Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25930 del 15/12/2016


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Cassazione civile, sez. VI, 15/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep.15/12/2016),  n. 25930

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 17485-2015 proposto da:

PROCTER & GAMBLE ITALIA SPA, in persona del legale rappresentante

pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, L. G. FARAVELLI 22,

presso lo studio dell’avvocato ARTURO MARESCA, che la rappresenta e

difende giusta mandato in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

M.C., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA GERMANICO,

172, Presso lo studio dell’avvocato MICHELANGELO SALVAGNI, che la

rappresenta e difende giusta procura in calce al controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 10366/2014 della CORTE D’APPELLO di ROMA

dell’11/11/2015, depositata il 20/01/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO.

Fatto

FATTO E DIRITTO

La causa è stata chiamata all’adunanza in camera di consiglio del 8 novembre 2016, ai sensi dell’art. 375 c.p.c. sulla base della seguente relazione redatta a norma dell’art. 380 bis c.p.c.:

“Con sentenza del 20.1.2015, la Corte di appello di Roma, in parziale accoglimento del gravame proposto dalla società Procter & Gamble Italia avverso la sentenza di primo grado – che aveva accertato la illegittimità della causale apposta al primo dei contratti di lavoro interinale e di somministrazione di lavoro a tempo determinato, concluso con M.C., e la sussistenza di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato con l’utilizzatore – condannava la società al pagamento di un’indennità nella misura di dieci mensilità dell’ultima retribuzione mensile globale di fatto, pari ad Euro 1.625,96, con accessori di legge dalla data della decisione.

La Corte disattendeva la censura relativa alla risoluzione del rapporto per mutuo consenso, posto che l’appellante non aveva assolto in alcun modo all’onere di provare le circostanze dalle quali potesse ricavarsi la volontà chiara e certa di porre fine al rapporto e che a nulla valeva invocare il lasso di tempo trascorso tra la cessazione del rapporto di lavoro interinale e la proposizione da parte della lavoratrice dell’azione intesa a fare dichiarare la nullità del contratto e all’accertamento della avvenuta instaurazione in capo all’azienda utilizzatrice di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato, anche in considerazione della circostanza che tale lasso di tempo era inferiore al termine prescrizionale breve di cinque anni.

Richiamati i casi previsti dalla L. n. 196 del 1997 di ricorso alla fornitura di lavoro temporaneo, osservava il giudice del gravame che nei contratti oggetto di causa era pacifico che si facesse riferimento genericamente ai casi previsti dai contratti collettivi nazionali della categoria di appartenenza dell’impresa utilizzatrice, stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi e che, benchè la società in comparsa si fosse richiamata all’incremento produttivo verificatosi all’interno del magazzino DC dello stabilimento di (OMISSIS), di tali ragioni non vi era traccia in contratto, così come, con riferimento ad altro contratto interinale stipulato in ragione di non meglio specificate “punte di più intensa attività”, era stata nella memoria richiamata tutt’altra esigenza relativa ad incremento produttivo verificatosi all’interno del Magazzino Dc dello stabilimento di (OMISSIS), il che impediva “un’effettiva verifica, da parte del lavoratore durante la prestazione e da parte del Tribunale in sede di giudizio, in merito all’effettiva rispondenza rapporto di lavoro – specifica esigenza aziendale indicata in contratto-generica condizione prevista per legge o disciplina collettiva richiamata nel medesimo negozio”. Aggiungeva la Corte che, pure essendo ciò sufficiente a confermare la sentenza oggetto di gravame, era stato dato comunque ingresso alla prova testimoniale che non aveva, tuttavia, recato conforto alle ragioni sostenute dalla società.

Per la cassazione di tale decisione ricorre la società, affidando l’impugnazione a quattro motivi, cui resiste, con controricorso, la M..

Con il primo motivo, viene denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1372 e 2697 c.c., rilevandosi che l’accettazione della scadenza del termine in tutti i rapporti interinali senza muovere obiezioni, la corresponsione e l’accettazione sistematica e silente delle competenze di fine rapporto, nonchè il lasso di tempo trascorso prima di intentare l’azione inducono nella parte datoriale la legittima convinzione che il rapporto sia da ritenere risolto per entrambe le parti, per cui erroneamente la Corte del merito aveva ritenuto insussistenti i presupposti per addivenire a diversa soluzione della questione. Nella specie, per di più, non era stata considerata la rilevante circostanza che la M. aveva svolto, successivamente alla scadenza dei contratti, a partire dal dicembre 2007, attività lavorativa presso diverse società e che non aveva provveduto a costituire immediatamente in mora la società resistente in ossequio ai principi generali di correttezza e di buona fede nell’esecuzione del contratto. Peraltro, era necessario considerare che con la L. n. 183 del 2010 era stato previsto un doppio termine di decadenza e di inefficacia per azionare i propri diritti, specificandone l’applicabilità anche ai casi in cui si faccia valere la nullità del termine apposto al contratto di lavoro e comunque a tutti i casi sin cui si chieda la costituzione di un rapporto di lavoro in capo a soggetto diverso dal titolare del contratto, sicchè se un termine di 300 giorni era da ritenere congruo ai fini della proposizione dell’azione giudiziaria dalla cessazione del rapporto, non poteva ritenersi ammissibile che un lavoratore potesse rimanere del tutto inerte per un periodo superiore ad un anno, senza con ciò manifestare evidente disinteresse alla prosecuzione del rapporto di lavoro.

Con il secondo motivo, viene dedotta violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, comma 2, lett. c) e art. 5, della L. n. 196 dl 1997, art. 3, comma 3 e dell’art. 10 cit. L., evidenziandosi che tali norme non prevedono affatto la specificazione dei motivi, quale elemento essenziale del contratto di fornitura di manodopera e che era da ritenere ultronea ai fin della legittimità dei rapporti di lavoro temporaneo la specificazione della causale nel contratto suddetto. Ai fini di autosufficienza, per provare che l’onere di specificità era stato comunque assolto, veniva riportato il testo dei contratti di fornitura di lavoro temporaneo tra la Pocter & Gamble Italia spa e la Manpower spa in esecuzione dei quali era stata prestata l’attività lavorativa della M., nonchè l’art. 3 d) a) n. 2 del ccnl chimico Farmaceutico del 12.2.2002, per sostenere che la stipula dei contratti era conseguente all’intensificarsi dell’attività produttiva prevista presso lo stabilimento di (OMISSIS) nei singoli periodi, eventi fronteggiati con l’utilizzazione della M. in qualità di “addetto data entro”. Il riferimento alle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva senza ulteriori specificazioni doveva, poi, ritenersi sufficiente per la legittimità della causale, tenuto conto del fatto che la dizione utilizzata, con riferimento a ragione produttiva per picchi di attività, non era affatto generica. Osserva, poi, che la nullità del contratto di lavoro temporaneo è comminata solo per il caso di mancanza di forma scritta, non essendo l’indicazione dei motivi nel contratto di fornitura rilevante nei sensi ritenuti dalla Corte del merito.

Con il terzo motivo, la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, commi 1, 2 e 5, e art- 10, commi 1 e 2 cit. Legge, nonchè dell’art. 2697 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., osservando che le circostanze indicate nei capi di prova avevano trovato piena conferma nella indagine istruttoria espletata in secondo grado e che anche la documentazione prodotta con la memoria di costituzione in primo grado dimostrava ulteriormente l’effettiva sussistenza delle specifiche esigenze produttive ed organizzative dedotte.

Infine, con il quarto motivo, si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 183 del 2010, art. 32 rilevandosi che i criteri individuati dalla L. n. 604 del 1966 richiamati dalla norma suindicata non erano stati osservati.

La ricorrente si duole della violazione e falsa applicazione della L. n. 196 del 1997, art. 10, sostenendo che, nel caso di ritenuta illegittimità del contratto di fornitura per uno o più motivi previsti dalla L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, debba dichiararsi che il datore di lavoro è il soggetto interponente e non il soggetto interposto, fermo restando, però, il termine apposto al contratto, che non viene intaccato dalla novazione soggettiva che consegue alla dichiarata illegittimità.

Il primo motivo è infondato. Invero, l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell’1/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; Cass. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; Cass. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; Cass. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; Cass. sez. lav. n. 17674 dell’1/12/02) – rispetto al quale non si rinvengono ragioni di dissenso – è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a far considerare sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contratto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e ex art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione “ex lege” per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale con può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà delle parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).

Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe “contra legem” anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti.

Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare “una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo” (v. anche, sebbene risalenti, Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003). Tali non possono ritenersi le circostanze indicate dal ricorrente (in effetti solo il decorso del tempo accompagnato dalla inerzia del lavoratore ed il richiamo a norma sui termini di impugnazione del Collegato Lavoro) che già in altre pronunce di questa Corte, per il loro significato non univoco, non sono state apprezzate come fatti concludenti ai fini della configurazione di una ipotesi di risoluzione del rapporto per mutuo consenso.

Orbene nella fattispecie la Corte d’Appello ha rilevato che la società non aveva dedotto alcuna circostanza significativa rispetto al mero decorso del tempo, essendo il lasso temporale di non attuazione del rapporto non rilevante e non potendo attribuirsi significatività alla percezione del t.f.r. senza riserve o a ipotetiche prestazioni lavorative presso terzi. Tale accertamento di fatto, compiuto dalla Corte di merito, risulta aderente al principio sopra richiamato e resiste alle censure della società ricorrente che, in sostanza, si incentrano genericamente sulla proposizione di una diversa lettura della inerzia, pur prolungata, del lavoratore e della riscossione senza riserve, da parte della stessa, delle indennità di fine rapporto. La previsione di termini decadenziali da parte di normativa successiva relativa anche alla azione diretta a far valere la nullità del termine apposto al contratto di lavoro si pone su un piano diverso e semmai conferma la validità della tesi accolta con riferimento a contratti impugnati sotto il vigore di diversa disciplina giuridica.

La tesi, posta a fondamento del secondo motivo, della possibilità di non indicare ragioni specifiche per il ricorso al lavoro interinale, è stata ritenuta priva di fondamento da numerose sentenze di questa Corte, alle quali si rinvia (Cass. 23684/2010; Cass., 13960/2010; Cass. 232/2012, che, in particolare, ha affermato “in materia di contratto di lavoro interinale, la mancata o la generica previsione, nel contratto intercorrente tra l’impresa fornitrice ed il singolo lavoratore, dei casi in cui è possibile ricorrere a prestazioni di lavoro temporaneo, in base ai contratti collettivi dell’impresa utilizzatrice, spezza l’unitarietà della fattispecie complessa voluta dal legislatore per favorire la flessibilità dell’offerta di lavoro nella salvaguardia dei diritti fondamentali del lavoratore e fa venir meno quella presunzione di legittimità del contratto interinale, che il legislatore fa discendere dall’indicazione nel contratto di fornitura delle ipotesi in cui il contratto interinale può essere concluso”).

Occupandosi di contratti interinali in cui l’indicazione della causale era, come in quello in esame, di mero e generico rinvio alla contrattazione collettiva, questa Corte ha affermato che “il contratto, invece di specificare la causale all’interno delle categorie consentite dalla legge, si limita a riprodurre il testo dell’art. 1, lett. a) cit. legge, senza compiere alcuna specificazione: non si specifica a quali contratti collettivi nazionali applicabili all’impresa utilizzatrice si fa riferimento, nè, tanto meno, come sarebbe necessario, a quale delle ipotesi previste dalla contrattazione collettiva si fa riferimento.

La genericità della causale rende il contratto illegittimo, per violazione della L. n. 196 del 1997, art. 1, commi 1 e 2, che ne consente la stipulazione solo per le esigenze di carattere temporaneo rientranti nelle categorie specificate nel comma 2, esigenze che il contratto di fornitura non può quindi omettere di indicare, nè può indicare in maniera generica e non esplicativa, limitandosi a riprodurre il contenuto della previsione normativa”. Nella specie il richiamo al ceni è effettuato solo ai fini dell’inquadramento e della retribuzione del lavoratore e, come correttamente evidenziato dalla Corte del merito, il riferimento generico contenuto nel contratto di fornitura alle “punte di più intensa attività” ed all’incremento produttivo nel magazzino Dc di (OMISSIS)”, escludeva che la causale fosse stata indicata con sufficiente determinatezza.

Per giurisprudenza costante di questa Corte l’illegittimità del contratto interinale comporta le conseguenze previste dalla legge sul divieto di intermediazione e interposizione nelle prestazioni di lavoro, e quindi l’instaurazione del rapporto di lavoro con il fruitore della prestazione, cioè con il datore di lavoro effettivo.

Infatti, la L. n. 196 del 1997, art. 10, comma 1, collega alle violazioni delle disposizioni di cui all’art. 1, commi 2, 3, 4 e 5 (cioè violazioni di legge concernenti proprio il contratto commerciale di fornitura) le conseguenze previste dalla L. n. 1369 del 1960, consistenti nel fatto che “i prestatori di lavoro sono considerati, a tutti gli effetti, alle dipendenze dell’imprenditore che effettivamente abbia utilizzato le loro prestazioni”.

In tal senso questa S.C. si è espressa, in modo univoco e n. 23684; Cass. 24 giugno 2011 n. 13960; Cass. 5 luglio 2011 n. 14714; Cass. 12.1.2012 n. 232; Cass. 29 maggio 2013 n. 13404 alle cui motivazioni si rinvia per ulteriori approfondimenti.

Le medesime sentenze hanno precisato che, quando il contratto di lavoro che accompagna il contratto di fornitura è a tempo determinato, alla conversione soggettiva del rapporto, si aggiunge la conversione dello stesso da lavoro a tempo determinato in lavoro a tempo indeterminato, per intrinseca carenza dei requisiti richiesti dal D.Lgs. n. 368 del 2001, o dalle discipline previgenti, a cominciare dalla forma scritta, che ineluttabilmente in tale contesto manca con riferimento al rapporto tra impresa utilizzatrice e lavoratore (sul punto, v. anche: Cass. 1148 del 2013 e Cass. 6933 del 2012).

L’effetto finale in questi casi è la conversione del contratto per prestazioni di lavoro temporaneo in un ordinario contratto di lavoro a tempo indeterminato tra l’utilizzatore della prestazione, datore di lavoro effettivo, e il lavoratore.

A tale ricostruzione si è attenuta la Corte d’appello di Roma nella sentenza qui impugnata.

Con riguardo al terzo motivo, è sufficiente osservare, quanto alla denunciata violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. e art. 2697 c.c., che parte ricorrente incorre nell’equivoco di ritenere che la violazione o la falsa applicazione di norme di legge, sostanziale o processuale, dipendano o siano ad ogni modo dimostrate dall’erronea valutazione del materiale istruttorio. Al contrario, un’autonoma questione di malgoverno degli artt. 115 e 116 c.p.c. e dell’art. 2697 c.c. può porsi, rispettivamente, solo allorchè il ricorrente alleghi che il giudice di merito: 1) abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti ovvero disposte d’ufficio al di fuori o al di là dei limiti in cui ciò è consentito dalla legge; 2) abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova che invece siano soggetti a valutazione; 3) abbia invertito gli oneri probatori. E poichè, in realtà, nessuna di queste tre situazioni è rappresentata nei motivi anzi detti, le relative doglianze sono mal poste.

E’ pur vero che la ricorrente si duole della erronea valutazione della prova per testi espletata e della documentazione prodotta, ritenute sufficienti a dare contezza dell’effettività delle ragioni del ricorso al lavoro temporaneo. Tuttavia, mancano elementi per ritenere che il giudice di merito abbia errato nell’utilizzo del potere discrezionale attribuitogli dagli arti. 115 e 116 c.p.c.

Va, in ogni caso, aggiunto, quanto ai suddetti profili di violazione di legge, che è costante l’insegnamento di questa Corte per cui il vizio di violazione e falsa applicazione della legge di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, deve essere, a pena di inammissibilità, dedotto non solo con l’indicazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (così e per tutte, Cass. n. 16038/13).

E’ di tutta evidenza che, tanto con riguardo alle sopra indicate violazioni di legge quanto con riguardo al preteso malgoverno delle risultanze istruttorie, pur sotto un’intitolazione evocativa dei casi di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3, parte ricorrente non ha formulato altro che pure questioni di merito, il cui esame è per definizione escluso in questa sede di legittimità.

In merito al quarto motivo, va rilevato che la Corte di merito ha indicato le ragioni per le quali ha ritenuto di determinare in dieci mensilità la indennità di cui all’art. 32 cit. individuandole, da una parte, nelle dimensioni della società datrice di lavoro, dall’altra, nella durata dei numerosi contatti e proroghe che rifluisce nel criterio comportamento delle parti. Si tratta, all’evidenza, di una corretta applicazione dei criteri di cui al citato L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8 involgente, peraltro, valutazioni di merito che non possono essere sindacate in questa sede.

Alla luce delle indicate considerazioni, si propone il rigetto del ricorso”.

Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della suddetta relazione, unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Osserva il Collegio che il contenuto della sopra riportata relazione sia pienamente condivisibile siccome coerente alla giurisprudenza di legittimità in materia e che ciò comporta la reiezione del ricorso della società.

Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza della ricorrente e si liquidano nella misura indicata in dispositivo, disponendosene l’attribuzione in favore del difensore del M., dichiaratosene antistatario.

Attesa la proposizione del ricorso in tempo posteriore al 30 gennaio 2013, vigente il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 deve rilevarsi, in ragione del rigetto dell’impugnazione, la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’ulteriore contributo unificato previsto dall’indicata normativa, posto a carico della ricorrente (cfr. Cass. Sez. Un. n. 22035/2014).

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la società al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborsi delle spese forfetarie in misura del 15%, con attribuzione all’avv. Michelangelo Salvagni.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del citato D.P.R., art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2016

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