Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 2594 del 03/02/2011

Cassazione civile sez. trib., 03/02/2011, (ud. 16/12/2010, dep. 03/02/2011), n.2594

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAPPABIANCA Aurelio – rel. Presidente –

Dott. D’ALESSANDRO Paolo – Consigliere –

Dott. DI IASI Camilla – Consigliere –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. GRECO Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ordinanza

sul ricorso proposto da:

MILANO ASSICURAZIONI S.P.A., in persona del legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliate in Roma, via Crescenzio n. 91,

presso lo studio dell’avv. Lucisano Claudio, che le rappresenta e

difende unitamente all’avv. Raffaello Lupi;

– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore,

elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso

l’Avvocatura Generale dello Stato, che le rappresenta e difende;

– controricorrente –

per la cassazione della sentenza della Commissione R.G. 13.955/09

tributaria regionale della Lombardia, sez. 13, n. 13 depositata il 21

aprile 2008.

Letta la relazione scritta redatta dal consigliere relatore Dott.

Aurelio Cappabianca;

constatata la regolarità delle comunicazioni di cui art. 380 bis

c.p.c., comma 3,;

udito, per la controricorrente, l’avv. Raffaello Lupi;

udito il P.M., in persona del sostituto procuratore generale Dr.

IANNELLI Domenico, che ha concluso, in adesione alla relazione, per

il rigetto del ricorso.

Fatto

PREMESSO IN FATTO

Che la società contribuente propose ricorso avverso il silenzio- rifiuto opposto dall’Agenzia avverso l’istanza di rimborso dei maggior acconti ipeg ed irap versati, per l’anno 2002, in conseguenza dell’omessa deduzione dagli imponibili della somma di Euro 20.562.463,91, corrisposta a titolo di sanzione irrogata dall’Autorità garante della concorrenza e del mercato;

che l’adita commissione tributaria accolse il ricorso, con decisione, che, in esito all’appello dell’Agenzia fu, tuttavia, riformata dalla commissione regionale, che puntualizzò, tra l’altro, che “la natura afflittiva delle somme in esame, non consente di sostenere esistente un rapporto di correlazione tra costo e reddito con riferimento ai costi che siano rappresentati da pagamento di sanzioni pecuniarie irrogate per comportamenti illeciti del contribuente; Ne consegue l’esclusione del principio di inerenza”;

rilevato:

che, avverso tale decisione, la società contribuente, illustrando le proprie ragioni anche con memoria, ha proposto ricorso per cassazione, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 75, comma 5, (ora art. 109) e della L. n. 537 del 1993, art. 14, comma 4 bis, nonchè correlati vizi di motivazione, censurando la decisione impugnata per non aver considerato che l’applicazione della sanzione antitrust costituisce conseguenza diretta di scelte imprenditoriali e che la seconda delle disposizioni invocate esclude la detraibilità delle sole spese conseguente ad atti configuranti penali e non anche di quelle derivanti da illeciti civili;

– che l’Agenzia ha resistito con controricorso;

osservato:

– che il ricorso è manifestamente infondato;

– che questa Corte ha, infatti, già affermato (cfr. Cass. 5050/10) il principio, da cui non vi è motivo di discostarsi, dell’indeducibilità degli importi corrisposti a titolo di sanzione pecuniaria irrogata dall’Autorità garante (e dalla Commissione U.E.) in materia di tutela della concorrenza e del mercato (cd. disciplina antitrust), posto che la sanzione in rassegna è circostanza che non influisce sulla nascita dell’obbligazione tributaria – in quanto, derivando da attività, non solo autonoma ed esterna rispetto al corretto esercizio dell’impresa, ma antitetica a questa, non può qualificarsi fattore produttivo sicchè pretendere che essa costituisca “costo deducibile” dal reddito d’impresa significherebbe neutralizzare interamente la ratio punitiva della penalità, controbilanciandola con un corrispondente risparmio d’imposta, che, in quanto espressione della violazione di normativa imperativa, si rivelerebbe del tutto ingiustificato;

ritenuto:

che, pertanto, il ricorso va respinto nelle forme di cui agli artt. 375 e 380 bis c.p.c.;

– che, per la soccombenza, la società contribuente va condannata al pagamento delle spese di causa, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte: respinge il ricorso; condanna i contribuenti al pagamento delle spese di causa, liquidate in complessivi Euro 15.600,00 (di cui Euro 15.500,00 per onorari) oltre spese generali ed accessori di legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 dicembre 2010.

Depositato in Cancelleria il 3 febbraio 2011

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