Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25904 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. trib., 16/11/2020, (ud. 03/07/2020, dep. 16/11/2020), n.25904

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. STALLA Giacomo Maria – Presidente –

Dott. PAOLITTO Liberato – rel. Consigliere –

Dott. BALSAMO Milena – Consigliere –

Dott. DELL’ORFANO Antonella – Consigliere –

Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 2050-2016 proposto da:

G.A.F., C.D., C.F.,

G.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA OVIDIO 32,

presso lo studio dell’avvocato BRUNO CHIARANTANO, rappresentati e

difesi dall’avvocato SALVATORE RIJLI;

– ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore,

elettivamente domiciliato in ROMA, VIA DEI PORTOGHESI 12, presso

l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– controricorrente –

e contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE DI REGGIO CALABRIA;

– intimata –

avverso la sentenza n. 1/2011 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di REGGIO

CALABRIA, depositata il 16/03/2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

03/07/2020 dal Consigliere Dott. LIBERATO PAOLITTO.

 

Fatto

RILEVATO

che:

1. – con sentenza n. 1/14/11, depositata il 16 marzo 2011, la Commissione tributaria regionale della Calabria accoglieva l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate e, così, integralmente riformava la decisione di prime cure che aveva annullato un avviso di accertamento col quale, ai fini dell’imposta di successione dovuta in morte di C.P., era stato rettificato il valore della partecipazione societaria alla C. S.r.l. dichiarato dai contribuenti;

– il giudice del gravame ha ritenuto, in sintesi, che correttamente l’amministrazione, nel determinare il valore venale della quota societaria, aveva tenuto conto della situazione patrimoniale della società prescindendo, però, dalle passività, – costituite da fondi di ammortamento e riserve che non potevano intendersi quali passività “non costituendo esse valori in uscita, come, ad esempio, i debiti”, – e valutando, al contempo, l’avviamento commerciale dell’azienda;

2. – ricorrono per la cassazione della sentenza, sulla base di due motivi, C.F. e C.D., in proprio e quali eredi di C.G., nonchè G.A.F. e G.S., quali eredi di C.T.;

– l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. – col primo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i ricorrenti denunciano violazione e falsa applicazione di legge con riferimento al D.P.R. n. 637 del 1972, artt. 21 e 22, assumendo, in sintesi, che, ai fini della determinazione del valore venale della quota societaria avrebbe dovuto tenersi conto della situazione patrimoniale della società e, così, anche delle passività risultanti dal bilancio qual costituite, – non solo da fondi di ammortamento e riserve, ma anche, – da svariati debiti societari, posto che, nella fattispecie, l’amministrazione non aveva nemmeno contestato l’attendibilità delle poste di bilancio;

– il secondo motivo, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, espone la denuncia di nullità della gravata sentenza per violazione dell’art. 132 c.p.c., e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36, deducendo i ricorrenti che il decisum della gravata sentenza conseguiva da una motivazione del tutto apparente, in quanto tale inidonea a dar conto delle relative ragioni giustificative e, per di più, incomprensibilmente articolata su rilievi che reciprocamente si elidevano;

2. – in via pregiudiziale, la Corte deve farsi carico dell’esame dell’ammissibilità del ricorso, hinc et inde dedotta e contestata, avendo i ricorrenti fondato l’ammissibilità del ricorso sul disposto del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, – che, in buona sostanza, adatta al rito tributario la disposizione omologa di cui all’art. 327 c.p.c., comma 2, alla cui stregua “Se nessuna delle parti provvede alla notificazione della sentenza, si applica l’art. 327 c.p.c., comma 1. Tale disposizione non si applica se la parte non costituita dimostri di non avere avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione del ricorso e della comunicazione dell’avviso di fissazione d’udienza”, – in relazione, per un verso, alla denunciata nullità delle comunicazioni degli avvisi di trattazione di udienza e di deposito della sentenza, – comunicazioni, queste, eseguite impersonalmente e collettivamente presso l’ultimo domicilio delle defunte C.G. e C.T. (oltre l’anno dal loro decesso; D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 43, comma 3), – e, per il restante, alle date di notifica (al 19 dicembre 2014 ed al 24 febbraio 2015) degli avvisi di liquidazione emessi in esito alla gravata pronuncia;

3. – come risulta da un consolidato orientamento interpretativo della Corte (v., ex plurimis, Cass., 14 ottobre 2019, n. 25727; Cass., 9 ottobre 2018, n. 24899; Cass., 13 giugno 2017, n. 14746; Cass., 11 aprile 2017, n. 9330; Cass., 15 ottobre 2013, n. 23323; Cass., 10 giugno 2011, n. 12761), l’ammissibilità dell’impugnazione tardiva presuppone l’ignoranza del processo (e, dunque, che la parti dimostri “di non avere avuto conoscenza del processo”; D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3; art. 327 c.p.c., comma 2), ignoranza, questa, che, peraltro, non si identifica con la nullità delle comunicazioni prescritte dalla disciplina processuale del rito (D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 31 e 37, art. 43, comma 3, art. 61) in quanto dette nullità sono deducibili quale motivo di impugnazione ai sensi dell’art. 161 c.p.c., comma 1, in mancanza della quale la decisione assume valore definitivo in conseguenza del principio del giudicato;

3.1 – la Corte ha, in particolare, rimarcato che:

– l’impugnazione tardiva presuppone la ricorrenza di un duplice requisito, l’uno oggettivo, costituito dalla nullità della notificazione, l’altro soggettivo, correlato all’ignoranza del processo in ragione di detta nullità;

– l’impugnante è onerato della prova della ricorrenza di entrambi i requisiti, a meno che non ricorra l’ipotesi della inesistenza della notifica, nel qual caso l’ignoranza del processo si presume iuris tantum e grava sulla controparte, che deduca l’inammissibilità dell’impugnazione, l’onere della prova della conoscenza del processo (v. Cass., 3 gennaio 2019, n. 8; Cass., 30 settembre 2015, n. 19574; Cass., 23 giugno 2014, n. 14232; Cass., 20 novembre 2012, n. 20307; Cass., 3 luglio 2008, n. 18243; Cass. Sez. U., 22 giugno 2007, n. 14570; v. altresì, – nella giurisprudenza della Sezione tributaria, e con riferimento al D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 38, comma 3, – Cass., 14 ottobre 2015, n. 20672; Cass., 5 febbraio 2009, n. 2817; Cass., 22 maggio 2006, n. 11991);

3.2 – nella fattispecie, il ricorso, seppur tardivo, deve però ritenersi ammissibile considerato che, – a fronte delle denunciate modalità di notifica degli avvisi di trattazione di udienza e di deposito della sentenza, – non v’è alcuna evidenza di una presa di cognizione del processo, da parte degli eredi (collettivamente ed impersonalmente evocati), se non in relazione (proprio) alle date di notifica degli avvisi di liquidazione emessi in esito alla gravata pronuncia;

4. – tanto premesso, il secondo motivo, – il cui esame va anteposto per ragioni di pregiudizialità logico giuridica, – è destituito di fondamento;

– di vero, la gravata sentenza, – che, con ciò, ha reso esplicita la ratio decidendi che vi è a fondamento, – ha dato conto, sia pur sintetim, delle ragioni di accoglimento del gravame correlando la base imponibile dell’imposta alla “situazione patrimoniale della società” (D.P.R. n. 637 del 1972, art. 22, comma 2), – valutata come inclusiva dell’avviamento, – ed escludendo la pretesa deducibilità di debiti che, per un verso, non incidevano affatto sulla situazione patrimoniale dell’impresa e che, per il restante, non risultavano dimostrati;

– laddove deve ritenersi apparente, perplessa e incomprensibile, la motivazione che, pur essendo graficamente (e, quindi, materialmente) esistente, come parte del documento in cui consiste il provvedimento giudiziale, non rende tuttavia percepibili le ragioni della decisione, perchè consiste di argomentazioni obiettivamente inidonee a far conoscere l’iter logico seguito per la formazione del convincimento, di talchè essa non consente alcun effettivo controllo sull’esattezza e sulla logicità del ragionamento del giudice (v. Cass. Sez. U., 3 novembre 2016, n. 22232; v. altresì, ex plurimis, Cass., 18 settembre 2019, n. 23216; Cass., 23 maggio 2019, n. 13977; Cass., 7 aprile 2017, n. 9105; Cass. Sez. U., 24 marzo 2017, n. 7667; Cass. Sez. U., 3 novembre 2016, n. 22232; Cass. Sez. U., 5 agosto 2016, n. 16599);

5. – del pari destituito di fondamento è il primo motivo;

5.1 – la fattispecie in trattazione, in ragione del tempo dell’apertura della successione, va innanzitutto ricondotta al sistema regolatorio delineato dal D.P.R. n. 637 del 1972 che, – con riferimento alle società non quotate (recte alle “azioni non ammesse alla quotazione di borsa”), ed alle “quote di società non azionarie”, – identificava il valore (venale) della partecipazione societaria nella “situazione patrimoniale della società” (art. 22, comma 2) e che, agli artt. 12 e ss., recava la disciplina relativa ai debiti deducibili della massa ed alla loro dimostrazione;

5.2 – come già rilevato dalla Corte, nel contesto di una siffatta disciplina, assumeva rilievo la valutazione dei valori correnti, e reali, dei beni e diritti costituenti il patrimonio societario, ivi incluso. l’avviamento, demandandosi all’amministrazione di procedere al riscontro dell’effettivo valore del patrimonio sociale e senz’alcun condizionamento del dato contabile (secondo il criterio cd. del valore di libro) cui la rimodulazione della base imponibile sarà ricondotta ad opera del D.Lgs. n. 346 del 1990, art. 16, comma 1, lett. b (cfr. Cass., 11 giugno 2009, n. 13512; Cass., 28 maggio 2007, n. 12422; Cass., 9 maggio 2003, n. 7104; Cass., 9 maggio 2003, n. 7117);

– lo stesso Giudice delle Leggi aveva, inoltre, rimarcato come le disposizioni contenute nel D.P.R. n. 637 del 1972, art. 13, risultassero volte a “disciplinare non la rilevanza, ai fini dell’imposta sulle successioni, dei debiti nelle stesse considerati, bensì la prova che di tali debiti occorre fornire perchè essi siano deducibili dall’attivo ereditario. L’intero art. 13 contiene, cioè, un sistema di predeterminazione legale dei mezzi di prova che il legislatore, al fine di evitare evasioni fiscali e possibili collusioni dirette a realizzarle, ritiene necessari per la dimostrazione della preesistenza del debito all’apertura della successione e quindi per la sua deducibilità dall’attivo ereditario.” (v. Corte Cost., 21 aprile 1983, n. 103); predeterminazione della prova legale, questa, il cui rilievo la Corte ha rimarcato (anche) con riferimento alla nuova disciplina posta dal D.Lgs. n. 346 del 1990, artt. 20 e ss. (v., ex plurimis, Cass., 7 giugno 2019, n. 15449; Cass., 13 febbraio 2019, n. 4176; Cass., 14 marzo 2008, n. 6957; Cass., 26 novembre 2007, n. 24547; v. altresì, con riferimento al D.P.R. n. 637 del 1972, art. 14 Cass., 15 marzo 1988, n. 2442);

5.3 – per quanto, poi, iscritti al passivo dello stato patrimoniale, i fondi di ammortamento, e di riserva, costituivano voci rettificative dell’attivo che ex se nè integravano poste deducibili nè incidevano sulla valutazione del valore venale della partecipazione societaria; come, difatti, rimarcato dalla Corte, i fondi di ammortamento costituiscono null’altro che un meccanismo contabile finalizzato a suddividere l’incidenza di un costo in una pluralità di annualità, tendenzialmente coincidenti con il periodo di utilizzazione del bene al quale si riferiscono, e non rappresentano passività effettivamente incidenti in senso negativo sul capitale economico dell’azienda (v. Cass., 17 giugno 2009, n. 14001; Cass., 15 maggio 2006, n. 11176; Cass., 10 aprile 2006, n. 8347);

6. – le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza di parti ricorrenti nei cui confronti sussistono, altresì, i presupposti processuali per il versamento di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, se dovuto (D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater).

PQM

La Corte rigetta il ricorso;

condanna i ricorrenti al pagamento in solido, in favore dell’Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 7.800,00, oltre spese prenotate a debito;

ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, tenutasi con modalità da remoto come da decreti del Primo Presidente nn. 76 e 97 del 2020, il 3 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

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