Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25936 del 15/10/2019

Cassazione civile sez. III, 15/10/2019, (ud. 17/06/2019, dep. 15/10/2019), n.25936

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. CIGNA Mario – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. PELLECCHIA Antonella – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 6023-2018 proposto da:

MINISTERO DELL’AMBIENTE E DELLA TUTELA DEL TERRITORIO E DEL MARE,

(OMISSIS) in persona del Ministro pro tempore, elettivamente

domiciliata in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA

GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

CONSORZIO DI BONIFICA TERRE D’APULIA, in persona del suo Commissario

e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in

ROMA, VIA ROVERETO 18, presso lo studio dell’avvocato FELICE ANCORA,

che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

COMUNE DI GRAVINA DI PUGLIA, COMUNE DI POGGIORSINI, COMUNE DI

SPINAZZOLA, D.D.B. COSTRUZIONI SRL, INTERCANTIERI

VITTADELLO SPA;

– intimati –

avverso la sentenza n. 19/2018 della CORTE D’APPELLO di ROMA,

depositata il 03/01/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

17/06/2019 dal Consigliere Dott. GIUSEPPE CRICENTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Nel 1991 il Consorzio di Bonifica Terre d’Apulia affidò ad un raggruppamento di imprese i lavori per la sistemazione del Bacino di (OMISSIS) e l’utilizzazione irrigua delle acque alte nella zona di (OMISSIS) e (OMISSIS). Le opere da realizzare avrebbero portate ad un approvvigionamento di acqua per una vasta estensione di terreni della zona.

Il Consorzio stimava di ricavare un elevato guadagno dalla realizzazione dell’opera, anche in ragione degli accordi assunti con l’Agenzia per il Mezzogiorno.

Con nota-provvedimento del 7 febbraio 1994 il Ministero dell’Ambiente ha rivolto alla Regione ed al Consorzio l’avviso secondo cui il progetto in questione doveva essere assoggettato a valutazione di compatibilità ambientale, invitando la Regione a provvedere di conseguenza.

La nota pervenne altresì ai Comuni di Gravina, Poggiorsini e Spinazzola, che il giorno 8 marzo 1994 emanarono tre distinte ma simili ordinanze con cui vennero sospesi i lavori.

Dopo una serie di scambi di chiarimenti con il Consorzio, tra aprile e luglio del 1995, i suddetti Comuni disposero la prosecuzione parziale dei lavori. Con sentenza n. 46 del 1999 il Tribunale Superiore delle Acque pubbliche annullò, su ricorso del Consorzio, la nota ministeriale del 1994. Nel frattempo, l’impresa appaltatrice ottenne un lodo arbitrale che riconosceva un danno di 8.365.306,86 Euro, per la subita interruzione dei lavori, e condannava il Consorzio al risarcimento.

Il Consorzio ha dunque agito nei confronti del Ministero e dai Comuni, ed il giudice di primo grado, con sentenza del 4 luglio 2006 ha ritenuto la sola responsabilità del Ministero, riconoscendo, da un lato, la natura provvedimentale della nota in questione, e, per altro verso il nesso di causa tra tale nota e le ordinanze comunali di sospensione dei lavori.

La Corte di appello, adita dal Ministero, ha confermato la decisione di primo grado, ritenendo la natura provvedimentale della nota ministeriale ed il suo effetto vincolante sui Comuni.

Ne è seguito un giudizio di Cassazione, all’esito del quale è stato accolto il terzo motivo, sulla prova del danno e sulla sua quantificazione.

In particolare, la prima decisione della corte di Appello aveva ritenuto generico il motivo di impugnazione su queste punto (prova del danno e sua quantificazione) e lo aveva dichiarato inammissibile.

La Corte di Cassazione del 2006 ha invece considerato sufficientemente illustrato il motivo ed ha cassato la decisione di appello.

La causa è stata dunque riassunta e la corte di secondo grado ha riaffermato, decidendo su quel motivo di appello, che v’è la prova del danno, ed in particolare che v’è nesso di causalità tra la nota ministeriale e le ordinanze comunali di sospensione dei lavori, essendo queste ultime state determinate da quella.

Avverso tale pronuncia ora il Ministero propone due motivi di ricorso.

V’è costituzione del Consorzio con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1.- La ratio della decisione impugnata è la seguente. La note ministeriale del 1994 aveva natura provvedimentale ed ha pertanto condizionato la decisione dei Comuni di sospendere i lavori.

Peraltro, che questi ultimi provvedimenti siano la conseguenza di quella nota discende dai principi accolti dalla giurisprudenza in tema di nesso causale, ed in particolare dal criterio probabilistico di accertamento di quel nesso. La prova del danno sta poi nel fatto che il Consorzio ha subito un lodo arbitrale da parte dell’impresa appaltatrice che ha dovuto, in ragione di tale lodo, riconoscere un risarcimento alla impresa.

Nel ritenere sussistente un nesso causale tra la nota ministeriale e la decisione dei Comuni, la corte di merito ha altresì argomentato osservando che ciò che segue è per logica causa di ciò che lo ha preceduto (secondo il brocardo latino “post hoc ergo propter hoc”).

1.1.- Il dispositivo della decisione è conforme a diritto, ma la motivazione, quanto al nesso di causalità tra la nota ministeriale ed i successivi provvedimenti comunali, è frutto della confusione che l’estensore manifesta di avere sul concetto di nesso causale: pertanto può procedersi a correzione della stessa senza bisogno di cassare la sentenza (art. 384 c.p.c).

2.-I motivi di ricorso sono due.

Con il primo il Ministero ritiene che la Corte di merito ha fatto erronea applicazione dei criteri di accertamento del nesso di causalità, dunque violazione degli artt. 40 e 41 c.p., nonchè degli artt. 2043,2056 e 1223 c.c..

Con il secondo motivo invece denuncia nullità della sentenza (art. 360 c.p.c., n. 4) per motivazione apparente o del tutto insufficiente, in relazione ad uno specifico passo, ossia alla circostanza secondo cui le ordinanze dei comuni si sarebbero adeguate alla nota ministeriale e che ciò dimostrerebbe che quella ha vincolato queste.

Secondo il Ministero ricorrente questo argomento sarebbe illogico in quanto dal fatto che i comuni abbiano emesso ordinanze di sospensione dei lavori, non si ricava affatto che fossero obbligate a farlo dalla nota ministeriale.

I due motivi sono infondati, ma nei termini che seguono.

3.- La decisione della corte di appello va chiarita, ma rimane fondata.

In pratica, secondo la corte di merito, l’evento B segue quello A e dunque ne è causato.

L’argomento secondo cui che ciò che segue temporalmente è anche causato da ciò che precede è, da sempre, considerato un caso di fallacia argomentativa.

Non v’è traccia nei sistemi di retorica o di logica di un solo argomento a sostengo del criterio post hoc propter hoc. E’ Aristotele nel secondo capitolo della Retorica a smentire, per primo, come, il fatto che un evento B segua temporalmente un evento A non significa che l’evento B è causato dall’evento A.

La correlazione temporale tra due eventi non è dato sufficiente ad affermare una correlazione anche causale tra quegli eventi.

In un punto specifico del suo ragionamene la Corte di merito fa applicazione di questo fallace argomento logico, laddove, in particolare, avvisa che “se lo schema astratto di un provvedimento, come quello di cui si discute, per il suo stesso contenuto può contemplare come effetto possibile, una sospensione potenziale dei lavori, per verificare l’impatto ambientale sui luoghi interessati, non sembra dubitabile che laddove i lavori siano stati effettivamente fermati, tale evento debba considerarsi come attuazione concreta di quella situazione”.

E per dire poi che la sospensione dei lavori è stata a sua volta causa di danno per il Consorzio, chiamato a rispondere del fermo da parte della impresa appaltatrice, si esprime dicendo che: “la sospensione dei lavori, conseguente alla illegittima emanazione della nota-Provvedimento ministeriale… sotto il profilo causale della “condicio sine qua non”, abbia ragionevolmente provocato come effetto giuridico prevedibile – in applicazione del principio logico di concatenazione causale del “post hoc ergo propter hoc”, l’attivazione della Procedura arbitrale”.

In sostanza, sembra dire la corte, siccome le ordinanze seguono temporalmente la nota del Ministero, ergo ne sono causate, e siccome la richiesta di risarcimento (tramite lodo arbitrale) segue temporalmente la sospensione dei lavori, ergo ne è causata.

Il sofisma insito nella formula “post hoc popter hoc” è pacificamente errato, ed è unanimemente ritenuto che correlazione, in generale, non vuol dire causazione. Alcune visioni anticausalistiche vi hanno fatto ricorso, ma in una accezione più completa e notoriamente ben costruita, che sostituisce la regolarità alla causalità.

In passato v’è stato chi ha riservato il termine “causa” alle circostanze che si caratterizzano per una contiguità, nel tempo e nelle spazio, con gli effetti. Ma solo se questa contiguità si ripete costantemente. E’ la nota tesi humeana secondo cui la causa è un oggetto seguito da un altro, ma in modo tale che tutti gli oggetti simili al primo sono seguiti da oggetti simili al secondo. Così che l’elemento temporale (B segue A) può indicare un nesso di causalità solo se letto alla luce di regolarità evidenti, ossia solo se B segua A in una regolarità di casi. In questa ottica il criterio temporale può valere solo se si può sussumere sotto regolarità uniformi dell’esperienza.

In sostanza, nello schema humeano, tre circostanze permettono di inferire una causalità: a) la contiguità nello spazio e nel tempo tra la causa e l’effetto; b) l’anteriorità temporale tra la causa e l’effetto; e) la ripetizione regolare, ossia costante di questi due fenomeni.

Da questo punto di vista è solo frutto della scarsa conoscenza del problema causale l’idea che siccome le ordinanze seguono la nota ministeriale allora ne sono causate.

Il modo con cui la corte di merito si esprime sul criterio di accertamento del nesso di causalità (ed in effetti in più punti combina indifferentemente una pluralità di criteri tra loro diversi) da adito alla censura del ricorrente, anche se di fatto la ratio della decisione è un’altra.

Infatti, il ricorrente Ministero ritiene che la corte di merito erri nell’applicazione (e nella stessa comprensione) del criterio probabilistico, in quanto confonde “probabile” con “possibile”.

Nel passo sopra citato della sentenza impugnata la corte di appello infatti, come abbiamo visto, ritiene che se lo schema astratto di un provvedimento contempla come possibile un certo effetto (la sospensione dei lavori), il fatto che l’effetto poi segua (i Comuni sospendono i lavori), è “prova che il primo provvedimento è causa dei secondi.

A parere del ricorrente qui la corte utilizza il criterio “possibilistico” anzichè quello “probabilistico”, come imposto dal modello teorico di accertamento causale. La censura è però speciosa. La “possibilità” qui infatti non è riferita al nesso causale, ossia al legame di fatto esistente tra la nota del Ministero e le ordinanze comunali: in realtà non è che la corte di merito ritiene “possibile” (anzichè probabile, come invece dovrebbe) che le ordinante comunali siano state causate dalla nota ministeriale. Il riferimento alla “possibilità” è frutto di una valutazione del Ministero circa la sospensione dei lavori, non è il criterio di giudizio della corte quanto al nesso tra questa valutazione e l’effettiva sospensione fatta poi dai comuni. Così che la valutazione che il Ministero abbia fatto della sospensione dei lavori, ritenendola possibile, non toglie che l’effettiva sospensione poi seguitane sia stata determinata con molta probabilità proprio da quella valutazione. Questa censura del ricorrente fa da premessa ad uri argomento ulteriore. Secondo il Ministero infatti, un corretto uso del criterio probabilistico avrebbe dovuto imporre alla corte di valutare la probabilità con una valutazione ex ante, e non già ex post, come in realtà la corte ha fatto.

Il che significa che, per stabilire se era effettivamente probabile che i comuni emettessero le ordinanze di sospensione di causa della nota ministeriale, bisognava porsi al momento in cui questa era emessa, e valutare se vi fossero, per l’appunto, probabilità preponderanti che ne seguissero ordinanze comunali attuative. Invece la corte avrebbe fatto l’opposto, compiente una valutazione ex post: siccome le ordinanze ci sono state, allora riesegue per tabulas che la nota ne è stata la causa.

Anche su questo punto occorre una chiosa alla motivazione adottata dal giudice di merito, che, sia pure in modo innocuo, non fa buon uso delle regole in tema di causalità.

E’ costante affermazione di questa corte che, nell’accertamento del nesso causale, non occorre la certezza della relazione tra l’antecedente e l’evento, essendo sufficiente la probabilità di quel nesso. E’ ciò che si esprime con la formula del “più probabile che non” adottata sin da Cass. sez. U. 576/2008. In sostanza, il criterio probabilistico è un criterio di tipo probatorio; serve a ritenere sufficientemente provato il nesso di causa quando è probabile (e non necessariamente certo) che ve ne sia uno tra due eventi oggetto di valutazione. Proprio perchè il criterio probabilistico attiene alla valutazione della prova del nesso causale, esso non è alternativo ai criteri di accertamento del nesso di causalità elaborati dalla scienza giuridico-filosofica” (condicio sine qua non, adeguatezza causale, test NESS, condizione INUS, ecc), e ciò in quanto non è un criterio di accertamento del nesso causale, ma un criterio per stabilire se v’è una prova sufficiente di tale nesso. Il criterio del “più probabile che non” è dunque un criterio di valutazione delle prove emerse in giudizio relativamente al nesso di causalità, non costituisce un modello autonomo di accertamento di quel nesso.

Con la conseguenza che può farsi una valutazione probabilistica, quale che sia il criterio di accertamento del nesso causale che si intende utilizzare: il criterio del “più probabile che non” è compatibile con qualsiasi modello di ricostruzione del nesso di causa. Si può ad esempio fare ricorso al modello condizionalistico (condicio sine qua non) e ritenere provato il nesso di causa quando è “più probabile che non” che, eliminato mentalmente l’antecedente l’evento non si sarebbe verificato; per contro si può pretendere che la prova del condizionamento sia certa e non probabile (come sembra richiesto nel diritto penale) e quindi non sarà sufficiente il criterio del “più probabile che non”. Ma, come è agevole notare, il modello condizionalistico di accertamento del nesso causale non cambia nell’una come nell’altra ipotesi: a cambiare è solo il grado di certezza richiesta per ritenere accertato che l’evento A è condicio sine qua non dell’evento B.

Allo stesso modo, nell’ambito del criterio d regolarità causale si potrà pretendere la certezza del nesso causale o sufficiente la sua probabilità; e così nel giudizio controfattuale, occorrendo stabilire se lei condotta alternativa lecita avrebbe evitato l’evento oppure no, si potrà pretendere la certezze della prova, o sufficiente la probabilità: ma il modello di analisi controfattuale non cambierà. A mutare sarà soltanto il grado di prova sufficiente a ritenere ammesso il nesso di causa (Cass. 23197/2018, dove chiaramente si dice che per la prova del controfattuale, ossia della circostanza che se si fosse agito diversamente l’esito sarebbe cambiato, è sufficiente la probabilità).

Per quanto attiene dunque al nostro caso, queste osservazioni hanno due conseguenze importanti.

La prima è che il giudizio circa la maggiore o minore probabilità che un evento sia causa di un altro è un giudizio di valutazione della prova. Ritenere “più probabile che non” che un evento (il provvedimento ministeriale) è causa di un altro (le ordinanze comunali) è frutto di un giudizio sulla sufficienza della prova, non già adozione di un modello causate autonomo, diverso da quelli noti (condicio sine qua non, regolarità causale, test Ness, condizione Inus, ecc). E’ soltanto una questione di prova del nesso causele e non di sua configurazione astratta, alla quale sono riferiti i modelli noti di spiegazione di un evento; ed altro è il modello di spiegazione di un evento (ad esempio, la spiegazione condizionalistica), altra la prova che si ritiene sufficiente per dire che quella spiegazione è raggiunta.

Una ovvia conclusione di tale premessa è che il giudizio di probabilità del nesso di causa, essendo un giudizio di valutazione delle prove sufficienti a ritenere spiegato causalmente un evento, appartiene alla discrezionalità del giudice di merito, e può essere censurato in sede di legittimità solo per errore percettivo o difetto di motivazione nei termini in cui questo u timo vizio è ormai consentito. La seconda conclusione è che è dunque del tutto fuori luogo ritenere che il giudizio circa la probabilità di un nesso causale debba farsi ex ante anzichè ex post.

Come tutti i giudizi sulla rilevanza probatoria, ossia sulla sufficienza delle prove emerse in giudizio per affermare una certa conclusione, esso va fatto sulle base delle prove emerse; è un giudizio allo stato degli atti.

Dire che va fatto ex ante significa sovrapporre, e dunque confondere, il criterio di spiegazione dell’evento (ad esempio quello condizionalistico) con quello della prova sufficiente a ritenere raggiunta la spiegazione (“più probabile che non”). Solo al primo si addice la questione se vada compiuta una valutazione ex ante o ex post.

Per intenderci, se si ritiene di adottare la prospettiva della adeguatezza causale, sarà, sì, necessario porsi nel momento in cui la condotta è stata posta in essere onde accertare se, date le condizioni di quel momento, la condotta stessa appariva come adeguata (in base a leggi statistiche disponibili, o ad altre forme di induzione e di previsione dell’evento). Ma la questione della prova di questa adeguatezza, ossia della prova dell’evento che risulta dal ricorso alla legge scientifica, o alla induzione statistica, o da quanto emerso agli atti, non ha nulla a che fare con il giudizio ex ante, essendo semplicemente questione di quanta prova sia sufficiente a ritenere affermata l’adeguatezza causale.

Con la conseguenza che non v’è alcuna violazione di legge nell’avere disatteso, quanto al giudizio sulla probabilità del nesso causale, una valutazione ex ante sostituendola con una ex post.

In conclusione, il criterio probabilistico non è un autonomo modello astratto di accertamento del nesso di causa, ma è nient’altro che una versione antideterministica dei modelli di spiegazione causale. Esso è semplicemente un criterio che ritiene non necessaria la certezza della prova che un evento è causa di un altro, quale che sia il criterio per accertare se lo è. Quindi, il criterio probabilistico richiedeva di verificare se le ordinanze comunali si sono verificate con più probabilità in presenza della nota ministeriale, anzichè in assenza della medesima, e questa verifica, al di là della confusione concettuale dell’estensore sulla nozione di causa, corrisponde di fatto alla ratio della decisione impugnata.

Con la conseguenza che è irrilevante che la nota ministeriale avesse natura provvedimentale o meno, circostanza peraltro accertata sia dal precedente giudizio di cassazione che dallo stesso Tribunale delle acque pubbliche. E’ irrilevante in quanto il giudizio di probabilità cause le prescinde dalla natura di quella nota, per verificare se di fatto, una influenza vi sia stata, e questo giudizio, per l’appunto di fatto, è quello che richiede il criterio del “più probabile che non” quanto alla prova di quel condizionamento causale.

Così che, al di là delle motivazioni addotte, la soluzione della corte è rispettosa dell’accertamento causale probabilistico.

Va da sè che se la corte avesse seguito lo schema della condicio sine qua non saremmo comunque stati in presenza di una decisione sbagliata. Non è ovviamente necessario spiegare il perchè.

Ciò comporta altresì il rigetto del secondo motivo, poste che la decisione non contiene una contraddizione tale da inficiarne la ratio: la valutazone ex post, che la corte fa della natura delle ordinanze va letta nella direzione chiarita sopra. Esse seguono alla nota ministeriale nel senso che senza quella nota, molto probabilmente, le ordinanze non sarebbero state emesse. Il ricorso va pertanto respinto, spese da soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il Ministero ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di 19 mila Euro, oltre 200 Euro di spese generali. Dà atto della non sussistenza dei presupposti per il versamento del doppio del contributo unificato.

Così deciso in Roma, il 17 giugno 2019.

Depositato in Cancelleria il 15 ottobre 2019

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