Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25963 del 31/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 31/10/2017, (ud. 25/05/2017, dep.31/10/2017),  n. 25963

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. CURCIO Laura – Consigliere –

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo – rel. Consigliere –

Dott. PAGETTA Antonella – Consigliere –

Dott. LEO Giuseppina – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5635-2012 proposto da:

POSTE ITALIANE S.P.A. C.F. (OMISSIS), in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIALE

MAZZINI 134, presso lo studio dell’avvocato LUIGI FIORILLO, che la

rappresenta e difende, giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

P.M., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA NAPOLEONE TERZO

28, presso lo studio dell’avvocato DANIELE LEPPE, rappresentata e

difesa dall’avvocato SERGIO BELLOTTI, giusta delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 396/2011 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 18/02/2011 R.G.N. 11473/07.

Fatto

PREMESSO IN FATTO E IN DIRITTO

Che con sentenza n. 396/2011, depositata il 18 febbraio 2011, la Corte di appello di Roma, in riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato, con le pronunce conseguenti, la nullità del termine apposto al contratto stipulato da P.M. e dalla società Poste Italiane S.p.A., relativamente al periodo dall’1/2/2002 al 30/4/2002, “per esigenze tecniche, organizzative e produttive, anche di carattere straordinario, conseguenti a processi di riorganizzazione, ivi ricomprendendo un più funzionale riposizionamento di risorse sul territorio, anche derivanti da innovazioni tecnologiche, ovvero conseguenti all’introduzione e/o sperimentazione di nuove tecnologie, prodotti o servizi, nonchè all’attuazione delle previsioni di cui agli accordi del 17, 18 e 23 ottobre, 11 dicembre 2001 e 11 gennaio 2002”;

– che la Corte di appello ha, in primo luogo, escluso che il rapporto potesse considerarsi risolto per mutuo consenso, attesa la brevità del periodo intercorso dalla sua cessazione alla data di costituzione in mora, in assenza di prova circa ulteriori elementi qualificanti che potessero comprovare il disinteresse delle parti alla prosecuzione del rapporto stesso; ha, quindi, rilevato come – al di là della questione della specificità della causale – la società non avesse in ogni caso provato l’esistenza in concreto delle ragioni giustificative indicate nel contratto e il rapporto di derivazione causale dell’assunzione a termine dall’insorgere di tali ragioni, essendosi limitata a deduzioni seriali e indifferenziate, tanto espositive come istruttorie, inidonee a dimostrare la legittimità dell’assunzione della parte appellante;

– che nei confronti di detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la società con quattro motivi, cui ha resistito la lavoratrice con controricorso;

rilevato che, con il primo motivo, la ricorrente deduce il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 in relazione all’art. 1372 c.c., comma 1, artt. 1175,1375,2697,1427 e 1431 c.c. e art. 100 c.p.c., per avere la Corte ritenuto infondata l’eccezione di risoluzione per mutuo consenso nonostante che l’inerzia della lavoratrice si fosse prolungata per quattro anni dalla cessazione del rapporto e sussistessero ulteriori elementi (come l’accettazione del t.f.r.) atti a dimostrare una mancanza di interesse alla sua prosecuzione; con il secondo e con il quarto, la ricorrente deduce il vizio di omessa o insufficiente motivazione in ordine ad un fatto controverso e decisivo per il giudizio, là dove la Corte ha considerato non adempiuto l’onere probatorio gravante sul datore di lavoro pur a fronte di un capitolo di prova (n. 11) che avrebbe potuto soddisfare tali esigenze, ed inoltre lamenta che la Corte non abbia esercitato, comunque non fornendo alcuna spiegazione sul punto, i poteri istruttori attribuiti al giudice dagli artt. 253,420 e 421 c.p.c.;

con il terzo, la ricorrente, oltre a reiterare tali censure, deduce la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 368 del 2001, art. 4, comma 2, per avere la Corte posto a carico del datore di lavoro l’onere di provare la sussistenza delle ragioni legittimanti la stipula ex novo di un contratto a tempo determinato in luogo di quelle soltanto che ne legittimano la eventuale proroga, e per avere, d’altra parte, omesso di valutare che le ragioni sottese all’assunzione discendevano direttamente dagli accordi collettivi richiamati nella causale del contratto;

osservato preliminarmente che deve essere disatteso il rilievo di inammissibilità del ricorso per tardività dello stesso, atteso che – secondo quanto ora espressamente previsto dall’art. 149 c.p.c., comma 3, aggiunto dalla L. 28 dicembre 2005, n. 263 – la notifica si perfeziona, per il soggetto notificante, al momento della consegna del plico all’ufficiale giudiziario e tale consegna è, nel caso in esame, avvenuta il 16 febbraio 2012;

– che il primo motivo è infondato, avendo il giudice di merito fatto applicazione nella specie del consolidato orientamento, secondo il quale “nel giudizio instaurato ai fini del riconoscimento della sussistenza di un unico rapporto di lavoro a tempo indeterminato, sul presupposto dell’illegittima apposizione al contratto di un termine finale ormai scaduto, affinchè possa configurarsi una risoluzione del rapporto per mutuo consenso, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo. (Nella specie, la S.C. ha annullato la sentenza di merito che aveva ritenuto sufficiente a configurare la risoluzione per mutuo consenso la mancata attuazione del rapporto di lavoro per un periodo di oltre quattro anni)”: Cass. n. 13535/2015; nè l’accettazione del t.f.r. può costituire elemento idoneo a integrare la fattispecie di tacita risoluzione per mutuo consenso, come di recente ribadito da Cass. n. 8604/2017;

– che risultano altresì infondati gli altri motivi di ricorso, da esaminarsi congiuntamente per ragioni di connessione;

– che, infatti, “l’apposizione di un termine al contratto di lavoro, consentita dal D.Lgs. 6 settembre 2001, n. 368, art. 1 a fronte di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo, che devono risultare specificate, a pena di inefficacia, in apposito atto scritto, impone al datore di lavoro l’onere di indicare in modo circostanziato

e puntuale, al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonchè l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto, le circostanze che contraddistinguono una particolare attività e che rendono conforme alle esigenze del datore di lavoro, nell’ambito di un determinato contesto aziendale, la prestazione a tempo determinato, sì da rendere evidente la specifica connessione tra la durata solo temporanea della prestazione e le esigenze produttive ed organizzative che la stessa sia chiamata a realizzare e la utilizzazione del lavoratore assunto esclusivamente nell’ambito della specifica ragione indicata ed in stretto collegamento con la stessa. Spetta al giudice di merito accertare con valutazione che, se correttamente motivata ed esente da vizi giuridici, resta esente dal sindacato di legittimità – la sussistenza di tali presupposti, valutando ogni elemento, ritualmente acquisito al processo, idoneo a dar riscontro alle ragioni specificamente indicate con atto scritto ai fini dell’assunzione a termine, ivi compresi gli accordi collettivi intervenuti fra le parti sociali e richiamati nel contratto costitutivo del rapporto” (Cass. n. 10033/2010 e successive numerose conformi);

– che a tale principio si è attenuta la Corte di merito rilevando, con motivazione adeguata, come la società non avesse adempiuto l’onere che le incombeva e, in particolare, avesse allegato (e di riflesso trasposto in capitoli di prova) circostanze “assolutamente inadeguate ai fini della rappresentazione e della pedissequa accurata dimostrazione dei luoghi, dei tempi, dei settori e delle mansioni o delle posizioni di lavoro relativamente ai quali la complessa ed estesa ristrutturazione e riorganizzazione aziendale richiamata in narrativa” avesse “imposto ovvero quanto meno occasionato, in attesa della definizione ultimativa del riassetto divisato in corso di attuazione, il ricorso ad una o a più assunzioni a termine” e specificamente a quella della parte appellante; rilevando, inoltre, come il riferimento agli accordi collettivi, contenuto nella memoria di costituzione della società, non si unisse ad “alcuna illustrazione specifica” della concreta posizione della parte appellante e del suo ufficio di applicazione, così da “avvalorare l’esistenza”, all’interno di Poste Italiane S.p.A., “di una complessa manovra riorganizzativa” peraltro inidonea “a suffragare la legittimità della singola assunzione” oggetto di giudizio presso lo specifico ufficio di applicazione e in ragione di determinate contingenze, con conseguente inammissibilità della prova orale richiesta (cfr. sentenza impugnata, pp. 4-5);

– che è altresì consolidato il principio di diritto, per il quale, se il giudice può rivolgere al testimone ex art. 253 c.p.c. tutte le domande dirette a chiarire i fatti e a precisare i dettagli dei fatti già dedotti a prova e sui quali è chiamato a deporre, tale facoltà, di natura esclusivamente integrativa, “non può tradursi in un’inammissibile sanatoria della genericità e delle deficienze dell’articolazione probatoria” (cfr., fra le molte, Cass. n. 3280/2008), deficienze che, nella specie, e come sopra notato, il giudice di merito ha ampiamente e congruamente posto in evidenza;

– che, con riguardo alla censura relativa alla mancata attivazione, da parte della Corte di merito, dei propri poteri istruttori d’ufficio, si deve, in primo luogo, rilevare come la società non abbia specificato di avere tempestivamente invocato l’esercizio di tali poteri, con la necessaria indicazione dell’oggetto possibile degli stessi (Cass. n. 22534/2014; Cass. n. 6023/2009) e ciò anche in palese violazione del principio di autosufficienza del ricorso; e, in ogni caso, come sia costante l’orientamento, secondo cui il mancato esercizio dei poteri istruttori del giudice, anche in difetto di espressa motivazione sul punto, non è sindacabile in sede di legittimità se non si traduce in un vizio di illogicità della sentenza;

ritenuto conclusivamente che il ricorso deve essere respinto;

– che le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.

PQM

La Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso spese generali al 15% e accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella udienza camerale, il 25 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2017

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