Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25943 del 24/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 24/09/2021, (ud. 29/04/2021, dep. 24/09/2021), n.25943

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 2

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOMBARDO Luigi Giovanni – Presidente –

Dott. TEDESCO Giuseppe – Consigliere –

Dott. FORTUNATO Giuseppe – Consigliere –

Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –

Dott. BESSO MARCHEIS Chiara – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5482-2020 proposto da:

H.H.E.K., rappresentato e difeso dall’Avvocato

SERGIO ROMANELLI, e dall’Avvocato ENRICO DANTE per procura speciale

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

H.L.E., rappresentata e difesa dall’Avvocato MARZIA

GIOVANNINI, per procura speciale in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la SENTENZA n. 2928/2019 della CORTE D’APPELLO DI MILANO,

depositata il 3/7/2019;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 29/4/2021 dal Consigliere GIUSEPPE DONGIACOMO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

La corte d’appello, con la sentenza in epigrafe, ha rigettato l’appello che H.H.E.K. aveva proposto nei confronti dell’ordinanza con la quale il tribunale, a seguito di ricorso ex art. 702 bis c.c., aveva, a sua volta, respinto la domanda con la quale l’appellante aveva chiesto la condanna della figlia H.L.E. alla restituzione, in suo favore, della somma di Euro 331.420,00.

La corte, in particolare, per quanto ancora rileva, dopo aver premesso che l’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di una somma di denaro e che l’attore, di conseguenza, è tenuto a dimostrare il titolo dal quale deriva l’obbligo della restituzione, senza che la deduzione di un diverso titolo da parte della convenuta, che aveva allegato la liberalità della dazione, possa invertire l’onere della prova, ha ritenuto che l’attore non avesse dimostrato in giudizio il titolo, non essendo, a tal fine, sufficienti né le contabili bancarie, delle quali è stata oscurata la causa per le quali erano state emesse, né la testimonianza resa da H.K., sorella della resistente, la quale, oltre a non apparire di per sé sola sufficiente per la prova del titolo, visti i rapporti tra le parti, concerne un capitolo di prova inammissibile perché generico e riconducibile ai limiti oggettivi del mezzo di prova, soprattutto in un contesto nel quale il ricorrente avrebbe potuto documentare la causa del rapporto.

La corte, poi, ha esaminato le domanda subordinate che l’attore aveva proposto ed ha, sul punto, ritenuto che: – per quanto riguarda la ripetizione dell’indebito, l’attore ha l’onere di provare l’inesistenza di una giusta causa dell’attribuzione patrimoniale compiuta in favore del convenuto, laddove, al contrario, nel caso in esame, non è emersa in giudizio né l’esistenza di un indebito oggettivo (“sia nel caso in cui si riconducano i trasferimento di denaro ad un contratto di mutuo che ad una datio con spirito di liberalità, non può farsi riferimento all’assenza di causa”) né di un indebito soggettivo, peraltro mai allegato (“non potendosi ritenere che i trasferimenti di denaro posti in esse dall’appellante fossero dettati da errore scusabile”) per cui, tanto per la presenza della causa debendi, quanto per l’assenza di un erroneo convincimento in capo all’appellante in ordine alla debenza delle somme trasferite, la condictio indebiti non può essere, pertanto, proposta; – per ciò che riguarda l’arricchimento senza giusta causa ai sensi degli artt. 2041 e 2042 c.c., tale azione non può essere proposta in via subordinata se non nel caso in cui l’azione tipica presenti ad origine un difetto del titolo posto a suo fondamento: non anche nel caso, come quello in esame, in cui sia stata proposta domanda ordinaria fondata su un titolo contrattuale ma senza offrire prove sufficienti al suo accoglimento.

H.H.E.K., con ricorso notificato il 27/1/2020, ha chiesto, per tre motivi, la cassazione della sentenza.

H.L.E. ha resistito con controricorso.

Il ricorrente ha depositato memoria.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato la domanda dell’attore volta ad ottenere la restituzione, ad opera della figlia H.E., della somma di Euro 331.420,00, che lo stesso le aveva consegnato a titolo di mutuo, omettendo, tuttavia, di considerare, in violazione dell’art. 116 c.p.c., che la convenuta, nella comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado, lì dove aveva dedotto l’impossibilità di restituire una somma così ingente se non a mezzo di rate di modesta entità, aveva esplicitamente riconosciuto che si trattava di mutuo, limitandosi, al riguardo, ad eccepire che, non avendo le parti stabilito il tempo entro il quale l’obbligo di restituzione del mutuatario doveva essere eseguito, doveva trovare applicazione l’art. 1817 c.c..

2. Con il secondo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione dell’art. 1817 c.c., concernente il termine per la restituzione, e la violazione dell’art. 1186 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello non ha considerato che la convenuta aveva esplicitamente riconosciuto il suo obbligo di restituzione, limitandosi ad eccepire di non essere in condizione di restituire la somma in un’unica soluzione ma solo con modesti versamenti rateali, e che, per tale motivo, non era necessario ricorrente alla fissazione giudiziale del termine.

3.1. Il primo motivo è infondato, con assorbimento del secondo.

3.2. In effetti, poiché l’art. 116 c.p.c. prescrive come regola di valutazione delle prove quella secondo cui il giudice deve valutarle secondo prudente apprezzamento, a meno che la legge non disponga altrimenti, la sua violazione e, quindi, la deduzione in sede di ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, è concepibile solo: a) se il giudice di merito valuta una determinata prova ed in genere una risultanza probatoria, per la quale l’ordinamento non prevede uno specifico criterio di valutazione diverso dal suo prudente apprezzamento, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore ovvero il valore che il legislatore attribuisce ad una diversa risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale); b) se il giudice di merito dichiara di valutare secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza soggetta ad altra regola, così falsamente applicando e, quindi, violando la norma in discorso, oltre che quelle che presiedono alla valutazione secondo diverso criterio della prova di cui trattasi (Cass. n. 26965 del 2007; in senso conforme: Cass. n. 20119 del 2009; n. 13960 del 2014; Cass. 11892 del 2016). La violazione dell’art. 116 c.p.c., e’, dunque, al più idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., n. 4, ma solo ove si alleghi che il giudice, nel valutare una prova o, comunque, una risultanza probatoria, non abbia operato, in assenza di diversa indicazione normative, secondo il suo “prudente apprezzamento”, pretendendo di attribuirle un altro e diverso valore, oppure il valore che il legislatore attribuisce ad una differente risultanza probatoria (come, ad esempio, valore di prova legale), nonché, qualora la prova sia soggetta ad una specifica regola di valutazione, abbia invece dichiarato di valutare la stessa secondo il suo prudente apprezzamento (Cass. n. 11892 del 2016; Cass. 1606 del 2017). Tale violazione, pertanto, non può essere ravvisata, come invece pretende il ricorrente, nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove”.

3.3. La valutazione delle prove raccolte, invero, compresa quella conseguente alla mancata contestazione da parte del convenuto, costituisce un’attività riservata in via esclusiva all’apprezzamento discrezionale del giudice di merito, le cui conclusioni in ordine alla ricostruzione della vicenda fattuale non sono sindacabili in cassazione se non per il vizio nel caso in esame neppure invocato come tale – consistito, come stabilito dall’art. 360 c.p.c., n. 5, nell’avere del tutto omesso, in sede di accertamento della fattispecie concreta, l’esame di uno o più fatti storici, principali o secondari, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbiano costituito oggetto di discussione tra le parti e abbiano carattere decisivo, vale a dire che, se esaminati, avrebbero determinato un esito diverso della controversia. Nel quadro del principio, espresso nell’art. 116 c.p.c., di libera valutazione delle prove (salvo che non abbiano natura di prova legale), del resto, il giudice civile ben può apprezzare discrezionalmente gli elementi probatori acquisiti e ritenerli sufficienti per la decisione, attribuendo ad essi valore preminente e così escludendo implicitamente altri mezzi istruttori richiesti dalle parti: il relativo apprezzamento è insindacabile in sede di legittimità, purché risulti logico e coerente il valore preminente attribuito, sia pure per implicito, agli elementi utilizzati. (Cass. n. 11176 del 2017). La valutazione delle risultanze delle prove e il giudizio sull’attendibilità dei testi, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono, in effetti, apprezzamenti di fatto riservati al giudice di merito, il quale è libero di attingere il proprio convincimento da quelle prove che ritenga più attendibili, senza essere tenuto ad un’esplicita confutazione degli altri elementi probatori non accolti, anche se allegati dalle parti (v. Cass. n. 42 del 2009; Cass. n. 20802 del 2011).

3.4. Il compito di questa Corte, in effetti, non è quello di condividere o non condividere la ricostruzione dei fatti contenuta nella decisione impugnata né quello di procedere ad una rilettura degli elementi di fatto posti fondamento della decisione, al fine di sovrapporre la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito (Cass. n. 3267 del 2008), dovendo, invece, solo controllare se costoro abbiano dato conto, in modo non apparente né contraddittorio, delle ragioni della loro decisione e se il loro ragionamento probatorio, qual è reso manifesto nella motivazione del provvedimento impugnato, si sia mantenuto nei limiti del ragionevole e del plausibile (Cass. n. 11176 del 2017, in motiv.): come, in effetti, è accaduto nel caso in esame.

3.5. La corte d’appello, invero, dopo aver valutato le prove raccolte in giudizio, ha escluso, a fronte della mancanza dimostrazione del titolo del versamento, che la dazione di denaro dall’attore alla convenuta fosse stata eseguita a titolo di mutuo. Ed una volta escluso, come la corte ha ritenuto senza che tale apprezzamento in fatto sia stato censurato (nell’unico modo possibile, e cioè, a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5) per omesso esame di una o più circostanze decisive, che l’attore avesse dimostrato in giudizio il fatto di aver versato alla convenuta la somma invocata con l’obbligo in capo alla stessa di eseguirne la restituzione entro un certo termine, non si presta, evidentemente, a censure la decisione che la stessa corte ha conseguentemente assunto, e cioè il rigetto della domanda proposta dall’attore, in quanto volta, appunto, alla restituzione della somma versata.

3.6. Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, invero, l’attore che chiede la restituzione di somme date a mutuo è tenuto, ai sensi dell’art. 2697 c.c., comma 1, a provare gli elementi costitutivi della domanda, e quindi non solo la consegna ma anche il titolo della stessa, da cui derivi l’obbligo della vantata restituzione. L’esistenza di un contratto di mutuo non può essere desunta dalla mera consegna di o somme di denaro (che, ben potendo avvenire per svariate ragioni, non vale di per sé a fondare una richiesta di restituzione allorquando l’accipiens – ammessane la ricezione non confermi anche il titolo posto dalla controparte a fondamento della propria pretesa ma ne contesti la legittimità), essendo l’attore tenuto a dimostrare per intero il fatto costitutivo della sua pretesa, senza che la contestazione del convenuto (il quale, pur riconoscendo di aver ricevuto la somma ne deduca una diversa ragione) possa tramutarsi in eccezione in senso sostanziale e come tale determinare l’inversione dell’onere della prova (Cass. n. 180 del 2018, in motiv.).

4. Con il terzo motivo, il ricorrente, lamentando la violazione o la falsa applicazione degli artt. 2033,2041 e 2042 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato le domande proposte dall’attore in via subordinata, senza, tuttavia, considerare: – per quanto riguarda la ripetizione dell’indebito, che il soggetto che riceve denaro altrui non è in linea di principio autorizzato a trattenerlo senza causa e che l’eventuale mancata dimostrazione da parte dell’attore della sussistenza di un contratto di mutuo, a giustificazione del diritto alla restituzione della somma versata, impone al giudice di accertare se sia o meno consentito all’accipiens di trattenere le somme ricevute ove lo stesso non abbia allegato e provato alcuna causa idonea a giustificare il suo diritto di trattenere la somma ricevuta; – per quanto riguarda la domanda di arricchimento senza causa, che, ove si ritenga di non condividere l’attestazione circa il riconoscimento da parte della convenuta dell’ammontare, del titolo e dell’impegno alla restituzione, la fattispecie in esame, nella quale è risultato che le prestazioni rese da un genitore abbiano ingiustificatamente arricchito il figlio con pregiudizio per il primo, si colloca immancabilmente nell’ipotesi prevista dall’art. 2041 c.c..

5. Il motivo è inammissibile. Il ricorrente, infatti, non si confronta con la sentenza che impugna: la quale, invero, con statuizioni rimaste del tutto incensurate, ha ritenuto, per un verso, che la domanda di restituzione dell’indebito impone a chi la propone di dimostrare in giudizio l’inesistenza di una giusta causa dell’attribuzione patrimoniale compiuta in favore del convenuto, laddove, al contrario, nel caso in esame, era emersa in giudizio la sussistenza della causa debendi (vale a dire, avendo escluso la prova del mutuo, la “datio con spirito di liberalità”), e, per altro verso, che l’azione di arricchimento senza giusta causa ai sensi degli artt. 2041 e 2042 c.c., non può essere proposta in via subordinata in un caso, come quello in esame, in cui l’attore abbia proposto in via principale una domanda fondata su un titolo contrattuale ma senza offrire prove sufficienti al suo accoglimento. Questa Corte, in effetti, ha già avuto modo di osservare che: – la ripetizione di indebito è regolata dal normale principio dell’onere della prova a carico dell’attore il quale, pertanto, è tenuto a dimostrare sia l’avvenuto pagamento sia la mancanza di una causa che lo giustifichi (Cass. n. 30713 del 2018; conf., Cass. n. 17146 del 2003); – l’azione di arricchimento può essere valutata, se proposta in via subordinata rispetto all’azione contrattuale articolata in via principale, soltanto qualora quest’ultima sia rigettata per un difetto del titolo posto a suo fondamento ma non anche nel caso in cui sia stata proposta domanda ordinaria, fondata su titolo contrattuale, senza offrire prove sufficienti all’accoglimento (Cass. n. 11682 del 2018; Cass. n. 6295 del 2013).

6. Il ricorso dev’essere, quindi, respinto. Peraltro, poiché il giudice di merito ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di legittimità, senza che il ricorrente abbia offerto ragioni sufficienti per mutare tali orientamenti, il ricorso, a norma dell’art. 360 bis c.p.c., n. 1, è manifestamente inammissibile.

7. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo.

8. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

PQM

La Corte così provvede: dichiara l’inammissibilità del ricorso; condanna il ricorrente a rimborsare alla controricorrente le spese di lite, che liquida in Euro 4.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge e spese generali nella misura del 15%; dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta Sezione Civile – 2, il 29 aprile 2021.

Depositato in Cancelleria il 24 settembre 2021

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