Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25961 del 24/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 24/09/2021, (ud. 05/03/2021, dep. 24/09/2021), n.25961

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

Dott. CRISCUOLO Mauro – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21659-2019 proposto da:

DITTA M.M. ELETTROMECCANICA, in persona del legale

rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA,

PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE,

rappresentata e difesa dall’avvocato GIANDOMENICO DANIELE;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, (OMISSIS), in persona del Ministro pro

tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12,

presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e

difende ope legis;

– controricorrente –

avverso il decreto n. cronol. 679/2019 della CORTE D’APPELLO di

LECCE, depositato il 18/04/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 05/03/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA

FALASCHI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

La Corte di appello di Lecce, con decreto n. 679/2019, rigettando l’opposizione proposta dalla Ditta M.M. Elettromeccanica L. n. 89 del 2001, ex art. 5-ter, avverso il provvedimento di parziale accoglimento della domanda L. cit., ex art. 2 bis, riconosceva la congruità dell’indennizzo determinato in Euro 3.500,00, respinta la richiesta di danno patrimoniale esposto in Euro 240.644,17, liquidando le spese di lite in favore del Ministero in Euro 1.600,00.

Avverso il decreto della Corte di appello di Lecce propone ricorso per cassazione l’Impresa originaria ricorrente, fondato su tre motivi, cui resiste con controricorso il Ministero della giustizia.

Su proposta del relatore, che riteneva che il ricorso potesse essere dichiarato manifestamente infondato, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380 bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), il presidente ha fissato l’adunanza della Camera di consiglio.

In prossimità dell’adunanza camerale parte ricorrente ha curato il deposito di memoria illustrativa.

Atteso che:

– con il primo motivo la ricorrente lamenta, ex art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e la falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c., per avere la Corte di merito, per quanto attiene alla domanda in ordine alla liquidazione delle spese della fase di opposizione, erroneamente ritenuto la società parte soccombente del giudizio nonostante nel merito fosse stato confermato il riconoscimento di un indennizzo pari ad Euro 3.500,00 e stante l’unitarietà del procedimento di equo indennizzo.

La censura è infondata.

Pur vero che – come asserito dalla ricorrente – questa Corte ha chiarito che l’opposizione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 5-ter, non introduce un autonomo giudizio di impugnazione del decreto che ha deciso sulla domanda, ma realizza, con l’ampio effetto devolutivo di ogni opposizione, la fase a contraddittorio pieno di un unico procedimento, avente ad oggetto la medesima pretesa fatta valere con il ricorso introduttivo (Cass. n. 19348/15; analogamente, Cass. n. 20463/15), sulla falsariga e a (quasi) perfetta somiglianza con il procedimento per decreto ingiuntivo (al cui archetipo il legislatore si è dichiaratamente ispirato), col quale il procedimento ex lege Pinto condivide una prima fase, che si svolge inaudita altera parte e che termina con la provocatio ad opponendum, e una seconda fase d’opposizione, caratterizzata da un contraddittorio pieno e da una cognizione esaustiva, tutto ciò allorché detta fase termina con un provvedimento che ha carattere sostitutivo del decreto emesso in sede monitoria solo se ed in quanto l’opposizione sia accolta in tutto o in parte.

Il quadro muta se, invece, l’opposizione L. n. 89 del 2001, ex art. 5-ter, è respinta, potendo essere l’opposizione attivata sia dalla parte erariale, che subisce l’ingiunzione di cui al decreto pronunciato ai sensi dell’art. 3, comma 5, sia da quella privata insoddisfatta da tale provvedimento, nel qual caso l’opposizione è necessitata dalla non riproponibilità della domanda (L. n. 89 del 2001, art. 3, comma 6). Quest’ultima ipotesi s’invera allorché il decreto monocratico abbia respinto in toto ovvero abbia accolto parzialmente la domanda d’equa riparazione, escludendo una o più voci di danno o liquidandole in misura inferiore al richiesto e in questa seconda evenienza questa Corte ha già avuto occasione di affermare il principio secondo cui l’opposizione ex art. 5-ter, della parte privata insoddisfatta dall’esito della fase monitoria ha carattere pretensivo, a differenza di quella erariale che ha sempre e solo natura difensiva (cfr. Cass. n. 26851 del 2016), con tutto ciò che ne deriva in fatto di spese, poiché il decreto monocratico sopravvive tanto nel suo contenuto dichiarativo quanto nel capo che liquida le spese. Con la conseguenza che il regolamento che ne segue in sede di opposizione, non potendo riguardare anche le spese, ormai intangibili, della fase monitoria, è ulteriore e autonomo.

Peraltro, a differenza dell’opposizione ex art. 645 c.p.c., le cui spese in caso di rigetto non possono essere stabilite in maniera contraddittoria rispetto al decreto ingiuntivo, dato il principio per cui la parte totalmente vittoriosa non può essere condannata a pagare neppure una frazione delle spese (giurisprudenza costante: cfr. per tutte e fra le tante, Cass. n. 15317 del 2013), l’opposizione L. n. 89 del 2001, ex art. 5-ter, non accolta può legittimamente condurre a un tale esito.

Su tale premessa positiva, questa Corte ha già avuto occasione di affermare il principio secondo cui l’opposizione ex art. 5-ter, della parte privata insoddisfatta dall’esito della fase monitoria ha carattere pretensivo, a differenza di quella erariale che ha sempre e solo natura difensiva (cfr. Cass. n. 26851 del 2016 cit.). Pertanto, salvo l’ipotesi di opposizione incidentale, il Ministero opposto, avendo prestato acquiescenza al decreto emesso ai sensi dell’art. 3, comma 5, affronta un giudizio che non aveva interesse a provocare e del quale, se vittorioso, non può sopportare le spese.

Di conseguenza queste ultime nel caso di rigetto dell’opposizione vanno regolate in maniera del tutto autonoma, anche a carico integrale della parte privata opponente, ancorché essa abbia diritto a ripetere quelle liquidate nel decreto monocratico che abbia accolto solo parzialmente la domanda di equa riparazione;

– con il secondo motivo la società ricorrente denuncia – ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – la violazione della L. n. 89 del 2001, art. 2, e dell’art. 6 CEDU, ritenendo non corretta la quantificazione dell’ammontare dell’indennizzo riconosciuto alla luce dei parametri della giurisprudenza CEDU e di legittimità.

Del pari è infondata la seconda doglianza circa la violazione dei criteri CEDU per la liquidazione dell’indennizzo, determinato l’ammontare in Euro 500,00 per ogni anno di ritardo, essendo precluso alla Corte di cassazione sindacare la concreta determinazione del “quantum” dell’indennizzo operata dal giudice di merito, trattandosi di valutazione di fatto, nella specie comunque compreso tra il minimo ed il massimo prevista dalla legge (Cass. n. 14521 del 2019).

Ed invero, da un lato va evidenziato che la domanda di equo indennizzo è successiva all’entrata in vigore della novella introdotta con D.L. n. 83 del 2012, per essere stato il ricorso depositato il 19.10.2018, per cui il giudice di merito non è vincolato al rispetto dei parametri elaborati – anche grazie al contributo della giurisprudenza della C.E.D.U. – nella vigenza del dato normativo previgente. Parametri che peraltro, anche in precedenza, ben potevano essere derogati dal giudice, in considerazione dell’esito del giudizio presupposto e quindi del patema d’animo correlato all’irragionevole durata di esso.

In proposito, già Cass. n. 21840 del 2009 aveva affermato che “In tema di equa riparazione per violazione del diritto alla ragionevole durata del processo, i criteri di liquidazione applicati dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo non possono essere ignorati dal giudice nazionale, il quale può tuttavia apportare le deroghe giustificate dalle circostanze concrete della singola vicenda, purché motivate e non irragionevoli” (conf. Cass. n. 17922 del 2010).

La successiva Cass. n. 23034 del 2011, aveva specificato il principio, pronunciandosi sempre nei binari della derogabilità dei parametri C.E.D.U. in presenza di “ragioni speciali per una liquidazione in misura diversa”.

Nel quadro normativo vigente al momento dell’introduzione della domanda della ricorrente (2018), invece, il giudice deve fare riferimento, nella determinazione dell’equo indennizzo derivante dall’irragionevole durata del giudizio presupposto, da un lato ai valori minimi e massimi indicati dalla L. n. 89 del 2001, art. 2-bis, comma 1, (nel testo novellato dalla L. n. 208 del 2015, applicabile ratione temporis ai ricorsi depositati a decorrere dal 1.1.2016), e dall’altro ai parametri elencati al medesimo art. 2-bis, comma 2, tra i quali rientra anche l’apprezzamento dell’esito del giudizio nel cui ambito il ritardo si è maturato. Inoltre, egli ha la facoltà di applicare “nel caso di integrale rigetto delle domande della parte ricorrente” la specifica decurtazione di un terzo prevista dalla normativa in esame, art. 2-bis, comma 1-ter.

Nel caso di specie la Corte territoriale ha correttamente applicato il dato normativo in vigore al momento del deposito del ricorso introduttivo e ha determinato l’indennizzo in coerenza con i criteri ivi indicati. Ne’ è possibile, da parte di questa Corte, sindacare la concreta determinazione del quantum dell’indennizzo operata dal giudice di merito, trattandosi di valutazione di fatto, ovvero l’applicazione della riduzione di cui al richiamato art. 2-bis, comma 1-ter, in quanto esplicazione di potere discrezionale il cui esercizio è rimesso al predetto giudice di merito;

– con il terzo ed ultimo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, per omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, in particolare per non avere la Corte di merito esaminato il ritardo con cui il Giudice adito aveva emesso nel giudizio presupposto il provvedimento di sostituzione del custode e ciò quanto al mancato riconoscimento dei danni patrimoniali lamentati dall’impresa.

Anche il motivo è destituito di fondamento.

Questa Corte ha reiteratamente affermato che (cfr. Cass. n. 18239/2013) in tema di equa riparazione per la non ragionevole durata del processo, la natura indennitaria dell’obbligazione esclude la necessità dell’accertamento dell’elemento soggettivo della violazione, ma non l’onere del ricorrente di provare la lesione della sua sfera patrimoniale quale conseguenza diretta e immediata della violazione, esulando il pregiudizio dalla fattispecie del “danno evento”.

Pertanto, sono risarcibili non tutti i danni che si pretendono relazionati al ritardo nella definizione del processo, ma solo quelli per i quali si dimostra il nesso causale tra ritardo medesimo e pregiudizio sofferto (conf. ex multis Cass. n. 14775/2013; Cass. n. 16837/2010).

Nella fattispecie non appare censurabile la decisione impugnata nella parte in cui ha escluso che la ricorrente avesse offerto la prova dell’effettiva sussistenza del nesso di causalità tra il pregiudizio lamentato e la durata eccessiva del processo presupposto, come appunto ricordato, richiesto da Cass. n. 23756/2007, non dimostrato che la stessa creditrice si sia attivata più celermente per trascrivere il sequestro ottenuto ovvero sollecitato il custode nominato dal giudice e che, pertanto, ove il processo non si fosse protratto oltre il termine ragionevole, il credito sarebbe stato soddisfatto (v. pag. 4, ultima parte del provvedimento impugnato).

In tal senso si e’, infatti, affermato che (cfr. Cass. n. 21391/2005) in tema di equa riparazione per violazione del termine di durata ragionevole del processo, in forza del principio della causalità adeguata il danno economico può ritenersi ricollegato al ritardo nella definizione del processo solo se sia l’effetto immediato di tale eccessiva durata sulla base di una normale sequenza causale, laddove il fallimento del debitore, sopravvenuto nel corso del procedimento rivolto all’accertamento del diritto del creditore, e la conseguente difficoltà di quest’ultimo di ottenere il soddisfacimento interrompe detta sequenza assumendo – quale fattore idoneo a produrre, da solo, l’evento – rilevanza esclusiva ed assorbente nella causazione del danno lamentato trattandosi di fatto autonomo, eccezionale ed atipico rispetto alla serie causale già in atto, che comporta la degradazione delle cause preesistenti al rango di mere occasioni (conf. Cass. 11739/2006; Cass. n. 18456/2007; Cass. n. 17999/2005).

Con specifico riferimento alla dedotta sopravvenuta insolvenza del debitore, si veda anche Cass. n. 26166/2006, a mente della quale, quando il pregiudizio lamentato si risolva nell’asserita impossibilità di fare valere gli effetti della condanna emessa a seguito di un processo durato troppo a lungo, per essere nel frattempo il debitore divenuto insolvente, è onere del ricorrente dimostrare che tale circostanza ha appunto compromesso la soddisfazione del suo credito, quantunque questo sia stato ammesso a partecipare al concorso con gli altri creditori dell’insolvente (nella specie è stato escluso che il ricorrente potesse avvalersi del fatto notorio secondo cui i crediti chirografari non trovano soddisfazione nelle procedure concorsuali, stante la presenza di crediti prededucibili e privilegiati destinati a prevalere in sede di concorso).

Nel caso di specie la ricorrente desume apoditticamente che la sola sottoposizione del debitore a sequestro precluda la possibilità di recuperare il credito vantato, laddove avrebbero ancor prima dovuto dimostrare di essersi attivata celermente nel trascrivere il sequestro ottenuto in danno del debitore.

In conclusione, il ricorso va respinto.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza.

Non vi è l’obbligo di pagamento del doppio contributo unificato (v. D.P.R. n. 115 del 2002, art. 10, e Cass., Sez. Un., 28 maggio 2014 n. 11915).

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna parte ricorrente al rimborso delle spese in favore del controricorrente Ministero che liquida in complessivi Euro 5.000,00, oltre spese prenotate e prenotande a debito.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-2″ Sezione Civile, il 5 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2021

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