Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25958 del 31/10/2017


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Cassazione civile, sez. lav., 31/10/2017, (ud. 16/05/2017, dep.31/10/2017),  n. 25958

 

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MAMMONE Giovanni – Presidente –

Dott. D’ANTONIO Erica – Consigliere –

Dott. BERRINO Umberto – Consigliere –

Dott. RIVERSO Roberto – Consigliere –

Dott. PERINU Renato – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18555-2015 proposto da:

SICILCASSA S.P.A. IN LIQUIDAZIONE COATTA AMMINISTRATIVA, in persona

dei Commissari Liquidatori pro tempore, elettivamente domiciliata in

ROMA, VIA PO 25-B, presso lo studio dell’avvocato ROBERTO RESSI, che

la rappresenta e difende giusta delega in atti;

– ricorrente –

contro

S.R., elettivamente domiciliato in ROMA, PIAZZA

DELL’OROLOGIO, 7, presso lo studio dell’avvocato PAOLA MORESCHINI,

rappresentato difeso dall’avvocato ALESSANDRO PALMIGIANO, giusta

delega in atti;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 898/2015 della CORTE D’APPELLO di PALERMO,

depositata il 11/06/2015, R. G. N. 245/2012.

Fatto

RILEVATO IN FATTO

che, S.R., quale dipendente della SICILCASSA S.p.a., propose opposizione allo stato passivo della SICILCASSA S.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, chiedendo l’ammissione in via privilegiata della somma di Euro 58556,520, somma corrispondente ai contributi versati quale dipendente della suddetta società al F.I.P. (Fondo integrativo pensioni per il personale SICILCASSA), oltre interessi e rivalutazione monetaria;

che, con sentenza del 27/12/2011, il Tribunale ammetteva al passivo della liquidazione coatta amministrativa della SICILCASSA S.p.a. il credito vantato da S.R.;

che, avverso la suindicata sentenza interpose appello la SICILCASSA S.p.a.;

che, la Corte d’appello di Palermo in data 11/6/2015 rigettò il gravame proposto dalla società in liquidazione coatta amministrativa sulla base delle seguenti considerazioni: 1) il D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10 si applica anche ai fondi pensionistici preesistenti all’entrata in vigore (15 novembre 1992) della Legge (Delega) 23 ottobre 1992, n. 421, indipendentemente dalle loro caratteristiche strutturali e quindi, non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, ma anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva – 2) il credito vantato dallo Spennati possiede natura retributiva con conseguente applicazione al credito medesimo dell’art. 429 c.p.c., comma 3; 3) il termine finale per il calcolo della rivalutazione monetaria e degli interessi coincide con il momento del deposito dello stato passivo ai sensi del combinato disposto della L. Fall., artt. 54 e 55;

che, avverso tale pronuncia ricorre per cassazione la SICILCASSA S.p.a. affidandosi a due motivi;

che, resiste con controricorso S.R..

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

Che, il ricorso è articolato in tre motivi;

che, con il primo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.p., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, comma 3 bis, in quanto detta norma non è applicabile ai fondi a prestazione definita, quale quello del F.I.P. – SICILCASSA S.p.a., nei quali la riserva matematica, destinata a garantire la solvibilità delle obbligazioni presenti e future contratte dal Fondo, non coincide con la sommatoria delle ipotetiche posizioni individuali;

che, con il secondo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione dell’art. 429 c.p.c., comma 3, in quanto, illegittimamente, la Corte territoriale avrebbe configurato il credito riconosciuto a titolo di riscatto della intera posizione contributiva del dipendente, come credito di lavoro, e come tale suscettibile di cumulare interessi e rivalutazione monetaria;

che, con il terzo motivo si denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 90, comma 2, per avere la Corte territoriale ritenuto, illegittimamente, che la rivalutazione delle somme ammesse dovesse decorrere fino alla data di deposito dello stato passivo;

che, ritiene il Collegio si debba rigettare il ricorso;

che, infatti, per quanto attiene al primo motivo, questa Corte a partire dall’intervento delle Sezioni Unite con la sentenza del 14 gennaio 2015 n. 477, ha affermato il seguente principio di diritto: “Il D.Lgs. 21 aprile 1993, n. 124, art. 10 (Disciplina delle forme pensionistiche complementari, a norma della L. 23 ottobre 1992, n. 421, art. 3, comma 1, lett. v) si applica anche ai fondi pensionistici preesistenti all’entrata in vigore della Legge Delega (15 novembre 1992), quali che siano le loro caratteristiche strutturali e quindi non solo ai fondi a capitalizzazione individuale, ma anche a quelli a ripartizione o a capitalizzazione collettiva”;

che, le stesse Sezioni Unite hanno osservato che, quando il legislatore è intervenuto nel 1992-93, introducendo il principio della portabilità in caso di cessazione dei requisiti di partecipazione ai fondi, era pienamente consapevole che la novella avrebbe coinvolto in gran parte sia i fondi a ripartizione che quelli a capitalizzazione collettiva, quale era la gran parte dei fondi preesistente alla riforma;

che, ciò nonostante, non li ha esclusi dall’immediata applicazione della nuova disciplina sulla riscattabilità e portabilità, nè ha previsto deroghe o distinzioni di qualsivoglia genere tra le varie forme di previdenza complementare;

che, tale assunto ermeneutico trova significativa corrispondenza nella fondamentale distinzione concettuale esistente tra la nozione di “posizione previdenziale individuale” e quella di “conto individuale”, poichè la prima è il risultato dei versamenti effettuati dal datore di lavoro e dal dipendente, mentre il conto individuale è concetto attinente alla modalità di gestione del patrimonio del fondo;

che, tale opzione interpretativa appare conforme alla ratio del D.Lgs. n. 124 del 1993, art. 10, ratio consistente nel garantire al lavoratore i più elevati livelli di copertura previdenziale;

che, la scelta operata dal legislatore nella “subiecta materia” trova razionale spiegazione nel profondo mutamento intervenuto nel paradigma occupazionale in conseguenza della globalizzazione del mercato del lavoro;

che, tale novità ha determinato una crescente mobilità occupazionale, con l’affermarsi, sul versante previdenziale, della correlata necessità di predisporre strumenti normativi idonei ad attenuare per il lavoratore gli effetti negativi della frammentazione dell’attività lavorativa;

che, i principi sopra richiamati della pronuncia delle Sezioni Unite n. 477 del 2015, sono stati confermati e consolidati sul piano della legittimità da ulteriori pronunce (ex plurimis, Cass. n. 3964 del 2016, Cass. n. 3965 del 2016);

che, questo Collegio non ha motivo per dissentire o discostarsi dall’orientamento giurisprudenziale formatosi nella materia de qua;

che, quanto dedotto sul punto dalla ricorrente non fornisce utili elementi di segno contrario;

che, con riferimento al secondo motivo va richiamato un orientamento consolidato di questa Corte (Cass. n. 20717 del 2015 e 20526 del 2015), formatosi su fattispecie del tutto analoghe a quella in trattazione, secondo il quale la soluzione al problema che qui occupa, e relativo all’applicabilità del cumulo degli interessi e della rivalutazione al credito maturato dal lavoratore con riguardo alle somme versate nei fondi integrativi, non può trovare soluzione, semplicemente, nelle differenze sussistenti tra la previdenza obbligatoria (ex lege) e la previdenza integrativa o complementare (ex contractu), o nella natura retributiva o previdenziale dei versamenti effettuati in favore dei fondi di previdenza (problematica, peraltro, non più in discussione a partire dalla sentenza del 9 marzo 2015, n. 4684 delle Sezioni Unite di questa Corte, che ha ribadito il carattere previdenziale dei versamenti effettuati a favore dei fondi di previdenza integrativa o complementare), e, pertanto, su tale ultimo punto va corretta la motivazione fornita dalla Corte territoriale in merito alla natura retributiva o previdenziale dei versamenti corrisposti sui fondi di previdenza in conformità a quanto pronunciato sul tema dalla richiamata pronuncia delle S.U. n. 4684 del 2015;

che, invece, la questione trova coerente soluzione nel duplice dato letterale contenuto nella L. 30 dicembre 1991, n. 412, art. 16, comma 6, nella parte in cui prevede, nel primo periodo, l’obbligo per “gli enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria” di pagare gli interessi legali in caso di ritardo, oltre il termine fissato dalla legge, nell’adempimento delle “prestazioni dovute”, disposizione, quest’ultima che costituisce il presupposto per la statuizione contenuta nel secondo periodo, ossia per l’operatività del divieto di cumulo tra interessi e rivalutazione monetaria;

che, il primo dato ricavabile dalla relativa formulazione della norma è riferibile a prestazioni erogate da “enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria”, e, di conseguenza,il debitore va individuato non già in un qualsiasi soggetto, persona fisica o giuridica, qualunque sia la natura di quest’ultima, ma in uno di quegli enti pubblici non economici ai quali la legge attribuisce una funzione di previdenza nei confronti di determinate categorie di soggetti (ritenuti meritevoli di tutela ai sensi dell’art. 38 Cost. – così, Cass. Sez. Un., n. 14617 del 2002);

che, il secondo dato è costituito, dalla natura della prestazione, infatti, il riferimento, quanto alla decorrenza degli interessi, alla “data di scadenza del termine previsto per l’adozione del provvedimento sulla domanda”, induce ad interpretare la norma nel senso che le prestazioni debbono essere individuate in quelle erogate previa domanda dell’interessato, caratteristica questa che accede (soltanto) alle obbligazioni pecuniarie aventi natura previdenziale, e non anche a quelle aventi natura retributiva: solo i crediti previdenziali, in effetti, possono essere fatti valere dagli interessati, di norma, solo dopo che sia stata proposta un’apposita domanda all’ente di competenza e dopo che sia decorso un certo lasso temporale dalla medesima, mentre i crediti c.d. di lavoro e la relativa obbligazione sono esigibili nel momento stesso in cui matura il diritto;

che, di conseguenza, le prestazioni cui deve applicarsi il disposto della L. n. 412 del 1991, art. 16, non possono che essere, quelle riferentesì a crediti previdenziali vantati dagli assicurati nei confronti degli enti gestori delle forme di previdenza obbligatoria (Cass. Sez. Un. n. 14617/2002 – Cass. 21 ottobre 1997, n. 10355);

che, pertanto, avuto conto della natura privatistica del Fondo di previdenza della SICILCASSA S.p.a., e che le relative prestazioni non rientrano tra quelle a carattere obbligatorio, deve ritenersi non applicabile al caso di specie la citata Legge, art. 16, comma 6;

che, di conseguenza, al di là della natura previdenziale del trattamento pensionistico integrativo del Fondo, e della peraltro, errata qualificazione della natura retributiva del credito ammesso allo stato passivo, come operata dalla Corte territoriale, il divieto di cumulo d’interessi e rivalutazione monetaria deve intendersi riferibile, esclusivamente, ai crediti previdenziali vantati verso gli enti gestori di previdenza obbligatoria, e non è pertanto applicabile alle prestazioni pensionistiche integrative dovute dal datore di lavoro;

che, parimenti infondato s’appalesa il terzo motivo di ricorso;

che, la fattispecie in disamina non ha come disciplina di riferimento il D.Lgs. n. 385 del 1993, art. 90, comma 2 (T.U.B.), invocato dalla ricorrente, bensì gli artt. 59 e 201 L. Fall.;

che, in particolare, questa Corte ha già avuto modo di ribadire (Cass., n. 18894 del 2010), l’applicabilità, giusta disposizione dell’art. 201 L. Fall., alla procedura di liquidazione coatta amministrativa, di tutta la disciplina contenuta nel titolo 2^, capo 3^, sez. 2^, della detta legge;

che, il rinvio de quo, deve intendersi operato al testo della citata L.F., art. 59, come modificato per effetto della declaratoria di incostituzionalità (Corte Cost., sentenza n. 204 del 1989) nella parte in cui detta norma non prevedeva la rivalutazione dei crediti di lavoro, in generale, con riguardo al periodo successivo alla dichiarazione di fallimento e fino al momento in cui lo stato passivo divenga definitivo;

che, la ratio della L.F., art. 59, quale risulta dalla sentenza additiva n. 204 del 1989 del giudice delle leggi è, in riferimento al dato temporale, quella di riconoscere la rivalutazione del credito fino al momento della definitiva quantificazione dello stesso nell’ambito di un contesto di accertamento unitario che non determina attenuazione della par condicio creditorum in ragione dí diverse scadenze della rivalutazione dei crediti ammessi;

che, il diverso articolarsi della procedura di verifica del passivo nella liquidazione coatta amministrativa rispetto al fallimento non giustifica una diversa determinazione della data di riferimento terminale della rivalutazione dei crediti (cfr. Cass., 25 ottobre 2002 n. 15059);

che, pertanto, alla luce delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere respinto, e le spese del presente giudizio di cassazione liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del cit. art. 13, comma 1 bis.

PQM

La Corte rigetta il ricorso, condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3500,00, per compensi professionali,oltre esborsi per Euro 200,00 e spese generali al 15%, oltre agli accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della società ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso.

Così deciso in Roma, nella udienza camerale, il 16 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2017

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