Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25962 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 23/07/2020, dep. 16/11/2020), n.25962

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. DI FLORIO Antonella – Consigliere –

Dott. RUBINO Lina – rel. Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28111-2019 proposto da:

M.K., elettivamente domiciliato in Roma, via Raffaello

Bertieri 1, presso lo studio dell’avv. Leonardo Bardi, che lo

rappresenta e difende per procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO- COMMISSIONE TERRITORIALE BOLOGNA

RICONOSCIMENTO PROTEZIONE INTERNAZIONALE, domiciliato in ROMA, VIA

DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo

rappresenta e difende ex lege;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1137/2019 della CORTE D’APPELLO di BOLOGNA,

depositata il 04/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

23/07/2020 dal Consigliere Dott. RUBINO LINA.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

M.K., cittadino del Senegal, propone ricorso nei confronti del Ministero dell’Interno, articolato in due motivi, avverso la sentenza n. 1137/2019 della Corte d’Appello di Bologna, pubblicata in data 4.4.2019, non notificata.

Il Ministero ha depositato tardivamente una comunicazione con la quale si dichiara disponibile alla partecipazione alla discussione orale.

Il ricorso è stato avviato alla trattazione in adunanza camerale non partecipata.

Il ricorrente, proveniente dal Senegal, non riferisce nella parte introduttiva del ricorso, destinata a contenere la sommaria esposizione dei fatti di causa, alcunchè sulla sua vicenda personale. Passa direttamente ad esporre i due motivi di ricorso. Si limita a dire di essere analfabeta e privo di qualsiasi relazione socio familiare in Senegal, ed aggiunge che “alla luce di tali considerazioni è evidente che il ricorrente, in caso di rimpatrio, corre il rischio di subire persecuzioni e danni gravi alla propria incolumità personale”.

Con il primo motivo, il ricorrente deduce la violazione di norme di diritto, denunciando congiuntamente la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 4, (nullità della sentenza), la violazione del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 (protezione umanitaria), e del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14 (protezione sussidiaria), in relazione all’art. 10 Cost..

Con il secondo motivo deduce l’omesso esame di un non meglio individuato fatto decisivo per il giudizio ed afferma che i due motivi meritano di essere esaminati insieme.

Il ricorso è inammissibile.

Il ricorrente tratta congiuntamente, e del tutto genericamente, non soltanto le due ipotesi ben differenti di vizio di violazione di legge e difetto di motivazione, ma i due istituti della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria, disciplinati da diverse norme di legge, e concedibili a fronte della verifica di sussistenza di diversi presupposti, articolando una censura del tutto inammissibile perchè non si confronta nè con la sentenza impugnata, nè con gli istituti che assume violati e che confonde l’uno con l’altro.

Afferma, del tutto apoditticamente, che, poichè il ricorrente è analfabeta e privo di legami socio familiari in Senegal, ove vi rientrasse sarebbe esposto al rischio di subire gravi persecuzioni e danni gravi alla propria incolumità personale (pare di comprendere, per la situazione di grave instabilità politica e sociale nella quale verserebbe tuttora il Senegal).

Afferma poi, altrettanto apoditticamente e genericamente, che se tornasse in patria rischierebbe il contagio. Al di là del fatto che non precisa neppure rispetto a quale malattia sarebbe esposto al rischio di contagio, queste affermazioni meramente assertive non si confrontano nè con la sentenza impugnata nè con le norme che disciplinano le diverse forme di protezione internazionale richieste e che si assumono essere state violate.

Infine, altrettanto generica, e tesa più alla rinnovazione di un giudizio in fatto che ad una censura in diritto di un provvedimento impugnato, è l’ultima censura, con la quale si sostiene che il ricorrente avrebbe avuto diritto, dato il percorso di integrazione intrapreso (quale? non lo dice, nè sostiene di averlo esposto in appello e che esso sia stato ignorato dalla sentenza impugnata) quanto meno al riconoscimento della protezione umanitaria.

Anche questa censura in sè è del tutto generica, non rapportata nè con il contenuto della pronuncia, che non è mai richiamato, per sottoporlo a revisione critica, neanche per sommi capi, nè tanto meno con la situazione personale del ricorrente, del quale non è minimamente rappresentata la storia personale, nè i motivi che lo hanno indotto a lasciare il paese di provenienza: e ciò non perchè la Corte debba o possa in questa sede rinnovare il giudizio sulla presenza dei presupposti per il rilascio del permesso per ragioni umanitarie, ma perchè deve valutare se la corte d’appello sia effettivamente incorsa nelle violazioni denunciate, omettendo di considerare non solo la condizione di pericolosità del paese di provenienza, ma il rischio di compressione dei diritti umani del richiedente e il percorso di integrazione seguito in Italia non in astratto ma in concreto in riferimento alla sua vicenda personale, in attuazione dei principi già più volte affermati da questa Corte: “In materia di protezione umanitaria, il riconoscimento del diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, al cittadino straniero che abbia realizzato un grado adeguato di integrazione sociale in Italia, deve fondarsi su una effettiva valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, al fine di verificare se il rimpatrio possa determinare la privazione della titolarità e dell’esercizio dei diritti umani, al di sotto del nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale, in correlazione con la situazione d’integrazione raggiunta nel Paese d’accoglienza” (Cass. n. 4455 del 2018, richiamata sul punto, quanto alla necessità di compiere il giudizio di comparazione secondo i criteri ivi indicati, da Cass. S. U. n. 29459 del 2019).

Il ricorso va pertanto dichiarato inammissibile.

Nulla sulle spese, non avendo l’intimato svolto attività difensiva in questa sede.

Il ricorso per cassazione è stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, e il ricorrente risulta soccombente, pertanto egli è gravato dall’obbligo di versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, comma 1 bis.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso.

Dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Corte di cassazione, il 23 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

 

 

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