Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25905 del 19/11/2013


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Civile Sent. Sez. 3 Num. 25905 Anno 2013
Presidente: PETTI GIOVANNI BATTISTA
Relatore: VINCENTI ENZO

SENTENZA
sul ricorso 31832-2007 proposto da:
TERRINONI LUIGI

(TRRLGU32L19H501K),

e successivamente

proseguito dai suoi eredi TERRINONI LUCA (TRRLCU58R04H501D),
TERRINONI ANDREA (TRRNDR60M23H501I) E TERRINONI SILVIA
(TRRSLV66M68H501K), elettivamente domiciliati in ROMA, VIA
ANDREA MANTEGNA 121, presso lo studio dell’avvocato CIPRIANI
FABIO, che li rappresenta e difende giusta procura speciale
per atto notaio Cavallo rep. N. 14257 del 17 settembre 2013;
– ricorrente contro

RETE FERROVIARIA ITALIANA S.P.A (già FERROVIE DELLO STATO
2.03 SOCIETA’ DI TRASPORTI E SERVIZI PER AZIONI) in persona del
A95,4 legale rappresentante pro tempore), elettivamente domiciliata
in ROMA, VIA MUGGIA 47, presso lo studio dell’avvocato ALESII
LEONARDO, che la rappresenta e difende unitamente
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all’avvocato COSENTINO AUGUSTO giusta delega in atti;
– controricorrente –

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Data pubblicazione: 19/11/2013

avverso la sentenza n. 7154/2007 del TRIBUNALE di ROMA,
depositata il 05/04/2007, R.G.N. 56973/2005;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza
del 03/10/2013 dal Consigliere Dott. ENZO VINCENTI;
udito l’Avvocato FABIO CIPRIANI;
udito l’Avvocato LEONARDO ALESII;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale

l’inammissibilità del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
l. – Con sentenza depositata il 5 aprile 2007, il
Tribunale di Roma, nel contraddittorio tra le parti,
accoglieva l’opposizione all’esecuzione proposta dalla Rete
Ferroviaria Italiana S.p.A. avverso l’atto di pignoramento ad
essa notificato dall’avv. Luigi Terrinoni, in forza della
copia del solo dispositivo della sentenza che lo riconosceva
creditore distrattario delle spese processuali in una causa
di lavoro. L’opposto veniva, quindi, condannato al pagamento,
in favore della società opponente, delle spese processuali,
liquidate in complessivi euro 2.382,00, di cui “euro 50,00
per spese ed euro 1420,00 per competenze oltre I.V.A. e cpa
come per legge”.
2. – Per la cassazione di tale sentenza ha proposto
ricorso l’avv. Luigi Terrinoni, sulla base di due motivi.
Resiste la Rete Ferroviaria Italiana S.p.A. con
controricorso illustrato da memoria.
In forza di successiva memoria, con allegata procura
speciale notarile di nomina di difensore, si sono costituiti
Luca Terrinoni, Andrea Terrinoni e Silvia Terrinoni, eredi
dell’originario ricorrente, insistendo nelle conclusioni
rassegnate con il ricorso.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. –

Con il primo motivo è denunciata violazione

“dell’art. 360 n. 3 c.p.c. in relazione all’art. 91 c.p.c.,
all’art. 75 disp. attuazione c.p.c. e all’art. l della legge

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Dott. ANTONIETTA CARESTIA, che ha concluso per

7.11.1957, n. 1051 – Liquidazione delle spese del giudizio di
opposizione all’esecuzione in misura arbitraria,
sproporzionata ed eccessiva”.
Il Tribunale, in relazione ad un atto di pignoramento
per euro 746,17, in assenza del deposito della nota spese da
parte dell’opponente e per un giudizio di sole tre udienze,
avrebbe liquidato competenze (per euro 1420,00) ed onorari

misura superiore al dovuto, là dove la liquidazione corretta
avrebbe dovuto attestarsi in euro 389,00 per diritti ed in
euro 445,00 (o, semmai, euro 960,00) per onorari e così
complessivamente in euro 884,00 (o, semmai, euro 1.399,00),
ma non già nella liquidata somma di euro 2.382,00.
Viene, quindi, formulato il seguente quesito di diritto:
“Vero che il giudice a

quo,

nel liquidare le spese di

giudizio a carico della parte soccombente ex art. 91 c.p.c.,
I comma, ha illegittimamente ecceduto la misura determinabile
applicando le Tariffe Forensi approvate con D.M. 8/4/2004, n.
127?”.
2.

– Con il secondo mezzo è dedotta violazione

“dell’art. 360 n. 5 c.p.c. in relazione all’art. 91 c.p.c. e
all’art. 75 disp. attuazione c.p.c. – Omessa specificazione
delle spese liquidate in assenza di deposito della nota
spese”.
Il Tribunale avrebbe omesso di motivare in ordine alle
spese liquidate, mancando di indicare in forma specifica i
parametri utilizzati per la liquidazione, effettuata in modo
sproporzionato e in assenza della nota spese di parte.
Viene, dunque, formulato il seguente quesito: “Vero che
il giudice a

quo ha

illegittimamente omesso di motivare e

specificare le voci delle spese legali liquidate all’esito
del giudizio?”.
3. – Il ricorso è inammissibile, in quanto – in linea
pregiudiziale ed assorbente di ogni altro profilo – i motivi
con esso proposti non sono confezionati in modo conforme alle
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(euro 920,00) in violazione della tariffa professionale in

prescrizioni di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ., che è
pienamente operante ratione temporis nella fattispecie, posto
che la sentenza impugnata è stata pubblicata il 5 aprile 2007
e, dunque, nella vigenza della disciplina dettata dalla
predetta disposizione processuale. Infatti, il citato art.
366-bis ha iniziato ad esplicare i propri effetti in
relazione alle sentenze pubblicate a decorrere dal 2 marzo

n. 40, che l’ha introdotto, e ha cessato di essere
applicabile soltanto a decorrere dal 4 luglio 2009 e cioè
dalla sua abrogazione ad opera dell’art. 47 della legge 18
giugno 2009, n. 69.
3.1. – E’ inammissibile, anzitutto, la censura di

error

in iudicando, veicolata, ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 3, cod. proc. civ., tramite il primo motivo.
Alla luce del “diritto vivente” (tra le tante: Cass.,
sez. un., 5 febbraio 2008, n. 2658; Cass., 17 luglio 2008, n.
19769; Cass., 30 settembre 2008, n. 24339; Cass., 25 marzo
2009, n. 7197; Cass., 8 novembre 2010, n. 22704), il quesito
di diritto imposto dall’art. 366-bis cod. proc. civ. va
formulato in modo tale da esplicitare una sintesi logicogiuridica della questione, così da consentire al giudice di
legittimità di enunciare una

regula iuris

suscettibile di

ricevere applicazione anche in casi ulteriori rispetto a
quello deciso dalla sentenza impugnata; in altri termini,
esso deve compendiare: a) la riassuntiva esposizione degli
elementi di fatto sottoposti al giudice di merito (siccome da
questi ritenuti per veri, altrimenti mancando la critica di
pertinenza alla ratio decidendi della sentenza impugnata); b)
la sintetica indicazione della regola di diritto applicata
dal quel giudice; c) la diversa regola di diritto che, ad
avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di
specie. Sicché, il quesito non deve risolversi in
un’enunciazione di carattere generale e astratto, priva di
qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua
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2006, data di entrata in vigore del d.lgs. 2 febbraio 2006,

riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non
consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel
senso voluto dal ricorrente, non potendosi altresì desumere
il quesito stesso dal contenuto del motivo o integrare il
primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del
suddetto articolo (Cass., sez. un., 11 marzo 2008, n. 6420).
Ciò in quanto il quesito di diritto, congegnato in una

legittimità, risponde, al tempo stesso, all’esigenza dello
ius litigatoris – e

cioè di soddisfare l’interesse del

ricorrente ad una decisione della lite diversa da quella cui
è pervenuta la sentenza impugnata – e della funzione
nomofilattica assegnata alla Corte di Cassazione, così da
rappresentare, quindi, il punto di congiunzione tra la
risoluzione del caso specifico e l’enunciazione del principio
giuridico generale, risultando altrimenti inadeguata, e
quindi non ammissibile, l’investitura stessa del giudice di
legittimità (così Cass., 9 maggio 2008, n. 11535).
Tanto premesso, risulta evidente come il quesito di
diritto – innanzi trascritto – non risponda affatto ai
requisiti e criteri anzidetti, risolvendosi, attraverso una
mera indicazione di norme, in un interrogativo astratto,
assolutamente avulso dalla fattispecie concreta, che non
indica la regola di diritto applicata in sentenza, né quella
che avrebbe dovuto essere applicata.
3.2. – E’ altresì inammissibile la censura di vizio di

prospettiva volta a riaffermare la cultura del processo di

motivazione, veicolata, ai sensi dell’art. 360, primo comma,
n. 5, cod. proc. civ., tramite il secondo motivo.
Occorre infatti rammentare – sulla scorta dell’ormai
consolidato orientamento di questa Corte (tra le altre,
Cass., 16 luglio 2007, n. 16002; Cass., sez. un., l ° ottobre
2007, n. 20603; Cass., 30 dicembre 2009, n. 27680; Cass., 18
novembre 2011, n. 24255) – che, in base al capoverso
dell’art. 366-bis cod. proc. civ., il ricorrente che denunci
un vizio di motivazione della sentenza impugnata è tenuto,
5
V

nel confezionamento del relativo motivo, a formulare in
riferimento alle anzidette censure un cd. “quesito di fatto”
e cioè ad indicare chiaramente, in modo sintetico, evidente
ed autonomo, il fatto controverso rispetto al quale la
motivazione si assume omessa o contraddittoria, così come le
ragioni per le quali la dedotta insufficienza della
motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, a

conclusiva e riassuntiva di uno specifico passaggio
espositivo del ricorso nel quale tutto ciò risalti in modo in
equivoco. Con l’ulteriore precisazione che tale requisito non
può dirsi rispettato allorquando solo la completa lettura
dell’illustrazione del motivo all’esito di
un’interpretazione svolta dal lettore, anziché su indicazione
della parte ricorrente – consenta di comprendere il contenuto
ed il significato delle censure, posto che la ratio che
sottende la disposizione di cui al citato art. 366-bis è
associata alle esigenze deflattive del filtro di accesso alla
Suprema Corte, la quale deve essere posta in condizione di
comprendere, dalla lettura del solo quesito di fatto, quale
sia l’errore commesso dal giudice di merito.
Nulla di tutto ciò è, all’evidenza, ravvisabile nel
quesito posto dal ricorrente – innanzi trascritto – il quale,
prescindendo da una puntuale indicazione del fatto
controverso e delle ragioni che dovrebbero sorreggere la
denuncia dei vizi intrinseci al percorso argomentativo
seguito dal giudice del merito, si limita soltanto a
postulare apoditticamente un’omessa motivazione della
sentenza impugnata, senza ulteriori specificazioni, tali da
rendere intelligibile la complessiva censura dalla sola
lettura del quesito stesso.
4. –

All’inammissibilità del ricorso segue, per il

principio della soccombenza, la condanna degli eredi del
ricorrente al pagamento, in favore della società
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tal fine necessitando, segnatamente, la enucleazione

controricorrente, delle spese del presente giudizio di
legittimità, liquidate come in dispositivo
PER QUESTI MOTIVI
LA CORTE
dichiara inammissibile il ricorso e condanna gli eredi
del ricorrente, in solido tra loro, al pagamento delle spese
del presente giudizio di legittimità in favore della società

di cui euro 200,00 per esborsi, oltre accessori di legge.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della
Sezione Terza civile della Corte suprema di Cassazione, in
data 3 ottobre 2013.

controricorrente, che liquida in complessivi euro 1.700,00,

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