Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25953 del 24/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 24/09/2021, (ud. 03/02/2021, dep. 24/09/2021), n.25953

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. FALASCHI Milena – rel. Consigliere –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

Dott. GIANNACCARI Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28296-2019 proposto da:

B.W., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GUALTIERO

SERAFINO 8, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO VITTUCCI, che la

rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

T.V., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA LIVORNO 6,

presso lo studio dell’avvocato GUIDO DE SANTIS, che la rappresenta e

difende;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 3350/2019 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 20/05/2019;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio non

partecipata del 03/02/2021 dal Consigliere Relatore Dott. MILENA

FALASCHI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA E RAGIONI DELLA DECISIONE

Il Tribunale di Roma, con sentenza n. 7908 del 2012, rigettata la domanda di esecuzione in forma specifica ex art. 2932 c.c., formulata da B.W. in qualità di promissaria acquirente nei confronti di T.V., e in accoglimento di quella riconvenzionale, dichiarava la risoluzione del contratto preliminare di compravendita concluso tra le stesse parti a causa del grave inadempimento dell’attrice e per l’effetto condannava quest’ultima al risarcimento dei danni liquidati in Euro 3.000.

In virtù dell’impugnazione interposta dalla B., la Corte di appello di Roma, nella resistenza dell’appellata, con sentenza n. 3350 del 2019, in parziale accoglimento dell’appello e in parziale riforma della sentenza gravata, respingeva la domanda riconvenzionale di risarcimento dei danni e, confermata per il resto la sentenza di primo grado, rideterminava la spese di giudizio.

Avverso la sentenza della Corte di appello di Roma B.W. propone ricorso per cassazione fondato su tre motivi, cui resiste T.V. con controricorso.

Ritenuto che il ricorso potesse essere respinto, con la conseguente definibilità nelle forme di cui all’art. 380-bis c.p.c., in relazione all’art. 375 c.p.c., comma 1, n. 5), su proposta del relatore, regolarmente comunicata alle parti, il presidente ha fissato l’adunanza della camera di consiglio

Atteso che:

– in via preliminare occorre rilevare che la copia della sentenza di secondo grado depositata dalla ricorrente è incompleta in quanto priva di pagina 12.

A tal proposito è bene ricordare che l’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 2, prevede, a pena di inammissibilità, il deposito, unitamente al ricorso, della copia autentica della sentenza o della decisione impugnata. Tale prescrizione, che concerne la sentenza nella sua interezza, non può formalmente ritenersi adempiuta quando viene depositata una copia non completa.

Tuttavia, al deposito di copia incompleta della sentenza impugnata non sempre consegue indefettibilmente l’improcedibilità del ricorso per cassazione. Difatti, la giurisprudenza di questa Corte afferma che “in tema di ricorso per cassazione il deposito di una copia incompleta, benché autentica, della sentenza impugnata non è causa di improcedibilità del ricorso stesso se, per il principio dell’idoneità dell’atto al raggiungimento dello scopo, sancito dall’art. 156 c.p.c., comma 3, esso sia tempestivo e l’impugnazione possa essere scrutinata sulla base della pur incompleta copia prodotta perché l’oggetto, cui la prima si riferisce, è interamente desumibile dalla parte di sentenza risultante da tale copia” (Cass., Sez. Un., n. 19675 del 2016).

E’ quindi consentito applicare “il principio, proprio del sistema delle nullità, dell’idoneità dell’atto, carente del requisito formale al raggiungimento dello scopo suo proprio nonostante la carenza formale, purché detta idoneità emerga sempre all’interno dell’atto di cui trattasi e, dunque, senza dover ricorre ad atti o comportamenti aliunde ed inoltre e soprattutto purché risulti rispettato il limite temporale entro il quale l’adempimento doveva effettuarsi pena l’improcedibilità” (sempre Cass., Sez. Un., n. 19675 del 2016 cit.).

Nella specie, le condizioni anzidette risultano rispettate, giacché l’impugnazione può essere scrutinata sulla base della pur incompleta copia della sentenza prodotta, atteso che il contenuto della stessa si desume dagli altri atti depositati dalle parti ed in particolare dal raffronto del ricorso e del controricorso laddove sono riportati interi passi della sentenza.

L’impugnazione è dunque procedibile;

– venendo al merito del ricorso, con il primo motivo viene denunciata la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2932 e 1362 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Ad avviso della ricorrente il giudice di appello avrebbe interpretato i comportamenti dei contraenti senza concentrarsi sulla comune intenzione delle parti e senza nemmeno considerare il comportamento complessivo tenuto delle stesse anche in epoca posteriore alla conclusione del contratto, violando così le regole di cui all’art. 1362 e ss. c.c..

Il motivo è inammissibile.

Va osservato che secondo costante giurisprudenza di questa Corte, “l’interpretazione di un atto negoziale, mirando a determinare una realtà storica e obiettiva, è tipico accertamento in fatto istituzionalmente riservato al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità, se non nelle ipotesi di violazione dei canoni legali di ermeneutica contrattuale, di cui all’art. 1362 e ss. c.c., o di motivazione inadeguata ovverosia non idonea a consentire la ricostruzione dell’iter logico seguito dal giudice di merito per giungere alla decisione. Pertanto (…) il ricorrente non solo deve fare puntuale riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione dei canoni asseritamene violati e ai principi in esse contenuti, ma è tenuto altresì a precisare in qual modo e con quali considerazioni il giudice di merito se ne sia discostato. Di conseguenza, non è ammissibile la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che, dedotta sotto il profilo della violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, si risolva in realtà nella proposta di un’interpretazione diversa” (v. in termini Cass. n. 22536 del 2007).

Nella specie, la doglianza si traduce in una mera critica alla motivazione contenuta nella sentenza impugnata, intesa a far valere una diversa e più favorevole interpretazione dei fatti, conforme al convincimento della ricorrente.

Difatti, il giudice del gravame non ha violato il disposto di cui all’art. 1362 c.c., avendo fondato la decisione proprio sul comportamento tenuto dalle parti, sia antecedente che posteriore alla stipula del preliminare. In particolare, ha desunto il disinteresse della ricorrente alla stipula del rogito dalla “latitanza” della stessa – data la mancata risposta alle diffide inviate da controparte dopo la scadenza del termine per rogitare – in un periodo in cui avrebbe dovuto sollecitare la Banca mutuante ai fini della concessione del mutuo e rassicurare la controparte circa la celere fissazione della data per la stipula del contratto definitivo.

Ebbene, sulla base di tali accertamenti, insindacabili in questa sede, la Corte territoriale ha confermato la risoluzione del contratto preliminare per grave inadempimento della B.;

– con il secondo motivo è dedotta la violazione o la falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., nonché degli artt. 232 e 948 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente lamenta la mancata ammissione delle prove orali articolate nei propri scritti difensivi sostenendo che il giudice di appello avrebbe non solo fatto malgoverno delle risultanze istruttorie, ma anche insufficientemente motivato l’esclusione di un ulteriore approfondimento istruttorio. Il giudice, secondo la ricorrente, si sarebbe pertanto limitato ad utilizzare atti di una delle parti senza procedere ad un obiettivo rilievo della situazione di fatto, fondando così il proprio convincimento su documenti illegittimi, quali le diffide tardive.

Anche il secondo motivo è inammissibile.

Secondo la giurisprudenza di questa Corte, rientra nella discrezionalità del giudice di merito il potere di non ammettere prove chieste dalla parte, qualora i fatti risultino accertati a sufficienza e le prove richieste appaiano inidonee a vanificare anche solo parzialmente detto accertamento (cfr. Cass. n. 15502 del 2009).

Per giunta, va osservato che il ricorso per cassazione non conferisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare l’intera vicenda processuale, ma solo la facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, al quale spetta in via esclusiva il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di controllarne l’attendibilità e di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti, dando così prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge (Cfr. Cass. n. 331 del 2020; Cass. n. 7523 del 2017; Cass. n. 24679 del 2013; Cass. n. 27197 del 2011).

Nella specie, la Corte di merito ha espressamente motivato le ragioni per le quali ha ritenuto ininfluenti e inammissibili le prove orali articolate dalla B., considerandole inidonee a provare la non imputabilità dell’inadempimento addebitato alla stessa per essersi resa irreperibile nonostante le diffide inviate dalla T. nonché per essere venuta meno all’obbligo di fissare la data del rogito.

Si tratta di argomentazioni logiche a fondare il convincimento del giudice e non censurabili in cassazione risolvendosi nella sostanza in censure alle valutazioni di merito;

– con il terzo motivo la ricorrente denuncia l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

La ricorrente lamenta la mancata considerazione da parte del giudice di merito di un fatto a suo avviso decisivo e fondamentale per il giudizio, dato dalla consapevolezza della promittente venditrice che il rogito era stato rinviato a data da destinarsi e che il decorso infruttuoso del termine era imputabile alla Banca e non alla promissaria acquirente.

Pure siffatto motivo è inammissibile.

Va ribadito il principio di diritto enunciato da questa Corte secondo il quale “La riformulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, disposta con il D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, convertito con modificazioni, dalla L. 7 agosto 2012, n. 134, secondo cui è deducibile esclusivamente “l’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti” deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall’art. 12 preleggi, come riduzione al minimo costituzionale del sindacato sulla motivazione denunciabile in sede di legittimità, per cui l’anomalia motivazionale denunciabile in sede di legittimità è solo quella che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante e attiene all’esistenza della motivazione in sé, come risulta dal testo della sentenza e prescindendo dal confronto con le risultanze processuali, e si esaurisce, con esclusione di alcuna rilevanza del difetto di “sufficienza”, nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile fra affermazioni inconciliabili”, nella motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” ” (Cass., Sez. Un., n. 8053 del 2014).

Pertanto, il controllo previsto dall’art. 360 c.p.c., nuovo n. 5, concerne “l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia)” (sempre Cass., Sez. U., n. 8053/2014 cit.)

Ne consegue che il ricorrente deve indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, e all’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato” testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il “come” e il “quando” tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti e la sua “decisività”, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in casa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (ancora Cass. Sez. Un., n. 8053/2014 cit.).

Nella specie, la ricorrente, pur denunciando l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti – ossia che la T. fosse a conoscenza del rinvio del rogito a data da destinarsi – in realtà deduce, con articolazione peraltro estremamente generica, un vizio di motivazione non coerente con il paradigma attualmente vigente ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 c.p.c., limitandosi ad indicare genericamente il fatto pretermesso, dimostrando di aspirare in realtà ad una nuova valutazione dei fatti non ammissibile in sede di legittimità a fronte di ampie argomentazioni dei giudici di merito sul ritenuto disinteresse della promissaria acquirente alla stipula del contratto definitivo.

In conclusione il Collegio reputa che il ricorso sia inammissibile.

Le spese processuali, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.

Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013 ed è rigettato, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi della L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato – Legge di stabilità 2013), che ha aggiunto al testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, il comma 1-quater – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per la stessa impugnazione, se dovuto.

PQM

La Corte dichiara inammissibile il ricorso;

condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente che vengono liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre alle spese forfettarie e agli accessori previsti come per legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13 comma 1-quater inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della VI-2 Sezione Civile, il 3 febbraio 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2021

 

 

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