proprietario delle merci) e che tale responsabilità possa, quindi, essere fatta valere, come nella normale attività negoziale privatistica, nei confronti di terzi, fra cui sono comprese, ovviamente, le Pubbliche Amministrazioni. Infatti il REG. CEE 12 ottobre 1992, n. 2913, art. 201, stabilisce la solidarietà passiva dello spedizioniere doganale o di chiunque presenti la merce per conto di altri con il soggetto passivo dell’obbligazione tributaria quando, come nella fattispecie, agisce nell’ambito della rappresentanza indiretta, diventando lui stesso dichiarante e dunque responsabile solidale con il rappresentato nell’obbligazione doganale.

Inoltre, in varie decisioni (Cass. civ., n. 9773 del 2010; n. 14955 del 2013), è stato ribadito che: “In tema di tributi doganali, lo spedizioniere che abbia presentato merci in dogana per conto terzi, ma in nome proprio, beneficiando dell’ammissione alla procedura semplificata di cui alla L. n. 374 del 1990, art. 12, risponde, ai sensi dell’art. 12 cit., e del Reg. CEE n. 2913 del 1992, artt. 201 e 202, (Codice doganale comunitario), in via solidale con il soggetto per conto del quale la merce medesima è stata presentata in dogana, di tutti i dazi, le imposte e gli accessori dovuti, a qualsiasi titolo, in relazione all’operazione commerciale, compresi gli interessi relativi, essendo tale figura di rappresentante indiretto, anche per la sua preparazione professionale, in grado di valutare la veridicità dei documenti trasmessigli, e dunque consapevole dell’irregolarità dell’introduzione delle merci nel territorio della Comunità.

Parte ricorrente, con il presente motivo, conferma la circostanza di avere operato in procedura domiciliata, limitandosi a osservare, con una considerazione priva di rilevanza, che la condizione di “rappresentanza indiretta” era stata imposta dalla Dogana, senza peraltro allegare alcun atto, in difetto del principio di specificità, da cui evincere che, relativamente alle operazioni in esame, la stessa avesse in realtà proceduto in rappresentanza diretta, spendendo quindi il nome dell’importatore al momento dell’importazione delle merci nel territorio unionale.

Il motivo, peraltro, è inammissibile nella parte in cui si prospetta una ragione di censura ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per carenza di motivazione, non essendo stato indicato il fatto decisivo e controverso del giudizio non tenuto in considerazione dal giudice del gravame ai fini della decisione.

2. Con il secondo motivo sì censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione dell’art. 1362 c.c., del D.L. n. 331 del 1993, art. 50 bis, della L. n. 106 del 2011, nonchè per carenza di motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), per non avere tenuto conto del fatto che, con l’emissione dell’autofattura, l’importatore provvede al pagamento dell’Iva, sicchè non è ipotizzabile alcuna evasione dell’Iva e per non avere affrontato i punti decisivi discussi in corso di causa, risultato carente di motivazione e non rispettosa dei canoni di interpretazione delle leggi.

Il motivo è inammissibile.

Lo stesso, invero, non tiene in alcun modo conto della ratio decidendi della pronuncia censurata, limitandosi ad affermare che, essendosi provveduto all’autofatturazione da parte del soggetto importatore, ed avendo quindi questi provveduto al pagamento dell’Iva secondo il regime dell’inversione contabile, non sussiste alcuna evasione dell’Iva.

In realtà, il giudice del gravame ha posto correttamente l’attenzione sulla circostanza che, nel caso di specie, la merce era stata fraudolentemente sottofatturata e, quindi, scortata da un titolo di origine inidoneo alla concessione del beneficio preferenziale, sicchè erano risultate irregolari le formalità previste per l’importazione ed il pagamento dei relativi diritti doganali dovuti per la parte non riscossa, non avendo quindi rilievo la circostanza che l’importatore aveva provveduto al pagamento dell’Iva mediante autofatturazione.

La suddetta considerazione del giudice del gravame non è stata in alcun modo presa in considerazione con il presente motivo di censura e, tuttavia, è su di essa che il giudice di appello ha, correttamente, ritenuto che se, da un lato, l’autofatturazione consente di escludere che sia dovuta l’Iva sull’importazione, atteso che la stessa viene corrisposta mediante il regime dell’inversione contabile, d’altro lato, la fattispecie in esame era da porsi al di fuori di questo ambito, posto che aveva riguardo all’ipotesi di una evasione dei diritti doganali conseguenti ad una rilevata sottofatturazione, con conseguente fraudolenta sottrazione del pagamento dei suddetti diritti al momento dell’importazione e, di conseguenza, con la successiva applicazione del regime dell’inversione contabile.

Il motivo di censura in esame, peraltro, è inammissibile nella parte in cui, in una non consentita commistione di ragioni di censura che attengono ora a vizi di violazioni di legge ora a vizi di motivazione, non espone chiaramente quali siano i fatti rilevanti e decisivi non considerato dal giudice del gravame.

Parimenti, lo stesso è inammissibile laddove prospetta un vizio di violazione di legge per inosservanza dei principi di interpretazione, non esponendo chiaramente la ragione fondante del motivo di censura in esame, in particolare sotto quale profilo i canoni ermeneutici di interpretazione delle leggi siano stati violati.

3. Con il terzo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), per violazione dell’art. 221 CDC, e per insufficienza della motivazione, per non avere tenuto conto del fatto che la contribuente non aveva mai ricevuto la comunicazione di una notitia criminis e che non era stato provato che la notitia criminis comunicata al M.C., titolare della ditta importatrice Fashion Style era intervenuta nei trienni dalle importazioni.

3.1. Il motivo è infondato.

Con riferimento alla questione relativa alla mancata comunicazione alla società contribuente della notitia criminis, si osserva che la Corte di giustizia ha chiarito che “…l’importo dei dazi può essere comunicato dopo la scadenza del termine triennale qualora l’autorità doganale non abbia inizialmente potuto determinare l’importo esatto dei dazi legalmente dovuti a causa di un atto perseguibile a norma di legge, anche nell’ipotesi in cui tale debitore non sia l’autore dell’atto in questione” (Corte di giustizia 16 luglio 2009, C-124/08 e C-125/08, Gilbert Snauwaert e altri, punti 30 e 32, che, peraltro, fa riferimento alla dizione del paragrafo 4 antecedente alle modifiche apportate dal regolamento numero 2700/2000), successivamente ribadendo che la comunicazione al debitore può essere effettuata, “alle condizioni previste da/le disposizioni vigenti”, dopo la scadenza del termine triennale di cui al paragrafo 3, qualora l’obbligazione sorga a seguito di un atto perseguibile penalmente (Corte di giustizia 17 giugno 2010 in causa C-75/09, Agra srl).

La fissazione di una tale regola, che incide sull’accertamento dei diritti doganali si sovrappone alle regole nazionali, prevalendo su di esse, il che comporta che la regola comunitaria si applica non soltanto al termine di prescrizione per la riscossione dei diritti doganali, ma anche a quello di decadenza per la revisione dell’accertamento, stabilito dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, in ovvia coerenza, del resto, con la loro ratio, che è quella di impedire che il decorso del tempo giovi a chi ha occultato il credito e di impedire altresì che giovi al debitore l’ostacolo all’azione amministrativa determinato dal procedimento di indagine penale (in termini, sia pure con riguardo alle omologhe norme stabilite dal regolamento CEE del Consiglio numero 1697 del 1979, vedi Cass. n. 9253/13).

Si deve, in particolare, ritenere che la causa di “sospensione” operi sino alla data di irrevocabilità del provvedimento che definisce il procedimento penale instaurato a seguito dell'”atto perseguibile penalmente” (Cass., ord. n. 615 del 2018; 26045/16; n. 24674/15; n. 14016/12) e che, ai fini della proroga, occorre il duplice requisito che: a) la mera notizia di reato sia contenuta in un atto anche non proveniente da autorità statali; b) tale atto pervenga o sia emesso dall’Autorità giudiziaria o sia emesso dall’Autorità giudiziaria o da ufficiali di polizia giudiziaria.

In particolare, l’atto passibile di azione giudiziaria è stato interpretato dalla giurisprudenza di legittimità in senso oggettivo, indipendentemente dalle persone cui venga imputato in sede penale, (Cass. 8362/06; 2598/06), col solo limite che la menzionata “notitia criminis”, che determina la proroga del termine triennale, sia intervenuta nel corso di tale termine, e non dopo la sua scadenza (ancorchè l’atto accertativo possa essere notificato dopo), perchè altrimenti il termine di revisione dei dazi sarebbe privo di riferimento temporale, e dilatabile all’infinito.

3.2. Con riferimento, poi, alla diversa questione della mancanza di prova che la notitia criminis sia stata elevata nel triennio dalle importazioni, va osservato che il giudice del gravame ha evidenziato che era stato instaurato a carico del titolare della ditta Fashion Style un procedimento penale portante il numero RGNR 2160/07 e che questo si era concluso in data 20 ottobre 2009.

In tal modo, ha espresso la propria valutazione in ordine alla instaurazione del procedimento penale entro il termine triennale dal sorgere dell’obbligazione tributaria, sicchè, la pronuncia in esame risulta coerente con il quadro normativo e giurisprudenziale sopra indicato.

4. Con il quarto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione della L. n. 212 del 2000, art. 12, e per insufficiente ed omessa motivazione, per non avere considerato che, non essendo stato comunicato alla contribuente alcun verbale di chiusura delle operazioni, non aveva potuto prospettare le proprie osservazioni.

Il motivo è infondato.

Questa Corte (da ultimo, Cass. civ., 25 gennaio 2019, n. 2175) ha più volte precisato che agli avvisi di rettifica in materia doganale, precedenti all’entrata in vigore del D.L. n. 1 del 2012, conv., con modif., dalla L. n. 27 del 2012, non si applica la L. n. 212 del 2000, art. 12, comma 7, perchè, in tale ambito, opera lo ius speciale di cui al D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, nel testo vigente ratione temporis, preordinato a garantire al contribuente un contraddittorio pieno in un momento anticipato rispetto alla formazione dell’atto definitivo, che può essere impugnato in sede giurisdizionale, non sussistendo violazione nè dei principi unionali nè degli artt. 3 e 24 Cost., perchè il procedimento previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, tutela il diritto del contribuente al contraddittorio preventivo e, dunque, il suo diritto di difesa endoprocedimentale.

Non rileva, pertanto, la questione relativa alla circostanza che l’autorità bosniaca aveva dato risposta in sede di procedimento di cooperazione, anche in considerazione del fatto che le ulteriori considerazioni, espresse con il presente motivo di censura, inerenti al fatto che la suddetta autorità aveva inviata una relazione dettagliata sulla lavorazione descrivendo esatta, il tipo, la consistenza e la qualità dell’intervento lavorativo e di manipolazione, risultano prive del requisito di specificità.

5. Con il quinto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), per omessa e insufficiente motivazione, in quanto non ha tenuto conto del fatto che non poteva essere attribuita alcuna responsabilità alla società contribuente, poichè la stessa non aveva potuto avere conoscenza della condotta di C.M., titolare della ditta importatrice, non avendo intrattenuto alcun rapporto con la MG Boys.

Il motivo è inammissibile.

Sul punto, il giudice ha espressamente pronunciato facendo riferimento, a pag. 21, al quarto motivo di censura della contribuente, nonchè alla pronuncia della sentenza penale, riprodotta col presente motivo, e alla circostanza che alcune delle fatture, la lettera di vettura internazionale CMR nonchè le packing list della merce intestate MG Boy’s, tutte allegate a matrice delle bollette doganali dal Cad stesso, identificavano ripetutamente quest’ultima ditta quale naturale destinatario della merce, sicchè, con tale passaggio motivazionale, la sentenza, che ha fatto proprie le considerazioni dell’ufficio doganale, ha evidenziato che la contribuente non poteva non avere conoscenza dell’esistenza della ditta in esame.

Rispetto a tali considerazioni, che conducono a evidenziare la conoscenza della contribuente della ditta MG Boy’s, assume peraltro rilievo la circostanza, già evidenziata in sede di esame del primo motivo di censura, della responsabilità della contribuente per le riscontrate violazioni della disciplina in materia di diritti doganali, essendo la stessa dichiarante doganale, avendo agito in rappresentanza indiretta.

Va peraltro precisato che è irrilevante lo stato soggettivo di consapevolezza della irregolarità della introduzione della merce in capo alla CAD, in quanto grava, sull’importatore (e sul suo rappresentante indiretto) l’obbligo di vigilare “sull’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione dall’esportatore, al fine di evitare abusi” (Cass. n. 24675 del 23/11/2011), cosa che, in ipotesi, non risulta essere in alcun modo provato dalla contribuente, che ha espresso il presente motivo in modo assolutamente generico.

L’affermazione dell’obbligo in questione si rispecchia nel p. 57 della sentenza della Corte di giustizia 17 luglio 1997, causa C-97/95, Pascoal & Filhos, richiamata da Cass. n. 24675 del 2011, cit., la quale espressamente paventa che, se la buona fede dell’importatore fosse capace di esentarlo comunque da responsabilità, “(…) l’importatore sarebbe indotto a non verificare più l’esattezza dell’informazione fornita alle autorità dello Stato di esportazione da parte dell’esportatore, nè la buonafede di quest’ultimo, il che darebbe luogo ad abusi”.

Si noti che, sebbene la sentenza della Corte di giustizia si riferisca al Reg. CEE del Consiglio, del 24 luglio 1979, n. 1697 del 1979, l’attualità del pericolo paventato dalla Corte di giustizia e dell’obbligo affermato da questa Corte trovano riscontro nell’art. 220 CDC, par. 2, lett. b), secondo cui “la buona fede del debitore può essere invocata qualora questi possa dimostrare che, per la durata delle operazioni commerciali in questione, ha agito con diligenza per assicurarsi che sono state rispettate tutte le condizioni per il trattamento preferenziale”.

Si tratta, in questo caso, di una diligenza qualificata, da ragguagliare, giusta l’art. 1176 c.c., comma 2, alla “natura dell’attività esercitata”; in particolare, l’esercizio professionale dell’attività di rappresentante indiretto dell’importatore da parte della società contribuente comporta ineludibilmente che lo sforzo diligente ad essa richiesto si estenda al controllo esigibile dell’esattezza delle informazioni fornite dall’esportatore allo Stato di esportazione (Cass. n. 5199 del 01/03/2013; Cass. n. 6621 del 15/03/2013).

6. Con il sesto motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3), per violazione dell’art. 1292 c.c. e ssgg., e del D.M. n. 549 del 1992, dell’art. 112, c.p.c., nonchè dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 4) e 5), per non aver tenuto conto del fatto che l’importatore aveva provveduto ad un pagamento parziale di quanto contestato, sicchè nessuna pretesa, almeno parziale, poteva essere fatta valere nei propri confronti.

6.1 Il motivo è inammissibile.

Lo stesso, invero, contiene, in un unico contesto, profili di contestazione che attengono ora a vizi di violazione di legge, ora a vizi relativi a error in procedendo, ora a vizi di motivazione della sentenza, senza che sia possibile ricostruire, nell’ambito di un unico motivo di censura, i diversi ambiti di contestazione.

In ogni caso, si osserva che la sentenza censurata ha preso atto della circostanza che la somma di Euro 10.000,00 era stata versata da C.M., titolare della ditta Fashion Style, a titolo di deposito cauzionale, nell’ambito della procedura di patteggiamento dallo stesso attivata nel procedimento penale instaurata a suo carico e che, a seguito della definitività della pronuncia, l’importo era stato incamerato definitivamente, con conseguente revoca degli atti di contestazione di violazioni finanziarie e irrogazioni di sanzioni e della connessa iscrizione a ruolo.

Tuttavia, con il presente motivo, parte ricorrente non allega nè specifica che l’importo versato, cui fa riferimento il giudice del gravame, è stato incamerato definitivamente in relazione alle pretese fatte valere nel giudizio in esame e che tale profilo era stato prospettato al giudice del gravame al fine della diretta incidenza del suddetto pagamento, una volta che era stato definitivamente incamerato, con l’importo richiesto con gli atti impositivi oggetto di controversia.

7. Con il settimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3) e 5), per violazione del Reg. Ce n. 2013 1992, art. 29 e ssgg., per non avere tenuto conto del fatto che il valore delle merci importate era stato determinato secondo parametri diversi da quelli previsti dalla disciplina unionale, peraltro nei confronti di altro soggetto, il M., titolare della ditta Fashion Style.

Il motivo è inammissibile.

Il giudice del gravame ha specificamente preso in esame la questione prospettata dalla società contribuente in sede di proposizione dell’ottavo motivo di appello, ricostruendo la correttezza della determinazione del valore della merce importata, evidenziando che tutti i valori erano stati desunti sulla base dei documenti presentati dal dichiarante o rinvenuti presso l’esportatore, che avevano costituito il supporto documentale necessario e sufficiente per una minuziosa identificazione del valore in dogana.

La pronuncia, inoltre, ha evidenziato che la congruità del valore risentiva dell’accertata esistenza di un legame tra il titolare della Fashion Style e della ditta bosniaca Eurotriko d.o.o..

Il passaggio motivazionale della sentenza in esame non è stato in alcun modo preso in considerazione dal presente motivo di censura, ove è stata solo genericamente rappresentata la ritenuta violazione della previsione dell’art. 29 CDC, e ssgg., senza alcuna specifica indicazioni delle ragioni per le quali si ritiene la non corretta determinazione del valore della merce importata.

In conclusione, sono infondati il primo, terzo e quarto motivo, inammissibili i restanti, con conseguente rigetto del ricorso e condanna della ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite in favore della controricorrente che si liquidano in complessive Euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.

Così deciso in Roma, il 26 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2019

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