Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25926 del 16/12/2016

Cassazione civile, sez. VI, 15/12/2016, (ud. 08/11/2016, dep.15/12/2016),  n. 25926

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE L

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CURZIO Pietro – Presidente –

Dott. ARIENZO Rosa – rel. Consigliere –

Dott. FERNANDES Giulio – Consigliere –

Dott. GARRI Fabrizia – Consigliere –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 12861/2015 proposto da:

D.E., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA CASSIODORO

1/A, presso lo studio dell’avvocato GIANFRANCO FALCONE,

rappresentato e difeso dall’avvocato GIUSEPPE ORSINI, giusta procura

in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

TEATESERVIZI SRL, in persona del suo legale rappresentante pro

tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, PIAZZA ADRIANA 20 presso

lo studio dell’avvocato EMANUELE PAGLIARO, che la rappresenta e

difende, giusta procura speciale a margine del controricorso;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 194/2015 della CORTE D’APPELLO di L’AQUILA,

depositata il 05/03/2015;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio

dell’08/11/2016 dal Consigliere Relatore Dott. ROSA ARIENZO;

udito l’Avvocato Giuseppe Gialloreto (delega avvocato Giuseppe

Orsini) difensore del ricorrente che si riporta ai motivi scritti.

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 5.3.2015, la Corte di appello di L’Aquila accoglieva l’appello della s.r.l. Teateservizi per quanto di ragione, respingeva il primo motivo di gravame incidentale, dichiarando assorbito il secondo, e, in parziale riforma della sentenza di primo grado, confermata per il resto, respingeva la domanda di risarcimento del danno proposta da D.E. con il ricorso introduttivo.

Per quel che interessa nella presente sede, la Corte rilevava che era infondato il primo motivo dell’ appello incidentale proposto da quest’ultimo, con il quale era contestata la ritenuta applicabilità D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, alla società in esame, in quanto questa era sorta per garantire la prestazione di servizi in favore di Ente locale secondo lo schema organizzativo del cd. in house providing, con conseguente esclusione dell’estensione delle previsioni normative ordinarie sulla conversione del rapporto di lavoro in ipotesi di illegittimo ricorso allo schema della somministrazione di manodopera. Riteneva, invece, che dovesse accogliersi l’appello principale della società per avere il lavoratore con l’atto introduttivo del giudizio formulato richiesta di risarcimento del danno correlata alla costituzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato con la società utilizzatrice, senza allegare alcun tipo di pregiudizio.

Dalla reiezione della richiesta di risarcimento discendeva, poi, il rigetto del motivo di appello incidentale inteso ad ottenere la quantificazione del danno in misura pari a 20 mensilità della retribuzione globale di fatto.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il D., affidando l’impugnazione a due motivi, cui resiste, con controricorso, la società. Sono seguite le rituali comunicazioni e notifica della relazione redatta ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., unitamente al decreto di fissazione della presente udienza in Camera di consiglio.

Con il primo motivo, viene dedotta nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, rilevandosi che il giudice del gravarne aveva errato nella qualificazione della domanda proposta in giudizio, con conseguente violazione dell’art. 112 c.p.c., avendo esso istante, oltre a chiedere l’imputazione del rapporto di lavoro alla Teateservizi s.r.l., richiesto di essere risarcito in conseguenza dell’illegittima utilizzazione con i contratti di somministrazione impugnati.

Con il secondo motivo, si ascrive alla decisione impugnata violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, sul rilievo che non era stata disposta la condanna della società resistente al risarcimento del danno di cui al D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, dovendo applicarsi d’ufficio l’indennità forfetizzata e omnicomprensiva per i danni causati dalla nullità del termine di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5, anche riguardo al rapporto intercorso con una P.A.. Si sostiene che, alla stregua di quanto disposto da tale articolo, vada effettuata la quantificazione del risarcimento del danno cui il lavoratore ha diritto, con onere a suo carico di allegare e dimostrare unicamente i fatti che rendono il contratto illegittimo, essendo il risarcimento configurabile come una sorta di sanzione ex lege a carico del datore di lavoro.

I due motivi possono essere trattati congiuntamente in relazione alla connessione delle questioni che ne costituiscono l’oggetto.

La s.r.l. Teateservizi è inquadrabile nella categoria delle società di capitali in house providing, società costituite da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente i medesimi enti possono essere soci, che, per statuto esplicano la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione assoggettata a forme di controllo analoghe a quelle esercitate dagli enti pubblici sui propri uffici come tali (cfr. Cass. SU 25/11/2013 n. 26283, Cass. SU 10/03/2014 n. 5491).

Con riferimento alla tematica del rapporto di lavoro a tempo determinato nel pubblico impiego in violazione di legge, ripetuto è il principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis Cass., sez. lav., 15/6/2010, n. 14350 e da, ultimo Cass. S.U. 15/3/2016 n. 5072) secondo cui il rapporto lavoro non è suscettibile di conversione in rapporto a tempo indeterminato, stante il divieto posto dal D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 36, il cui disposto non è stato modificato dal D.Lgs. n. 368 del 2001, contenente la regolamentazione dell’intera disciplina dei lavoro a tempo determinato.

Di qui la conseguenza che, in caso di violazione di norme poste a tutela dei diritti del lavoratore, è preclusa la conversione del rapporto, sussistendo solo il diritto al risarcimento dei danni subiti, così come affermato dai giudici di merito, che però hanno in concreto diversamente statuito.

Ciò premesso, la questione nodale sulla quale si sono appuntate le doglianze di parte ricorrente attiene, alla individuazione degli effetti risarcitori scaturenti dalla violazione di legge nei contratti di somministrazione a termine, effetti esclusi nella specie dal giudice del gravame sul rilievo che la domanda di risarcimento era stata prospettata dal D. quale conseguenza della conversione del rapporto di lavoro ed in base alla considerazione che non era stato allegato alcun tipo di pregiudizio.

Preliminarmente va osservato che, in ambito privatistico, la problematica dell’assimilabilità delle conseguenze risarcitorie conseguenti all’illegittimità del termine a quelle dell’illegittimità della somministrazione temporanea è stata affrontata in numerose pronunce (vedi Cass. 17/1/2013 n. 1148, Cass. 8/9/2014 n. 18861, Cass. 7/7/2015 n. 14033) con le quali si è affermata, nel caso in cui siano state violate le norme di legge sulla apposizione del termine al contratto di somministrazione, l’applicazione della L. 14 novembre 2010, n. 183, art. 32, del quale è stata patrocinata un’interpretazione di tipo sostanzialista, fondata sulla sostanziale inclusione nel suo raggio di applicazione, sia del lavoro somministrato che di quello temporaneo (cfr., da ultimo Cass. 6.10.2016 n. 20060, alle cui argomentazioni si rinvia).

In ambito privatistico, alla nullità del termine o al carattere irregolare del contratto interinale consegue la nullità parziale relativa alla sola clausola e l’instaurazione di un rapporto di lavoro subordinato rispettivamente con il datore di lavoro o con l’utilizzatore, laddove, con riferimento al settore del pubblico impiego – cui va equiparata l’ipotesi delle società in house – si è individuata una disciplina del piano risarcitorio “comunitariamente adeguata” in un ambito normativo omogeneo, che è quello del risarcimento del danno nel rapporto a tempo determinato nel lavoro privato.

Il dipendente pubblico che subisce la precarizzazione per effetto di una successione di contratti a termine connotata da abusività (nella specie – con riferimento alla posizione del D. – mancanza del carattere durevole e non temporaneo delle esigenze sottese ai contratti di somministrazione più volte prorogati) non perde alcun posto di lavoro alle dipendenze dell’Amministrazione pubblica per la quale ha lavorato ed al quale non avrebbe mai avuto diritto non avendo superato il vaglio di un concorso pubblico per un posto stabile (cfr. Cass. 20060/2016 cit.).

Il danno per il dipendente pubblico è stato ravvisato nella perdita di chance della occupazione alternativa migliore e tale è anche la connotazione intrinseca del danno, seppur più intenso, ove il termine sia illegittimo per abusiva reiterazione dei contratti.

La fattispecie omogenea, sistematicamente coerente e strettamente contigua, è invece quella della L. n. 183 del 2010, cit. art. 32, comma 5, che prevede – per l’ipotesi di illegittima apposizione del termine al contratto a tempo determinato nel settore privato – che “il giudice condanna il datore di lavoro al risarcimento del lavoratore stabilendo un’indennità onnicomprensiva nella misura compresa tra un minimo di 2,5 ed un massimo di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, avuto riguardo ai criteri indicati nella L. 15 luglio 1966, n. 604, art. 8” (in tal senso già Cass. 21/8/2013, n. 19371).

La misura dissuasiva ed il rafforzamento della tutela del lavoratore pubblico, quale richiesta dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, è proprio in questa agevolazione della prova, da ritenersi in via di interpretazione sistematica orientata dalla necessità di conformità alla clausola 5 dell’accordo quadro: il lavoratore è esonerato dalla prova del danno nella misura in cui questo è presunto e determinato tra un minimo ed un massimo.

La trasposizione di questo canone di danno presunto esprime anche una portata sanzionatoria della violazione della norma comunitaria sì che il danno così determinato può qualificarsi come danno comunitario nel senso che vale a colmare quel deficit di tutela, ritenuto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, la cui mancanza esporrebbe la norma interna (art. 36, comma 5, cit.), ove applicabile nella sua sola portata testuale, ad essere in violazione della clausola 5 della direttiva e quindi ad innescare un dubbio di sua illegittimità costituzionale; essa quindi esaurisce l’esigenza di interpretazione adeguatrice (così, in motivazione, Cass. S.U. 15/3/2016 n. 5072).

In conclusione, pacifico il carattere irregolare della somministrazione di lavoro temporaneo, dalle esposte considerazioni deve farsi discendere l’accoglimento del ricorso, non essendo ravvisabile alcuna necessità di prova di un pregiudizio, che è automaticamente connesso alla violazione delle norme di riferimento.

La sentenza impugnata va, pertanto, cassata in relazione alle censure accolte e la causa può essere decisa nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, con la liquidazione, per il pregiudizio risentito dal lavoratore (che va riconosciuto in virtù dell’agevolazione probatoria suindicata, indipendentemente da ogni prova) di un’indennità quantificata ai sensi del citato art. 32 co. 5 legge n. 183/10. Questa può essere determinata nella misura già indicata dal primo giudice (nove mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto), evincendosi dal tipo di deduzioni formulate nel secondo motivo del presente ricorso che il D. abbia rinunciato a pretese eccedenti la misura contenuta tra il minimo ed il massimo di cui alla L. n. 183 del 2010, art. 32, comma 5 (non si richiamano allegazioni e deduzioni probatorie avanzate nei precedenti gradi, relative ad un pregiudizio ulteriore, oltre quello per il quale è stato affermato l’esonero dall’onere probatorio).

Le spese dei gradi di merito possono essere confermate in ragione dell’alternanza delle decisioni e della reciproca soccombenza, laddove quelle del presente giudizio di legittimità vanno poste a carico della società soccombente nella misura indicata in dispositivo.

PQM

La Corte accoglie il ricorso, cassa la decisione impugnata in parte qua e, decidendo nel merito, condanna la società al pagamento dell’indennità risarcitoria nella misura determinata dal giudice di primo grado.

Compensa tra le parti le spese dei gradi di merito. Condanna la società al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 100,00 per esborsi, Euro 3000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonchè al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.

Così deciso in Roma, il 8 novembre 2016.

Depositato in Cancelleria il 15 dicembre 2016

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