Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25922 del 23/09/2021

Cassazione civile sez. VI, 23/09/2021, (ud. 16/09/2021, dep. 23/09/2021), n.25922

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SESTA CIVILE

SOTTOSEZIONE 1

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Presidente –

Dott. DI MARZIO Mauro – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. CAMPESE Eduardo – rel. Consigliere –

Dott. AMATORE Roberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 13828-2020 proposto da:

C.O., rappresentato e difeso, giusta procura speciale in calce

al ricorso, dall’Avvocato Giuseppe Briganti, presso il cui studio

elettivamente domicilia in Fermignano (PU), alla via R. Ruggeri n.

2/A;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DELL’INTERNO, in persona del Ministro pro tempore;

– intimato –

avverso il decreto n. 1603/2020 del TRIBUNALE di ANCONA, depositato

il 10/02/2020;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di Consiglio non

partecipata del 16/09/2021 dal Consigliere Relatore Dott. CAMPESE

EDUARDO.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. C.O., nativo del Gambia, ricorre per cassazione, affidandosi a quattro motivi, contro il “decreto” del Tribunale di Ancona del 10 febbraio 2020, reiettivo della sua domanda volta ad ottenere il riconoscimento dello status di rifugiato o della protezione sussidiaria o di un permesso di soggiorno per motivi umanitari. Il Ministero dell’Interno non si è costituito nei termini di legge, ma ha depositato un “atto di costituzione” al solo fine di prendere eventualmente parte alla udienza di discussione ex art. 370 c.p.c., comma 1.

1.1. Quel tribunale ritenne scarsamente credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale) e, comunque, che i motivi addotti da lui a sostegno delle sue richieste fossero inidonei a consentirne l’accoglimento.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. I formulati motivi prospettano, rispettivamente:

I) “Nullità del decreto impugnato, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4, per violazione del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, commi 1, 11, lett. a), e 13, nonché degli artt. 737 e 135 c.p.c. e dell’art. 156c.p.c., comma 2, dell’art. 106Cost., comma 2, e dell’art. 111 Cost., comma 6, e della L. n. 46 del 2017, art. 2”. Ci si duole dell’assenza di motivazione in merito alle ragioni della ritenuta inverosimiglianza delle affermazioni del richiedente, alla luce delle critiche che erano state rivolte alla decisione della commissione territoriale e dei documenti in atti, e si aggiunge, tra l’altro, che: a) all’udienza del 28 novembre 2019, il richiedente era comparso, ma non era stata compiuta alcuna specifica indagine in merito alle circostanze rilevanti ai fini della decisione; b) la fissazione dell’udienza nel caso in cui, come nella specie, manchi la videoregistrazione del colloquio dinanzi alla commissione svolge la funzione di valutare le dichiarazioni del richiedente in tutti i suoi risvolti anche non verbali; c) pertanto, in tale ipotesi, è necessario disporre l’interrogatorio libero del richiedente – nel caso di specie, tra l’altro, espressamente richiesto – destinato a svolgersi dinanzi all’intero collegio, senza possibilità di delega al solo relatore (che, peraltro, lo aveva a sua volta affidato ad un GOT); la necessaria procedimentalizzazione della valutazione di credibilità delle dichiarazioni del richiedente impone uno scrutinio dei criteri normativamente previsti a tali fini; e) che il tribunale, enunciati siffatti criteri, si era focalizzato su aspetti secondari, senza procedere ad una compiuta e globale valutazione della narrazione del ricorrente, alla luce delle critiche che erano state articolate con il ricorso; A che, ancora, non era dato comprendere se il tribunale avesse, o non, ritenuto credibile la narrazione del ricorrente; g) che nel decreto impugnato manca un riferimento alle fonti attuali, al momento della decisione, sulla situazione socio-economico-politica del Gambia e sulla possibilità per una persona nella specifica situazione del richiedente di trovare idonea ed effettiva protezione da parte delle autorità locali; h) che neppure era dato rinvenire, con riguardo alla invocata protezione per motivi umanitari, l’indicazione delle ragioni destinate ad esprimere l’effettiva valutazione comparativa richiesta dalla legge;

II) “Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5”, con riguardo alle circostanze ed alle fonti normative indicate nel primo motivo di ricorso;

III) “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento all’art. 2 Cost., all’art. 10 Cost., comma 3 e all’art. 32, Cost.; alla L. n. 881 del 1977, art. 11; al D.Lgs. n. 25 del 2008, artt. 8, 9, 10, 13, 27, 32 e art. 35-bis, comma 11, ed all’art. 16 della direttiva Europea n. 2013/32, nonché agli artt. 2, 3, – anche in relazione all’art. 115 c.p.c., del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 5, 6, 7 e 14 e al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, e art. 19, comma 2”. Si sottolinea che il giudice, per formulare un giudizio di inattendibilità delle dichiarazioni del ricorrente, avrebbe dovuto esaminarle nella loro globalità, nel rispetto del dovere di cooperazione istruttoria. Nel prosieguo, si riproducono le considerazioni svolte nel primo motivo, a proposito della necessità di procedere all’audizione del richiedente, in caso di assenza della videoregistrazione, e si richiamano i principi in materia di cooperazione istruttoria, di valutazione della credibilità del ricorrente, di ricorso a fonti aggiornate;

IV) “Violazione e/o falsa applicazione di norme di diritto, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in riferimento agli artt. 6 e 13 della Convenzione EDU, all’art. 47 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea ed all’art. 46 della Direttiva Europea n. 2013/32”, richiamandosi le argomentazioni dei precedenti motivi ed aggiungendosi che il principio di effettività del ricorso non può dirsi rispettato in presenza della denunciata violazione del dovere di cooperazione istruttoria da parte del giudice.

2. I quattro motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione, quando non letterale sovrapposizione. Muovendo, in ordine logico, dai profili di carattere processuale, si rileva quanto segue.

2.1. Il ricorrente, dopo avere sottolineato la necessità della sua audizione, si duole del fatto che sarebbe comparso dinanzi al solo relatore (anzi, innanzi ad un GOT da questi delegato), senza alcuna specifica indagine in merito alle circostanze rilevanti per la decisione.

2.1.1. Ora, preliminarmente, si osserva che, come recentemente puntualizzato da Cass. 11 novembre del 2020, n. 25312, il giudice che sia investito del ricorso contro il provvedimento di rigetto della domanda di protezione internazionale può esimersi dall’audizione del richiedente se a quest’ultimo, nella fase amministrativa, sia stata data la facoltà di essere sentito e il verbale del colloquio, ove avvenuto, sia stato reso disponibile (cfr. Cass. n. 15318 del 2020). Difatti nel giudizio d’impugnazione innanzi all’autorità giudiziaria, ove sia mancata la videoregistrazione del colloquio svoltosi dinanzi alla commissione territoriale, all’obbligo del giudice di fissare l’udienza non consegue automaticamente quello di procedere all’audizione del richiedente, purché sia stata garantita a costui la facoltà di rendere le proprie dichiarazioni o davanti alla commissione territoriale Cass. n. 2917 del 2019; Cass. n. 5973 del 2019; Cass. n. 1088 del 2020). Ciò è quanto, in base al decreto oggi impugnato, si evince esser avvenuto nel caso di specie. Occorre precisare che la ripetuta interpretazione è conforme agli artt. 12, 14, 31 e 46 della direttiva 2013/32-UE, secondo l’interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia con la sentenza 26 luglio 2017, C-348/16, Moussa Sacko, sicché neppure sarebbe ravvisabile una violazione processuale, sanzionabile a pena di nullità, nell’omessa audizione personale della richiedente, poiché l’audizione comunque non si traduce in un incombente automatico, neppure dinanzi all’affermata non credibilità del racconto. Vi e’, semmai, il diritto della parte di richiedere l’audizione personale a fronte di specifiche circostanze di fatto che si intendano chiarire. Diritto cui si collega, tuttavia, il potere officioso del giudice di valutare la rilevanza di quelle circostanze nel complesso degli elementi acquisiti, ben potendo il giudice respingere la domanda di protezione internazionale che risulti manifestamente infondata sulla sola base degli elementi di prova desumibili dagli atti e di quelli emersi attraverso l’audizione svoltasi nella fase amministrativa Cass. n. 8931 del 2020, per quanto correlata a fattispecie soggetta al previgente D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35). Contigua a codesti principi appare anche la recente affermazione della sentenza di questa sezione n. 21584 del 2020, che, all’esito di ampia motivazione, ha fissato il principio per cui: “nei giudizi in materia di protezione internazionale il giudice, in assenza della videoregistrazione del colloquio svoltosi dinnanzi alla commissione territoriale, ha l’obbligo di fissare l’udienza di comparizione, ma non anche quello di disporre l’audizione del richiedente, a meno che: a) nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi a sostegno della domanda; b) il giudice ritenga necessaria l’acquisizione di chiarimenti in ordine alle incongruenze o alle contraddizioni rilevate nelle dichiarazioni del richiedente; c) quest’ultimo nel ricorso non ne faccia istanza, precisando gli aspetti in ordine ai quali intende fornire i predetti chiarimenti, e sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”. Sennonché affermare l’inesistenza dell’obbligo di audizione a meno che nel ricorso vengano dedotti fatti nuovi, ovvero il giudice ritenga necessaria l’acquisizione (chiarimenti, ovvero ancora l’istanza sia corredata da precise indicazioni sui singoli aspetti da chiarire, e “sempre che la domanda non venga ritenuta manifestamente infondata o inammissibile”), equivale a costruire l’audizione pur sempre come oggetto di una facoltà, non di un obbligo; sebbene di una facoltà che, laddove esercitata in un senso o nell’altro, presupponga (come ovvio) l’esplicitazione dei motivi della afferente decisione. Cosicché anche in base al citato precedente l’istanza di audizione non può essere dal ricorrente considerata come finalizzata all’esercizio di un diritto potestativo, come sarebbe se al fondo di essa fosse riscontrabile un incombente processuale automatico, necessariamente insito nella fissazione dell’udienza e tale da impedire al giudice di rigettare altrimenti la domanda. Pertanto, nel solco di quanto affermato dalla citata Cass. n. 21584 del 2020 vi è da aggiungere che il corredo esplicativo dell’istanza di audizione deve risultare anche dal ricorso per cassazione, in prospettiva di autosufficienza; nel senso che il ricorso, col quale si assuma violata l’istanza di audizione, implica che sia soddisfatto da parte del ricorrente l’onere di specificità della censura, con indicazione puntuale dei fatti a suo tempo dedotti a fondamento di quell’istanza. Tale onere nella specie non risulta adempiuto, non emergendo dal ricorso le puntuali circostanze su cui il ricorrente avrebbe dovuto ulteriormente riferire.

2.1.2. Per questa ragione, mentre la mancata fissazione dell’udienza di comparizione, in assenza della videoregistrazione, comporta una nullità processuale per il vulnus inferto alle garanzie difensive, la mancata audizione dinanzi al tribunale del richiedente, in assenza di videoregistrazione, può assumere rilievo solo in quanto si sia tradotta in un vizio del percorso argomentativo della decisione, nei limiti in cui ciò è consentito nel giudizio di legittimità.

2.2. Su quest’ultimo punto si tornerà immediatamente infra, una volta esaminata la seconda questione processuale posta dal ricorrente che lamenta che la comparizione del ricorrente sarebbe avvenuta dinanzi al solo relatore e non all’intero collegio.

2.2.1. Ora, il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis, comma 1, dispone che: “Le controversie aventi ad oggetto l’impugnazione dei provvedimenti previsti dall’art. 35 anche per mancato riconoscimento dei presupposti per la protezione speciale a norma dell’art. 32, comma 3, sono regolate dalle disposizioni di cui agli artt. 737 c.p.c. e ss., ove non diversamente disposto dal presente articolo”.

2.2.2. Questa Corte ha ripetutamente escluso la nullità del procedimento nell’ambito del quale il collegio della sezione specializzata in materia di immigrazione abbia delegato ad un giudice onorario di tribunale il compito di procedere all’audizione del richiedente, riservandosi la decisione della causa all’esito di tale adempimento: in proposito, infatti, è stata richiamata la disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 116 del 2017, recante la riforma organica della magistratura onoraria, e segnatamente le disposizioni dettate dall’art. 10, che consente ai giudici professionali di delegare, anche nei procedimenti collegiali, compiti e attività ai giudici onorari, ivi compresa l’assunzione di testimoni, e dall’art. 11, il quale esclude l’assegnazione dei fascicoli ai giudici onorari soltanto per specifiche tipologie di giudizi, tra i quali non sono compresi quelli di cui al D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 35-bis (cfr. Cass. n. 23983 del 2020, in motivazione; Cass. n. 7878 del 2020; Cass. n. 4887 del 2020; Cass. n. 3356 del 2019).

2.2.3. Nella specie, però, C.O. si duole, sostanzialmente, che la delega al giudice onorario non sarebbe stata conferita direttamente dal collegio investito della decisione, ma dal giudice relatore, al quale il collegio aveva delegato il compito di procedere all’audizione. Sul punto, tuttavia, è sufficiente rimarcare che la recente Cass., SU, n. 5425 del 2021 (cfr. anche la successiva Cass. n. 20215 del 2021), smentendo il contrario orientamento espresso Cass. n. 24363 del 2020, ha definitivamente sancito che “non è affetto da nullità il procedimento nel cui ambito un giudice onorario di tribunale, su delega del giudice professionale designato per la trattazione del ricorso, abbia proceduto all’audizione del richiedente la protezione ed abbia rimesso la causa per la decisione al collegio della Sezione ipecializzata in materia di immigrazione, atteso che, ai sensi del D.Lgs. n. 116 del 2017, art. 10, commi 10 e 11, tale attività rientra senza dubbio tra i compiti delegabili al giudice onorario in considerazione della analogia con l’assunzione dei testimoni e del carattere esemplicativo dell’elencazione ivi contenuta”.

2.2.4. In definitiva, sia che il ricorrente abbia censurato la mancata audizione del ricorrente (benché sub specie di assenza di una “specifica esaustiva indagine”) sia che, sul presupposto dell’audizione, abbia solo censurato il fatto che non sia avvenuta dinanzi al collegio, le critiche processuali sono infondate.

2.3. Fermo quanto precede, le doglianze proposte si risolvono, nella sostanza, nella denuncia, di per sé inammissibile, di errata valutazione da parte del Giudice del merito del materiale probatorio acquisito ai fini della ricostruzione dei fatti sulla cui base sono state respinte le domande di protezione internazionale e di protezione umanitaria. Esse, pertanto, finiscono con l’esprimere un mero – e, come tale, inammissibile – dissenso rispetto alle motivate valutazioni delle risultanze processuali effettuate dal tribunale a proposito della condizione personale del ricorrente sulla base sia dei dati tratti da fonti accreditate, e puntualmente indicate, sia delle dichiarazioni dell’interessato.

2.4. Va rimarcato, peraltro, che, con orientamento ormai consolidato ed anche di recente ribadito da questa Corte (r., ad esempio, Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 3819 del 2020), il vizio di motivazione previsto dall’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dall’art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, né alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito. In altri termini, la “motivazione apparente” ricorre allorché la motivazione, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente – come parte del documento in cui consiste la sentenza (o altro provvedimento giudiziale) – non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perché esibisce argomentazioni obiettivamente inidonee a far riconoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento e, pertanto, non consente alcun controllo sull’esattezza e la logicità del ragionamento del giudice. In questo senso possono citarsi numerose pronunce che convergono nella indicata nozione, talora variamente accentuandone i diversi elementi (r., ex plurimis, Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 4891 del 2000; Cass. n. 1756 e n. 24985 del 2006; Cass. n. 11880 del 2007; Cass. n. 161, n. 871 e n. 20112 del 2009; Cass. n. 4488 del 2014; Cass., SU, n. 8053 e n. 19881 del 2014).

2.4.1. In particolare, in tema di valutazione delle prove e soprattutto di quelle documentali, il giudice di merito è tenuto a dare conto, in modo comprensibile e coerente rispetto alle evidenze processuali, del percorso logico compiuto al fine di accogliere o rigettare la domanda proposta, dovendosi ritenere viziata per apparenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la motivazione meramente assertiva o riferita solo complessivamente alle produzioni in atti (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 14762 del 2019; cfr., anche sulla tipologia del vizio, Cass. n. 22598 del 2018).

2.4.2. Tale non e’, però, la situazione sussistente nel caso di specie, dove, con riferimento alle forme di protezione invocata, il tribunale ha operato una valutazione del narrato del ricorrente, alla luce di fonti di informazione (puntualmente indicate), il cui aggiornamento è solo genericamente contestato dal ricorrente.

2.4.3. Invero, il tribunale dorico ha escluso che ricorressero nella vicenda narrata da C.O. – il quale aveva allegato di essere fuggito dal Gambia, suo Paese di origine, a causa di problemi familiari (lo zio lo avrebbe maltrattato e minacciato di morte perché il nipote non era disponibile a frequentare una determinata scuola islamica. Nonostante l’intervento degli anziani del villaggio e le promesse da parte della polizia, egli non avrebbe avuto protezione) – i requisiti delle forme di protezione richieste, perché: i) ha giudicato scarsamente credibili le sue dichiarazioni (così condividendo l’analogo giudizio della commissione territoriale di Ancona), osservando che “il richiedente non è stato in grado di circostanziare la vicenda (nomi, tempo, luogo), peraltro su fatti essenziali e determinanti l’espatrio, né è emerso un sincero sforzo volto a specificare la domanda; le dichiarazioni risultano incoerenti internamente ed emergono poi contraddizioni su punti principali della storia personale: i) dapprima afferma che lo zio non gli avrebbe mai creato problemi per la frequentazione di una dffirente moschea nei sei anni precedenti agli eventi narrati, poi, invece, pone a fondamento della propria domanda il forte dissenso del parente; ii) dapprima riferisce di non essersi mai ricolto alla polizia per denunciare i maltrattamenti familiari, poi, invece, dichiara che, dopo l’audizione presso gli anziani del villaggio, insieme a questi ultimi avrebbe interpellato la polizia; iii) prima sostiene di aver sopportato tale situazione fino alla morte del fratello, nel 201 5, poi dichiara di essere partito dal Senegal nel 2013; in ogni caso, la narrazione è apparsa poco plausibile rispetto alla situazione individuale (età, salute, condizione sociale) e rispetto alle informazioni acquisite in merito al Paese di origine… ” pag. 1-2 del decreto impugnato); ii) l’istante non aveva allegato di essere affiliato politicamente o di aver preso parte ad attività di associazioni di diritti civili, né di appartenere ad una minoranza etnica e/o religiosa, o di altro tipo, oggetto di persecuzione; iii) ha escluso, sulla base della consultazione di affidabili fonti di informazioni, delle quali ha pure dato puntualmente conto nel provvedimento impugnato, che in Gambia sia riscontrabile una situazione di instabilità politico-sociale di livello così elevato da potere essere qualificata nei termini di quella “violenza generalizzata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale”, che consente il riconoscimento nei confronti dello straniero della forma di protezione internazionale di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. c) (cfr. amplius, pag. 2, nonché 4-5 del menzionato decreto); iv) quanto alla invocata protezione umanitaria (da scrutinarsi alla stregua della disciplina, da ritenersi applicabile ratione temporis – cfr. Cass., SU, nn. 29459 -29461 del 2019 – di cui al D.Lgs. n. 286, art. 5, comma 6), ha evidenziato l’assenza di peculiari situazioni soggettive attestanti condizioni di vulnerabilità del richiedente protezione, nonché di un suo effettivo radicamento sul territorio dello Stato ospitante, determinato da ragioni familiari o di una concreta integrazione lavorativa, letta in connessione con il mancato riscontro di una situazione di grave compromissione dei diritti umani fondamentali nel Paese di origine, così da non consentire di pervenire ad una prognosi positiva quanto all’esposizione del richiedente, in ipotesi di rimpatrio, ad una situazione di negazione della dignità personale.

2.5. Al cospetto di un simile impianto argomentativo, sotteso al diniego di tutte le forme di protezione internazionale e corredato da una spiegazione esauriente delle ragioni atte a suffragare il rigetto delle domande proposte – sicché, come si è già detto, non si ravvisano quei radicali vizi motivazionali che oggi assumono rilievo in sede di legittimità: “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, “motivazione apparente”, “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili”, “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (cfr. Cass., SU, n. 8053 del 2014) – i formulati motivi sono complessivamente inammissibili, atteso che il tribunale ha fondato il proprio giudizio su di una lettura integrata, siccome stabilito alla disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, comma 5, lett. c), delle dichiarazioni rese da C.O., giudicate scarsamente credibili, e delle informazioni circa il suo Paese di origine, siccome ritraibili dalla consultazione di fonti qualificate ed aggiornate, e sulla base di ciò ha escluso che ricorressero le condizioni per il riconoscimento sia della protezione maggiore (status di rifugiato e protezione sussidiaria) che di quella minore.

2.5.1. Va altresì rimarcato che la giurisprudenza di legittimità ha, ancora recentemente (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 17536 del 2020; Cass. n. 18446 del 2019), chiarito che: i) la valutazione in ordine alla credibilità del racconto del cittadino straniero costituisce un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito (cfr., ex multis, Cass. n. 6191 del 2020, in motivazione; Cass. n. 32064 del 2018; Cass. n. 30105 del 2018), il quale deve ponderare se le dichiarazioni del ricorrente siano coerenti e plausibili, D.Lgs. n. 251 del 2007 ex art. 3, comma 5, lett. c). Tale apprezzamento di fatto è censurabile in Cassazione solo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, come omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, come mancanza assoluta della motivazione, come motivazione apparente, come motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile (tutte fattispecie qui insussistenti, come si è già riferito), dovendosi escludere la rilevanza della mera insufficienza di motivazione e l’ammissibilità della prospettazione di una diversa lettura ed interpretazione delle dichiarazioni rilasciate dal richiedente, trattandosi di censura attinente al merito (cfr., nel medesimo senso, Cass. n. 18550 del 2020; Cass. n. 17539 del 2020; Cass. n. 3340 del 2019). Deve, peraltro, rimarcarsi che, nella specie, la semplice lettura del decreto oggi impugnato, nella parte in cui ha negato l’attendibilità dell’odierno ricorrente, presenta una motivazione ampiamente in linea con il minimo costituzionale sancito da Cass. SU, n. 8053 del 2014; ii) in tema di riconoscimento della protezione sussidiaria, il principio secondo il quale, una volta che le dichiarazioni del richiedente siano giudicate inattendibili alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non occorre procedere ad approfondimenti istruttori officiosi, salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente dall’impossibilità di fornire riscontri probatori investe le domande formulate ai sensi del predetto decreto, art. 14, lett. a) e b) (cfr. Cass. n. 15794 del 2019; Cass. n. 4892 del 2019), mentre, quanto a quella proposta giusta la lett. c), del medesimo decreto, il provvedimento oggi impugnato ha comunque esaminato la situazione fattuale ed operato la ricostruzione della realtà socio-politica del Paese di provenienza del richiedente, compiutamente indicando le fonti internazionali consultate, ed ha rilevato che, sostanzialmente, il Gambia non si segnala attualmente alcuna significativa instabilità politica. Va solo sottolineato che, come recentemente chiarito da Cass. n. 29056 del 2019, l’eventuale omessa sottoposizione al contraddittorio delle COI (country of origin information) assunte d’ufficio dal giudice ad integrazione del racconto del richiedente, non lede il diritto di difesa di quest’ultimo, poiché, in tal caso, l’attività di cooperazione istruttoria è integrativa dell’inerzia della parte e non ne diminuisce le garanzie processuali, a condizione che il tribunale renda palese nella motivazione a quali informazioni abbia fatto riferimento, al fine di consentirne l’eventuale critica in sede di impugnazione; sussiste, invece, una violazione del diritto di difesa del richiedente quando (ma tale ipotesi non è stata minimamente dedotta nell’odierna fattispecie) costui abbia esplicitamente indicato le COI, ma il giudice ne utilizzi altre, di fonte diversa o più aggiornate, che depongano in senso opposto a quelle offerte dal ricorrente, senza prima sottoporle al contraddittorio.

2.5.2. A tanto deve soltanto aggiungersi che il D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8, comma 3, nel prevedere che “ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati…”, deve essere interpretato nel senso che l’obbligo di acquisizione di tali informazioni da parte delle Commissioni territoriali e del giudice deve essere osservato in diretto riferimento ai fatti esposti ed ai motivi svolti in seno alla richiesta di protezione internazionale, non potendo, per contro, addebitarsi la mancata attivazione dei poteri istruttori officiosi, in ordine alla ricorrenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione, riferita a circostanze non dedotte (cfr. Cass. n. 23983 del 2020; Cass. n. 2355 del 2020; Cass. n. 30105 del 2018).

2.6. La censura complessivamente afferente il diniego di rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari si rivela inammissibile, risolvendosi, sostanzialmente, in una critica al complessivo governo del materiale istruttorio operato dal giudice a quo, cui il ricorrente intenderebbe opporre una diversa valutazione delle medesime risultanze istruttorie. Nessun decisivo rilievo assume, infine, da sola, l’eventuale integrazione socio-lavorativa asseritamente raggiunta dal richiedente (ma concretamente esclusa dal tribunale. Cfr. pag. 6 dell’impugnato decreto), posto che vige nella materia de qua il principio di diritto secondo il quale non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (cfr., nelle rispettive motivazioni, Cass., SU, n. 24413 del 2021, secondo cui “… occorre operare una valutazione comparativa della situazione soggettiva ed oggettiva del richiedente con riferimento al Paese d’origine, in raffronto alla situazione d’integrazione raggiunta in Italia. Tale valutazione comparativa dovrà essere svolta attribuendo alla condizione soggettiva e oggettiva del richiedente nel Paese d’origine un peso tanto minore quanto maggiore risulti il grado di integrazione che il richiedente dimostri di aver raggiunto nel tessuto sociale italiano”; Cass., SU, n. 24959 del 2019. Cfr. anche Cass. n. 24104 del 2021, secondo cui “…lo svolgimento di attività lavorativa nel nostro Paese, da solo, non costituisce una ragione sufficiente per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari, per più ragioni: i) perché la legge non stabilisce alcun automatismo tra lo svolgimento in Italia di attività lavorativa e la sussistenza di una condizione di “vulnerabilità”; ii) perché il permesso di soggiorno per motivi umanitari è una misura temporanea, mentre lo svolgimento di attività lavorativa, in particolare a tempo indeterminato, legittimerebbe un permesso di soggiorno sine die; iii) perché la “vulnerabilità” richiesta ai fini del rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari dal D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, non può ravvisarsi nel mero rischio di regressione a condizioni economiche meno favorevoli (ex multis, Sez. 1, Ordinanza n. 17832 del 3.7.2019; Sez. 1, Ordinanza n. 17287 del 27.6.2019). Lo svolgimento di attività lavorativa in Italia, per contro, può essere solo uno dei fattori indizianti che, valutati unitamente a tutte le altre circostanze del caso concreto, può dimostrare la sussistenza di una condizione di vulnerabilità del richiedente asilo…”). A tanto deve solo aggiungersi che, come condivisibilmente affermato da Cass. n. 24904 del 2020, “in tema di protezione umanitaria, la condizione di vulnerabilità che legittima il rilascio del permesso di soggiorno di cui alla L. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, non comprende quella di svantaggio economico o di povertà estrema del richiedente asilo, perché non è ipotizzabile un obbligo dello Stato italiano di garantire ai cittadini stranieri parametri di benessere o di impedire, in caso di rimpatrio, l’insorgere di gravi dOcoltà economiche e sociali”.

2.7. A fronte di tali approfonditi rilievi, che danno conto della correttezza dell’operazione di sussunzione dei fatti allegati alle norme di legge di cui il ricorrente ha chiesto l’applicazione, le doglianze sviluppate in ricorso investono, sostanzialmente, il complessivo governo del materiale istruttorio (quanto alla sussistenza, o meno, della prova dei presupposti per la invocata protezione internazionale ed umanitaria), senza assolutamente considerare che la denuncia di violazione di legge ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, ivi formalmente proposte, non può essere mediata dalla riconsiderazione delle risultanze istruttorie (cfr. Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; Cass. n. 8315 del 2013; Cass. n. 16698 del 2010; Cass. n. 7394 del 2010; Cass., SU. n. 10313 del 2006), non potendosi surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, ulteriore grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi e, per ciò solo, censurati al fine di ottenerne la sostituzione con altri più consoni alle proprie aspettative (cfr. Cass. n. 21381 del 2006, nonché le più recenti Cass. n. 8758 del 2017 e Cass., SU, n. 34476 del 2019).

2.8. Per quanto si è detto, risulta inammissibile, perché irrilevante, anche la censura con la quale si denuncia la violazione del principio di effettività del ricorso derivante dall’asseritamente mancata utilizzazione da parte del Giudice dei poteri istruttori officiosi. Va ricordato, peraltro, che secondo la Corte di Strasburgo, requisito essenziale per il rispetto del diritto al ricorso effettivo al giudice è quello della garanzia in favore dell’interessato dell’effettiva conoscenza della facoltà di esercitare il proprio diritto a prender parte al procedimento e, di conseguenza, ad un equo processo (Corte EDU, sentenza 27/04/2017, Schmidt c. Lettonia).

2.8.1. Nella specie, il ricorrente non deduce di non aver potuto esercitare tale diritto.

3. L’odierno ricorso, dunque, va respinto, senza necessità di pronuncia in ordine alle spese di questo giudizio di legittimità, essendo il Ministero dell’Interno rimasto solo intimato, altresì dandosi atto – in assenza di ogni discrezionalità al riguardo (cfr. Cass. n. 5955 del 2014; Cass., S.U., n. 24245 del 2015; Cass., S.U., n. 15279 del 2017) e giusta quanto recentemente precisato da Cass., SU, n. 4315 del 2020 – che, stante il tenore della pronuncia adottata, “sussistono, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto”, mentre “spetterà all’amministrazione giudiziaria verificare la debenza in concreto del contributo, per la inesistenza di cause originarie o sopravvenute di esenzione dal suo pagamento”.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, giusta lo stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sesta sezione civile della Corte Suprema di cassazione, il 16 settembre 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2021

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