Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25965 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 16/11/2020), n.25965

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 31951-2019 proposto da:

M.S., rappresentato e difeso per procura speciale in calce al

ricorso dagli avv. DAVIDE AMADEI e GIOVANNI OMARCHI del Foro di

Verona, elettivamente domiciliato presso il loro studio in Roma, via

Salvo d’Acquisto 1;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO (OMISSIS);

– intimato –

avverso l’ordinanza del GIUDICE DI PACE di VERONA, depositata il

19/07/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/07/2020 dal Consigliere Dott. RUBINO LINA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

1. M.S., cittadino albanese, propone ricorso per cassazione nei confronti del Ministero dell’Interno, articolato in tre motivi, notificato il 21.10.2019, avverso l’ordinanza n. 350/2019 del Giudice di pace di Verona, depositata il 19.7.2019 con la quale il giudice di pace ha rigettato il suo ricorso in opposizione al decreto di espulsione emesso dal Prefetto, convalidando il decreto stesso.

2. Il provvedimento impugnato afferma che il ricorrente avesse dedotto, come motivo di opposizione, la nullità del decreto per omessa traduzione in madre lingua ovvero in una lingua veicolare ma che la conoscenza della lingua risultasse da alcune dichiarazioni precedenti del ricorrente, che nel foglio notizie aveva specificato di comprendere la lingua italiana e di voler ricevere le notificazioni degli atti in lingua italiana, e che aveva sottoscritto anche in precedenza atti di notevole importanza redatti in italiano. Affermava poi che non poteva essere concesso un termine per la partenza volontaria per la ricorrenza del pericolo di fuga, in quanto il ricorrente era privo di documento di identificazione (che aveva regolarmente denunciato come smarrito).

3. Questa la vicenda personale del ricorrente: cittadino albanese, entrava in Italia ancora minorenne, sottoscriveva un contratto di tirocinio a tempo determinato, gli veniva negato il rilascio del permesso di soggiorno per mancanza al momento della richiesta di un contratto di lavoro subordinato e di una dichiarazione di ospitalità nel Comune di residenza, quindi entrava a far parte di una cooperativa, gli veniva notificato il provvedimento di espulsione a seguito della archiviazione della richiesta di conversione del titolo di soggiorno, avverso la quale proponeva opposizione.

4. Il Ministero non ha svolto attività difensive in questa sede.

5. Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 13, comma 7 e delle norme correlate, nonchè degli artt. 3 e 24 Cost..

Torna a sostenere che il provvedimento di espulsione del Prefetto, e poi il provvedimento del Questore contenente l’ordine di lasciare il territorio nazionale entro sette giorni fossero nulli perchè non redatti in lingua albanese, unica lingua a sua conoscenza, e neppure in una delle lingue veicolari, e deduce che anche l’ordinanza impugnata sarebbe nulla per non aver tenuto conto dei suoi rilievi in proposito.

Ricorda in generale, richiamando anche precedenti di legittimità, la necessità di traduzione del provvedimento di espulsione nella lingua di provenienza o quanto meno in una lingua veicolare. Il motivo è infondato.

Esso non si confronta efficacemente con la motivazione del provvedimento impugnato, laddove questo indica che era stato lo stesso ricorrente a dichiarare di conoscere bene la lingua italiana ed a scegliere la lingua italiana come lingua nella quale voleva gli fossero notificati gli atti.

Il ricorso si limita ad affermare in proposito che “il giudice di merito non ha provato la piena conoscenza da parte del sig. M. della lingua italiana”.

In tema di espulsione amministrativa dello straniero, grava sull’amministrazione, che ha notificato il provvedimento di espulsione, l’onere di provare l’eventuale conoscenza della lingua italiana o di una delle lingue c.d. veicolari da parte del destinatario del provvedimento stesso, quale elemento costitutivo della facoltà di notificargli l’atto in una di dette lingue.

E’ invece compito del giudice di merito – non provare ma – accertare in concreto se la persona conosca la lingua nella quale il provvedimento espulsivo sia stato tradotto, a tal fine valutando gli elementi probatori acquisiti al processo, tra i quali assumono rilievo anche le dichiarazioni rese dall’interessato nel c.d. foglio – notizie, nel quale egli abbia dichiarato di conoscere una determinata lingua nella quale il provvedimento sia stato tradotto (v. in proposito Cass. n. 11887 del 2018). Nel caso in esame, peraltro, la decisione del giudice di merito si era fondata, oltre che sulla dichiarazione resa dallo stesso ricorrente, riportata nel foglio notizie, anche sulla sottoscrizione da parte di questi di alcuni importanti atti, precedenti alla vicenda che aveva portato alla espulsione, tutti redatti in italiano, nel corpo dei quali non era mai riportata alcuna dichiarazione del ricorrente di non comprendere la lingua. In base a tali circostanze il giudice di pace ha ritenuto assicurata la conoscenza della lingua in cui era redatto l’atto da parte del suo destinatario.

Nè il ricorrente evoca il profilo di un possibile difetto di informazione ovvero la possibilità che sia stata sottoposto al ricorrente per la firma il foglio notizie senza richiamare su di esso la sua attenzione anche in relazione alla lingua di redazione dell’atto.

Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 13, comma 5, e comma 5.1. del T.U. immigrazione così come modificato dalla L. n. 129 del 2011 e della direttiva 2008/115/CE, art. 7.

Afferma che non è stato rispettato il disposto del comma 5.1. perchè la questura non gli ha dato adeguata informazione della facoltà di richiedere un termine per la partenza volontaria, con scheda informativa multilingue.

Evidenzia che l’accompagnamento coattivo alla frontiera è un provvedimento residuale, e i suoi presupposti applicativi devono sussistere in concreto e non in astratto.

Osserva che il suo caso non rientrava nelle ipotesi previste dalla legge: non era legittimamente possibile ritenere che egli fosse in situazione di pericolo di fuga, in quanto privo di documenti, perchè era entrato in Italia con regolare passaporto, lo aveva smarrito, aveva altrettanto regolarmente denunciato lo smarrimento e ne aveva chiesto il duplicato. Quindi aveva fatto quanto di sua competenza per poter essere regolarmente identificabile.

Il motivo è fondato.

La giurisprudenza di legittimità afferma che, in tema di modalità di attuazione del provvedimento di espulsione del cittadino straniero, la mancanza del passaporto o di altro documento valido per l’espatrio, al quale non è equiparabile un permesso di soggiorno privo di validità, impedisce l’adozione delle misure alternative al trattenimento presso un centro d’identificazione ed espulsione nonchè la concessione di un termine per la partenza volontaria in luogo dell’accompagnamento coattivo alla frontiera (Cass. n. 28155 del 2017). Nel caso deciso dalla sentenza richiamata, il Giudice di pace aveva accertato la mancanza del passaporto o di altro documento valido per l’espatrio, che costituisce un prerequisito indispensabile per l’adozione delle invocate misure alternative al trattenimento di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 14, comma 1 bis, che così dispone: “Nei casi in cui lo straniero è in possesso di passaporto o altro documento equipollente in corso di validità (…) il questore, in luogo del trattenimento di cui al comma 1, può disporre una o più delle seguenti misure (…)”. (Cass. n. 20108 del 07-10-2016). Ai fini della presente disposizione non può considerarsi “documento equipollente” il permesso di soggiorno, peraltro privo di validità. Tale requisito è altresì necessario, a monte, per la concessione di un termine per la partenza volontaria in luogo dell’accompagnamento coattivo alla frontiera, giacchè lo straniero “può chiedere al prefetto, ai fini dell’esecuzione dell’espulsione, la concessione di un periodo per la partenza volontaria” soltanto “qualora non ricorrano le condizioni per l’accompagnamento immediato alla frontiera di cui al comma 4” (art. 13, comma 5, cit.), ovvero qualora, tra l’altro, non sussista il rischio di fuga, che si configura anche in caso di “mancato possesso del passaporto o di altro documento equipollente, in corso di validità” (art. 13, comma 4 bis). La sentenza proseguiva dicendo che benchè il ricorrente deduca (p. 13 dell’atto di ricorso) di essere in possesso di passaporto, tale circostanza è priva di qualsiasi riscontro, giacchè nell’elenco dei documenti che egli dichiara di aver prodotto dinanzi al Giudice di pace (pp. 4-3 dell’atto di ricorso) manca il passaporto, e non viene nemmeno indicato se esso sia stato prodotto in questa sede.

Il caso in esame contiene un elemento distintivo che induce ad adottare una diversa soluzione. Non è discusso che il ricorrente non fosse in possesso del proprio documento di identificazione, ma non lo era per averlo smarrito, ed aveva prodotto la denuncia di smarrimento (se ne dà atto nel provvedimento impugnato). Deve quindi presumersi che egli fosse entrato in territorio italiano in possesso di un valido documento di identità, il che induce ad escludere che si trovasse in una delle condizioni che escludono la concessione di un termine per la partenza volontaria. Non può essere aprioristicamente accomunata, all’interno della nozione di soggetto a rischio di fuga (escluso quindi dalla possibilità di allontanarsi volontariamente dal territorio italiano per far ritorno in patria, senza dover essere sottoposto all’accompagnamento coattivo alla frontiera), la condizione di chi sia entrato regolarmente in Italia munito di documento di identità valido e lo abbia successivamente smarrito (adempiendo all’obbligo di denunciare lo smarrimento e sottoponendosi alle conseguenza, anche penali, per eventuali dichiarazioni mendaci) e la situazione di chi sia entrato in Italia privo di alcun documento identificativo.

Il primo motivo di ricorso va quindi rigettato, ma va accolto il secondo, con cassazione del provvedimento impugnato e rimessione degli atti al giudice di pace di Roma che provvederà anche sulle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

Rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, cassa e rinvia anche per le spese al Giudice di pace di Roma in persona di diverso giudicante.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di cassazione, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

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