Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25946 del 05/12/2011

Cassazione civile sez. I, 05/12/2011, (ud. 21/09/2011, dep. 05/12/2011), n.25946

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PLENTEDA Donato – Presidente –

Dott. MACIOCE Luigi – Consigliere –

Dott. di VIRGILIO Biagio – Consigliere –

Dott. CRISTIANO Magda – Consigliere –

Dott. DE CHIARA Carlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso n. 21123/2006 R.G. proposto da:

D.M.P., C.F. (OMISSIS) rappresentato e difeso,

giusta procura speciale a margine del ricorso, dal prof. avv. BOVE

LUCIO ed elett.te dom.to in Roma, Via Crescenzio n. 103, presso lo

studio legale associato avv.ti Guido e Romano Pomarici;

– ricorrente –

contro

Popolare di Salerno s.p.a., in persona del presidente del consiglio

di amministrazione prof. P.R., rappresentata e difesa,

giusta procura speciale a margine del controricorso, dall’avv. prof.

SANDULLI MICHELE ed elett.te dom.ta presso lo studio del medesimo in

Roma, Via XX Settembre n. 3;

– controricorrente –

e contro

D.M.L., D.M.A., F.L., DE.

A.C., DE.VO.Pa.;

– intimati –

e sul ricorso n. 25580/2006 proposto da:

F.L. C.F. (OMISSIS), D.M.L., D.

M.A., DE.VO.Pa., rappresentati e difesi,

giusta procura a margine del controricorso, dal prof. avv. Giuseppe

Olivieri ed elett.te dom.ti in Roma, Via Cola di Rienzo n. 149,

presso lo studio dell’avv. Sergio Fidenzio;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

contro

D.M.P.; BANCA DELLA CAMPANIA; DE.AN.Ca.;

– intimati –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 1612/2005,

depositata il 26 maggio 2005;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21

settembre 2011 dal Consigliere Dott. Carlo DE CHIARA;

udito per il ricorrente principale il prof. avv. Lucio BOVE;

per la controricorrente l’avv. NARDONE, per delega;

udito per i controricorrenti e ricorrenti incidentali il prof. avv.

Giuseppe OLIVIBRI;

udito il P,M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.ssa

ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso

principale e l’accoglimento per quanto di ragione del ricorso

incidentale.

Fatto

SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con citazione del gennaio 1994 il sig. D.M.P. convenne davanti al Tribunale di Avellino la Banca Popolare dell’Irpinia s.p.a. (d’ora in avanti semplicemente Banca dell’Irpinia), che aveva incorporato la Banca Popolare Cooperativa tra i Commercianti di Aversa (d’ora in avanti Banca di Aversa). L’attore, sulla premessa che le sue azioni erano state, con delibera 9 novembre 1973 del consiglio di amministrazione della Banca di Aversa, trasferite ad altre persone, senza previo accordo delle parti, e che con sentenza passata in giudicato era stata dichiarata la nullità del trasferimento nonchè dei certificati azionari e di tutti gli atti connessi e conseguenziali, chiese condannarsi la banca convenuta alla restituito in integrum, al pagamento di ogni somma a lui spettante e al risarcimento del danno.

La convenuta si difese contestando la propria responsabilità per l’illecito commesso dagli ex amministratori della banca incorporata e, in subordine, chiamò questi ultimi in garanzia.

A seguito della chiamata si costituirono pertanto i sigg. D.M. L. e A. e F.L., eredi del sig. D. M.D., già amministratore della predetta banca, nonchè i sigg. De.An.Ca. e De.Vo.Pa., pure facenti parte del consiglio di amministrazione. Tutti eccepirono la prescrizione e invocarono, tra l’altro, la concorrente responsabilità della banca, tenuta al risarcimento in virtù del rapporto organico che la legava ai suoi amministratori, nonchè la colpa della Banca dell’Irpinia, che aveva corrisposto il valore delle azioni dell’attore a persone diverse pur essendo al corrente della pendenza del giudizio di nullità della delibera consiliare di trasferimento dei titoli in loro favore.

Il Tribunale condannò gli amministratori (per l’esattezza, D. M.L. e A. e F.L., quali eredi di D.M.D., nonchè il De.An. e il De.Vo.) al rimborso, in favore dell’attore, del corrispettivo delle azioni sottrattegli, oltre al risarcimento del danno da liquidarsi in separato giudizio; escluse la responsabilità della banca per l’illecito commesso dai propri amministratori, avendo questi tenuto un comportamento illegale ed arbitrario in materia del tutto sottratta alla loro competenza; respinse l’eccezione di prescrizione degli amministratori, essendovi stata interruzione ai sensi degli artt. 2943 e 2945 c.c.; escluse la responsabilità della Banca dell’Irpinia per aver pagato il valore delle azioni ai nuovi intestatari delle stesse, dato che il pagamento era stato eseguito in favore dei soci come risultanti dai libri sociali.

La sentenza di primo grado è stata confermata dalla Corte di Napoli, che ha respinto sia l’appello principale dell’attore D.M. P., il quale invocava la responsabilità anche della banca, sia gli appelli incidentali di quest’ultima e dei sigg. D.M. L. e A..

Per quanto ancora rileva, la Corte ha ritenuto, in ordine alle doglianze dell’appellante principale D.M.P.:

– che la banca non rispondeva dell’illecito dei suoi amministratori, sia perchè vi era stata interruzione del rapporto organico attesa l’assoluta incompetenza e l’abusività della delibera degli amministratori stessi; sia perchè l’illecito era stato consumato a danno direttamente di un socio e non di terzi;

– che la questione della responsabilità della Banca dell’Irpinia per aver liquidato le quote societarie ai soci cui erano state trasferite nonostante la pendenza del giudizio sul trasferimento disposto dal consiglio di amministrazione, su cui l’appellante si era soffermato nelle difese conclusionali, non era stata dedotta con l’atto di citazione in appello e dunque non costituiva motivo di gravame;

– che neppure poteva essere esaminata la domanda di reintegrazione del D.M. nello status di socio della Banca dell’Irpinia, subentrata alla Banca di Aversa, dato che su di essa il Tribunale aveva omesso di pronunciare e l’appellante, anzichè impugnare la sentenza di primo grado per omessa pronuncia, si era limitato a riproporre la domanda, quasi si trattasse di domanda assorbita.

In ordine all’appello incidentale di D.M.L. e A., la Corte ha poi affermato:

– che il terzo motivo, riguardante l'”improponibilità dell’azione di garanzia” e contenente doglianze analoghe a quelle dell’appello principale, era da rigettare per le stesse ragioni per cui era stato respinto quest’ultimo;

– che neppure meritava accoglimento la riproposizione dell’eccezione di prescrizione, dato che l’attore D.M.P. non aveva inteso proporre azione di responsabilità contro gli amministratori, e questi ultimi, del resto, avevano opposto la prescrizione solo all’azione di garanzia o rivalsa della banca; sicchè il Tribunale, condannando gli appellanti incidentali, era incorso nel vizio di extrapetizione, tuttavia non denunciato da quelli, con conseguente formazione del giudicato sulla loro condanna al risarcimento, mentre l’eccezione di prescrizione sollevata sulla domanda di garanzia o rivalsa della banca restava assorbita nel rigetto della domanda proposta dall’attore nei confronti della banca stessa.

Il sig. D.M.P. ha quindi proposto ricorso per cassazione per due motivi, cui la Banca della Campania s.p.a., nella quale si è fusa la Banca dell’Irpinia, ha resistito con controricorso. I sigg.

F.L., D.M.L., D.M.A. e D.V.P. hanno a loro volta presentato controricorso contenente anche ricorso incidentale per tre motivi. Tutte le parti predette hanno anche presentato memorie.

Diritto

MOTIVI DELLA DECISIONE

1. – I ricorsi principale e incidentale vanno previamente riuniti ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

2. – Con il primo motivo del ricorso principale, denunciando violazione di norme di diritto, si censura l’esclusione della responsabilità della banca per l’operato dei suoi amministratori. Il ricorrente contesta entrambe le ragioni della decisione della Corte d’appello, negando sia l’asserita interruzione del rapporto organico fra amministratori e società, sia l’asserita non configurabilità di una responsabilità della società nei confronti del socio.

2.1. – Entrambe le censure sono fondate.

2.1.1. – La società e in genere le persone giuridiche e gli enti collettivi rispondono civilmente degli illeciti commessi dai loro organi nell’esercizio delle loro funzioni: questa è la regola derivante dall’immedesimazione organica – comunemente riconosciuta in dottrina e in giurisprudenza – delle persone fisiche, titolari dell’organo, nell’ente, che fa sì che l’agire delle prime costituisca agire dell’ente stesso.

La Corte d’appello non contesta la teoria organica, ma ritiene che nella specie il rapporto organico si sia “interrotto”. Argomenta dalla giurisprudenza di legittimità formatasi in tema di responsabilità della pubblica amministrazione, affermando che in base ad essa l’interruzione del rapporto organico si verificherebbe allorchè le persone fisiche abbiano agito “con dolo o al di fuori dei poteri che la legge ad esse conferisce”. E proprio questo si sarebbe verificato nel nostro caso, dato che la delibera del consiglio di amministrazione “non solo escludeva alcuni soci attraverso l’intestazione delle azioni di loro proprietà ad altri soci (in sostanza una vera e propria espropriazione), ma era stata assunta – trattandosi di società cooperativa, v, art. 2521 c.c. – da organo assolutamente incompetente, posto che l’esclusione del socio – quando non ha luogo di diritto – deve essere deliberata dall’assemblea. E’ allora evidente l’abuso di potere insito nella decisione degli amministratori della Banca di Aversa con un comportamento che solo occasionalmente si ricollega al potere di gestione loro conferito”.

Del pari richiamandosi alla giurisprudenza di legittimità, la controricorrente Banca della Campania osserva che, per aversi responsabilità dell’ente, occorra che l’agente abbia esercitato, ancorchè in maniera abusiva, un potere volto al conseguimento dei fini istituzionali dell’ente stesso, ossia, per le società, al conseguimento dell’oggetto sociale; invece l’esclusione del socio è atto del tutto estraneo sia ai poteri degli amministratori (ai sensi dell’art. 2527, cit.), sia ai fini della società.

Anche il ricorrente si richiama alla giurisprudenza di legittimità, per giungere, però, a conclusioni diametralmente opposte.

2.1.2 – Le questioni relative alla riferibilità all’ente morale delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi sono state affrontate, specie in giurisprudenza, essenzialmente con riguardo alla responsabilità della pubblica amministrazione, con esiti ritenuti espressione, per lo più, di principi validi anche per le persone giuridiche o enti collettivi privati.

E’ dunque opportuno rifarsi a questa giurisprudenza – in particolare di legittimità – come del resto concordemente fanno sia le parti, sia i giudici di merito.

Va allora anzitutto precisato che – a dispetto di quanto si legge nella sentenza impugnata – la giurisprudenza di questa Corte ormai da lungo tempo (a cominciare da Cass. Sez. Un. 2980/1967) nega che il dolo dell’agente interrompa il rapporto organico e impedisca la riferibilità dell’atto all’ente. L’orientamento consolidatosi nel corso degli anni può essere riassunto A f nella massima richiamata sia dal ricorrente che dalla controricorrente: “Affinchè ricorra responsabilità della p.a. per un fatto lesivo posto in essere dal proprio dipendente – responsabilità il cui fondamento risiede nel rapporto di immedesimazione organica – deve sussistere, oltre al nesso di causalità fra il comportamento e l’evento dannoso, anche la riferibilità all’amministrazione del comportamento stesso, la quale presuppone che l’attività posta in essere dal dipendente sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico, e cioè tenda, pur se con abuso di potere, al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto; tale riferibilità viene meno, invece, quando il dipendente agisca come un semplice privato per un fine strettamente personale ed egoistico che si riveli assolutamente estraneo all’amministrazione – o addirittura contrario ai fini che essa persegue – ed escluda ogni collegamento con le attribuzioni proprie dell’agente, atteso che in tale ipotesi cessa il rapporto organico fra l’attività del dipendente e la p.a.” (Cass. 3980/2003 e successive – da ult. Cass. 8306/2011 – conformi).

Anche l’eventualità dell’abuso di potere – cui la sentenza impugnata fa riferimento – è dunque irrilevante. Essenziale è, invece, che l’attività dell’organo (il riferimento al “dipendente”, nella giurisprudenza in esame, non deve trarre in inganno, pacifico essendo comunque che ci si riferisce al rapporto organico) “sia e si manifesti come esplicazione dell’attività dell’ente pubblico”, vale a dire “tenda al conseguimento dei fini istituzionali di questo nell’ambito delle attribuzioni dell’ufficio o del servizio cui il dipendente è addetto”.

Nè quest’ultimo requisito è escluso dalla mera incompetenza dell’organo, come in definitiva assume la Corte d’appello nell’evidenziare che la condotta illecita era consistita nella sostanziale esclusione del socio, rientrante nella competenza dell’assemblea della cooperativa, ai sensi dell’art. 2527 c.c., e non del consiglio di amministrazione.

L’irrilevanza della mera incompetenza dell’organo agente, ai fini della riferibilità dell’atto all’ente, è affermata in un remoto ma mai smentito precedente di questa Corte, la sentenza n. 1142 del 1963, per la quale la responsabilità diretta dell’ente sussiste “qualora sussista (…) il rapporto organico tra la persona fisica del funzionario (…) e la pubblica Amministrazione (…) e l’esplicazione del comportamento dannoso costituisca formalmente l’esercizio delle funzioni proprie dell’ufficio, cui il funzionario è preposto, anche se poi, in effetti, superi la sfera di competenza dell’organo, perchè l’osservanza delle norme di competenza è condizione di legittimità dell’atto o del comportamento dell’Amministrazione, e non della semplice riferibilità all’Amministrazione dell’atto o del comportamento dannoso di un suo organo”.

L’apparente contraddizione – rilevata da qualche commentatore del precedente in esame – tra l’irrilevanza dell’incompetenza e la necessità dell’esercizio delle “funzioni proprie dell’ufficio, cui il funzionario è preposto”, si supera dando della parola “ufficio” una interpretazione ampia, come sinonimo di plesso organizzatorio in genere, ossia di “amministrazione”, perchè la tesi in questione presuppone la distinzione, nota alla dottrina amministrativistica, tra “incompetenza assoluta” o “difetto di attribuzione”, che ricorre allorchè sia stato travalicato l’ambito della sfera attribuita alla signoria del complesso organizzatorio di cui l’organo fa parte (sia esso un ente, un ministero o un articolato sistema di uffici o enti), e mera incompetenza o incompetenza “relativa”, che ricorre nel caso di esercizio di un potere attribuito ad altro organo del medesimo plesso: la prima considerata causa di inesistenza dell’atto amministrativo, la seconda di mera illegittimità.

Non a caso la sentenza impugnata avverte la necessita di parlare di “incompetenza assoluta” del consiglio di amministrazione per escludere la riferibilità della sua delibera alla banca; ma incongruamente, visto che la competenza viene riconosciuta ad altro organo della società – l’assemblea.

La banca accenna, nel controricorso, anche alla non riferibilità a sè dell’illecito per l’estraneità del medesimo ai fini sociali, e precisa in proposito, nella memoria, che gli amministratori avevano agito e-sclusivamente “per propri (illeciti) interessi tendenti ad espropriare i titolari delle partecipazioni sociali a favore di soggetti loro prestanomi o comunque con loro concorrenti nell’illecito”. Si tratta, però, di considerazioni che – a prescindere dal merito – non possono trovare ingresso in questa sede, presupponendo esse accertamenti in fatto non contenuti nella sentenza impugnata.

2.1.3. – Nè può ammettersi che non sarebbe configurabile una responsabilità della società per l’illecito degli amministratori che rechi danno direttamente al socio.

Difetterebbe in tal caso – secondo la Corte d’appello, che richiama anche Cass. 183/1987 – la contrapposizione fra società e terzo, trattandosi di conflitto interno alla società stessa, ossia fra la sua maggioranza – della quale sono espressione gli amministratori, la cui esclusiva responsabilità non è nascosta dal “velo” della personalità giuridica – e il socio danneggiato; onde sarebbe illogico e ingiusto che la società rispondesse con il proprio patrimonio nei confronti di chi a quel patrimonio partecipa prò quota, quando il danno non solo riguarda il patrimonio del singolo socio, ma è l’effetto di una condotta senza ricadute sul patrimonio sociale posta in essere dall’organo gestorio al di fuori dei poteri conferitigli dalla legge o dallo statuto.

2.1. A. – Questo ragionamento non può essere condiviso.

La società è soggetto diverso dai soci che la compongono, in ciò sostanziandosi il fenomeno della personalità giuridica, e non vi è nessuna ragione per superare le implicazioni di tale fenomeno allorchè si tratti di responsabilità da fatto illecito commesso dagli amministratori direttamente a danno del socio. Riferire in tal caso il conflitto direttamente alla maggioranza societaria è del tutto arbitrario, perchè il rapporto organico degli amministratori intercorre sempre con la società e non con i suoi soci di maggioranza.

L’argomento dalla “illogicità” e “ingiustizia” di una responsabilità della società nei confronti del socio in considerazione della partecipazione di quest’ultimo al patrimonio sociale, prova troppo, perchè dovrebbe allora coerentemente negarsi la configurabilità di qualsiasi obbligazione, anche da atto lecito, della società – che sempre con quel patrimonio ne risponderebbe – nei confronti del socio.

Se, poi, tale argomento tende a sottolineare la fondamentale e prioritaria responsabilità degli amministratori, in quanto effettivi autori dell’illecito, può essere agevolmente superato ricordando che la società ha diritto di rivalersi nei loro confronti.

Deve dunque affermarsi che con la responsabilità personale degli amministratori nei confronti del socio, ai sensi dell’art. 2395 c.c., concorre, ai sensi delle regole generali, quella della società.

Questa affermazione, non proprio inedita nella giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 441/1966, 5011/1977, 4817/1988), è contraddetta da Cass. 183/1987, richiamata nella sentenza impugnata.

Tale remoto (e invero isolato) precedente argomenta l’esclusione della terzietà del socio rispetto alla società, e dunque l’esclusione della responsabilità di quest’ultima nei suoi confronti, dalla compartecipazione del socio stesso all’amministrazione, in senso lato, dell’ente, che si esprime attraverso la partecipazione all’assemblea. L’argomento però non può essere condiviso, perchè finisce col negare la stessa distinzione soggettiva – fondamentale nella teoria della personalità giuridica – fra ente associativo e persone fisiche che lo compongono.

3. – Con il secondo motivo del ricorso principale, denunciando violazione di norme di diritto, omissione di pronuncia e vizio di motivazione, vengono censurate le statuizioni con cui la Corte d’appello ha escluso di doversi pronunciare su altri capi di domanda in quanto: a) la domanda di responsabilità della Banca dell’Irpinia per aver liquidato in favore di altri soci le quote spettanti all’attore pur sapendo che pendeva giudizio per l’annullamento del loro acquisto, non era stata dedotta nella citazione in appello; b) la domanda di reintegrazione dello status di socio non era stata esaminata dal Tribunale, e l’attore non aveva censurato la relativa sentenza per omissione di pronuncia, ma a-veva solo riproposto la domanda, quasi fosse stata ritenuta assorbita dal giudice.

3.1. – Le censure al riguardo articolate nel ricorso non possono trovare accoglimento.

Quanto alla statuizione sub a), il ricorrente si limita ad affermare, apoditticamente, che la Corte d’appello aveva il dovere di pronunziare sulla domanda in questione. Il che è errato perchè il giudice d’appello non può d’ufficio pronunciare su una domanda non riproposta davanti a lui.

Quanto alla statuizione sub b), il ricorrente sostiene che in realtà il Tribunale non aveva omesso di pronunziarsi, ma aveva implicitamente rigettato quella domanda, e l’appellante non aveva dunque onere di impugnazione specifica. La censura è, prima che infondata, inammissibile per genericità quanto alla illustrazione del presupposto da cui muove, ossia che il Tribunale avesse implicitamente rigettato quella domanda e non già omesso di pronunciarsi su di essa. Il ricorrente, invero, mentre riporta il testo delle conclusioni da lui rassegnate davanti al Tribunale, omette invece del tutto di riportare i passi della sentenza del medesimo Tribunale da cui risulterebbe l’implicito rigetto, piuttosto che la pretermissione, di quelle conclusioni in parte qua.

4. – Passando all’esame del ricorso incidentale, occorre preliminarmente dare conto della inammissibilità del medesimo, in quanto proposto dai sigg. F.L. e De.Vo.Pa., limitatamente al primo e al secondo motivo che, come si vedrà, attengono al capo relativo alla condanna degli amministratori al risarcimento nei confronti dell’attore. Essi, infatti, non avevano proposto appello avverso la condanna pronunciata nei loro confronti in primo grado, sulla quale si è dunque formato il giudicato.

5. – Il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale possono essere esaminati congiuntamente, riguardando entrambi la statuizione di inammissibilità dell’eccezione di prescrizione sollevata dai ricorrenti.

5.1. – Con il primo motivo, denunciando violazione di norme di diritto, error in procedendo e vizio di motivazione, si nega l’inesistenza di una domanda risarcitoria dell’attore nei confronti degli amministratori, e dunque la sussistenza di un onere degli appellanti incidentali di censurare per ultrapetizione, come ritenuto dalla Corte d’appello, la sentenza del Tribunale che nonostante ciò aveva pronunciato la loro condanna. Si sostiene che invece una domanda dell’attore nei confronti degli amministratori esisteva, dato che questi ultimi non erano convenuti, bensì chiamati in causa, ai quali dunque la domanda principale si estendeva automaticamente.

5.2. – Con il secondo motivo, sempre denunciando violazione di norme di diritto, error in procedendo e vizio di motivazione, si sostiene che, anche ad ammettere la sussistenza del vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado, non censurato dagli appellanti incidentali, comunque l’eccezione di prescrizione da essi sollevata con l’atto di appello (ammissibilmente, vìgendo, ratione temporis, l’art. 345 c.p.c. nel testo anteriore alla novella del 1990) era da prendere in considerazione perchè, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici di secondo grado, era riferita non soltanto alla domanda di garanzia proposta nei loro confronti dalla banca, ma anche alla condanna risarcitoria pronunciata dal Tribunale in favore dell’attore, sulla quale dunque non si era formato alcun giudicato.

Secondo i ricorrenti la Corte d’appello ha irragionevolmente e immotivatamente interpretato in maniera restrittiva il relativo passo dell’atto di gravame, che così recita: “E’ pertanto ammissibile e pertinente applicare l’eccepita prescrizione del diritto nei confronti degli odierni appellati. Infatti, l’unico atto cui è possibile riferirsi, merce la preposta domanda di garanzia della Banca Popolare dell’Irpinia è la delibera adottata dagli amministratori della Banca Popolare di Aversa nel lontano 9 settembre 1973. E’ lapalissiano che da tale antica data si sono prescritti tutti I diritti che la Banca Popolare della Irpinia, come chiunque altro, avrebbe potuto vantare nei confronti degli amministratori della “Popolare” incorporata. E ciò sia che voglia discutersi di garanzia propria (nel senso che gli amministratori stessi dovrebbero essere condannati direttamente a risarcire i danni dal D.M. P.) e quindi voglia applicarsi alla fattispecie in esame la prescrizione decennale, sia che voglia discettarsi di garanzia impropria (nel senso che gli amministratori stessi dovrebbero essere condannati a rivalere la Banca dell’Irpinia di quanto questa dovesse essere condannata a pagare al D.M.P.) e quindi osservare il termine di cinque anni applicabile alla fattispecie di risarcimento del danno da fatto illecito ove si dovesse ritenere sostanzialmente riproposto tale tipo di azione”.

Da tale passo – e in particolare dalle parole scritte in caratteri tondi – emerge con chiarezza, secondo i ricorrenti, che la prescrizione era riferita dai deducenti anche alla condanna subita in favore dell’attore, tanto più alla luce delle conclusioni poi rassegnate nel medesimo atto, con le quali si chiedeva “nel merito…

accogliere l’appello incidentale e per l’effetto revocare la sentenza 22447/01 emessa il 2.11.2001 e depositata il 7.12.01 dal Tribunale di Avellino…”.

5.3. – La tesi giuridica da cui muove il primo motivo è infondata, perchè il principio dell’estensione automatica della domanda dell’attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell’attore, in ragione del fatto che il terzo s’individui come unico obbligato nei confronti dell’attore ed in vece dello stesso convenuto, realizzandosi in tal caso un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed oggettivo (inserendosi l’obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l’attore in alternativa rispetto a quella individuata dall’attore), ma ferma restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività, l’unicità del complessivo rapporto controverso; il suddetto principio, invece, non opera, allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall’attore come causa petendi come avviene nell’ipotesi – che ricorre nel caso che ci occupa – di chiamata di un terzo in garanzia, propria o impropria (da ult., Cass. 12317/2011, 1693/2009, 13131/2006).

5.4. – Fondata è, invece, la censura mossa con il secondo motivo, avendo effettivamente la Corte d’appello, nell’affermare che l’eccezione di prescrizione era dagli appellanti incidentali riferita alla sola domanda proposta nei loro confronti dalla banca, e non anche alla condanna pronunciata dal Tribunale in favore dell’attore, omesso di prendere in considerazione e di motivare in ordine ai decisivi passaggi dell’atto di appello incidentale e delle relative conclusioni sopra testualmente riportati.

6. – Con il terzo motivo, sempre denunciando violazione di legge, error in procedendo e vizio di motivazione, si deduce, in via subordinata al mancato accoglimento dei due motivi che precedono:

a) che la responsabilità della banca non poteva essere esclusa, atteso il rapporto organico che la legava ai suoi amministratori, come dedotto anche dal ricorrente principale;

b) che la Corte distrettuale ha completamente omesso di esaminare il motivo di appello incidentale concernente l’esclusione del rapporto di causalità fra la condotta degli amministratori e il danno lamentato dall’attore, prodotto dal comportamento della Banca dell’Irpinia che decise di pagare ad altri il valore delle quote del D.M..

6.1. – La censura a) è fondata e va accolta, corrispondendo nella sostanza a quella mossa con il primo motivo del ricorso principale.

La censura b), invece, è inammissibile per difetto di autosufficienza, non essendo riportato nel ricorso incidentale il testo dell’atto contenente il motivo di appello asseritamente trascurato dai giudici di secondo grado.

7. – In conclusione, la sentenza impugnata va cassata – in accoglimento del primo motivo del ricorso principale, dell’analogo terzo motivo, prima parte, del ricorso incidentale e del secondo motivo di quest’ultimo ricorso – con rinvio al giudice indicato in dispositivo, il quale:

– si atterrà al seguente principio di diritto: “la responsabilità degli amministratori di società di capitali nei confronti dei soci direttamente danneggiati da un loro atto si estende alla società, ancorchè l’atto dannoso sia stato compiuto con dolo o abuso di potere e non rientri nella competenza degli amministratori, bensì dell’assemblea, essenziale essendo soltanto che l’atto stesso sia e si manifesti come esplicazione dell’attività della società, ossia tenda al conseguimento dei fini istituzionali di questa”;

– motiverà sull’interpretazione dell’appello incidentale, quanto all’estensione dell’eccezione di prescrizione, prendendo in considerazione i passi dell’atto d’impugnazione sopra indicati al 5.2.;

– provvederà, infine, anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, li accoglie nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Napoli in diversa composizione.

Così deciso in Roma, il 21 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 5 dicembre 2011

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