Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25899 del 23/09/2021

Cassazione civile sez. lav., 23/09/2021, (ud. 17/03/2021, dep. 23/09/2021), n.25899

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Antonio – Presidente –

Dott. MANCINO Rossana – Consigliere –

Dott. CALAFIORE Daniela – Consigliere –

Dott. CAVALLARO Luigi – Consigliere –

Dott. BUFFA Francesco – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 26325/2015 proposto da:

L.Y.S., già titolare della ditta individuale RISTO GRILL DI

L.Y.S., domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso LA CANCELLERIA

DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa

dall’avvocato MASSIMILIANO FERRO;

– ricorrente –

contro

MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, (già DIREZIONE

PROVINCIALE DEL LAVORO DI MILANO), in persona del Ministro pro

tempore, rappresentato e difeso dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO

presso i cui Uffici domicilia ex lege in ROMA, alla VIA DEI

PORTOGHESI n. 12;

– controricorrente –

e contro

I.N.P.S. – ISTITUTO NAZIONALE DELLA PREVIDENZA SOCIALE, in persona

del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e

quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A., Società di

Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA CESARE BECCARIA N. 29, presso l’Avvocatura Centrale

dell’Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati ANTONINO SGROI,

CARLA D’ALOISIO, GIUSEPPE MATANO, LELIO MARITATO, EMANUELE DE ROSE,

ESTER ADA SCIPLINO;

– resistenti con mandato –

avverso la sentenza n. 618/2015 della CORTE D’APPELLO di MILANO,

depositata il 14/09/2015 R.G.N. 1368/2012;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

17/03/2021 dal Consigliere Dott. FRANCESCO BUFFA.

 

Fatto

FATTO E DIRITTO

Con sentenza del 14.9.15 la corte d’appello di Milano, confermando due sentenze del tribunale della stessa sede del 2011 e del 2012, ha rigettato l’opposizione ad ordinanza di ingiunzione con la quale era stata comminata alla signora L. sanzione per l’impiego di sette lavoratori non risultanti da scritture ed ha rigettato l’opposizione a cartella relativa contributi Inps evasi (con esclusione della posizione relativa ad un solo lavoratore).

In particolare, la corte territoriale ha ritenuto correttamente esercitato il potere ufficioso del giudice nell’acquisizione del verbale della polizia locale (in quanto non nella disponibilità dell’INPS); ha ritenuto sussistente la violazione delle norme sui permessi non retribuiti (che gli ispettori dell’Inps avevano accertato in misura pari a oltre metà delle giornate di lavoro, rilevando la presenza al lavoro di due lavoratori formalmente in permesso e ritenendo i detti permessi incompatibili con l’entità delle lavorazioni ed il tipo di organizzazione del lavoro riscontrato) e delle norme sulla registrazione e denuncia delle maestranze al momento dell’assunzione.

Avverso tale sentenza ricorre la signora L. con cinque motivi, accompagnati da memoria, cui il ministero del Lavoro resiste con controricorso; l’Inps, in proprio e quale mandatario della SCCI, ha prodotto delega in calce al ricorso notificato.

Con il primo motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 421 c.p.c. e art. 2967 c.c., nonché vizio di motivazione, per avere la corte territoriale esercitato potere istruttorio officioso di acquisizione documentale, nonostante la decadenza dell’Inps (che colpevolmente era rimasto inerte nel richiedere il verbale) e per aver negato prova contraria una volta acquisito il documento.

Il motivo è infondato.

Quanto al primo profilo sollevato, questa Corte ha già chiarito (Sez. L, Sentenza n. 23882 del 09/11/2006, Rv. 593504 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 15228 del 05/07/2007, Rv. 598240 – 01) che, nel rito del lavoro, il rigoroso sistema delle preclusioni che regola in egual modo sia l’ammissione delle prove costituite che di quelle costituende trova un contemperamento – ispirato alla esigenza della

ricerca della “verità materiale”, cui è doverosamente funzionalizzato il rito del lavoro, teso a garantire una tutela differenziata in ragione della natura dei diritti che nel giudizio devono trovare riconoscimento – nei poteri d’ufficio del giudice in materia di ammissione di nuovi mezzi di prova, ai sensi del citato art. 437 c.p.c., comma 2, ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa, poteri, peraltro, da esercitare pur sempre con riferimento a fatti allegati dalle parti ed emersi nel processo a seguito del contraddittorio delle parti stesse.

La corte territoriale ha correttamente motivato in ordine alla necessità dell’acquisizione (per la necessità di approfondimento di fatti già acquisiti al processo) ed all’assenza di disponibilità del documento in capo all’Inps (con conseguente inconfigurabilità di colpa dell’Inps nell’acquisizione e produzione del documento).

Quanto al secondo profilo, relativo alla mancata ammissione in primo grado di testi ulteriori a confutazione del documento acquisito d’ufficio, la corte d’appello ha chiaramente indicato le ragioni relative, riguardando aspetti già accertati in giudizio (con la prova testimoniale che aveva corroborato definitivamente le risultanze della comunicazione della polizia locale in ordine all’avvenuta identificazione dei lavoratori rinvenuti sul luogo di lavoro).

Con il secondo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione degli artt. 155,116 e 244 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per aver trascurato che le prove testimoniali erano imprecise e contraddittorie.

Con il terzo motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 2700 c.c., artt. 155,116 e 244, nonché vizio di motivazione, per aver attribuito efficacia privilegiata alla comunicazione della polizia locale alla Asl e all’Inps, in ordine alla presenza dei lavoratori, trascurando invece le altre risultanze processuali (buste-paga e registrazione dei lavoratori).

Con il quarto motivo di ricorso si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione dell’art. 2697 c.c., artt. 191 e 195 c.p.c., nonché vizio di motivazione, per essersi basata la sentenza su consulenza che ricavava attraverso congetture fatti non provati dalle parti.

I motivi possono essere esaminati congiuntamente per la loro connessione: essi sono infondati.

Intanto, non vi sono le violazioni di legge denunciate, avendo la sentenza attribuito alle prove raccolte il valore proprio, valutandone poi le risultanze e dando conto di tale valutazione nella motivazione.

I motivi invero impingono nelle valutazioni di merito del giudice in ordine alle risultanze probatorie, e, contrapponendo diversa lettura delle stesse, mirano sostanzialmente ad un controllo sulla motivazione della corte territoriale, al di là dei limiti consentiti al giudice di legittimità.

E’ infine infondato il quinto motivo di ricorso.

Con tale motivo si deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione del D.L. n. 203 del 2006, art. 36 bis, comma 7, convertito in L. n. 248 del 2006 e L. n. 689 del 1981, art. 61, nonché L. nm. 183 del 2010, art. 4 e vizio di motivazione, per la duplicazione della sanzione amministrativa L. n. 248 del 2006, ex art. 36 bis, comma 7 e per la applicazione con riferimento a posizione di lavorore invece regolare.

La sentenza impugnata ha rilevato – in presenza di comportamenti datoriali violativi di distinte disposizioni sanzionatorie congiuntamente applicabili – che i soggetti creditori (INPS e Direzione del lavoro) hanno agito ognuno per il proprio credito, e dunque l’INPS per l’omissione contributiva e la DTL per l’irregolarità lavorativa, escludendosi così ogni duplicazione; del resto la ricorrente, pur richiamando il verbale ispettivo INPS – da cui risulta l’illecito e la sanzione per l’omissione contributiva inerente il lavoro nero – non ha anche dimostrato che con la cartella l’INPS abbia richiesto anche il pagamento della medesima sanzione già oggetto della richiesta della DTL.

Quanto al secondo profilo denunciato dalla ricorrente, la corte territoriale ha evidenziato – con accertamento in fatto non sindacabile in questa sede – la sussistenza del rapporto lavorativo della lavoratrice W.Y., trovata il giorno dell’accesso intenta al lavoro e non registrata nell’e scritture, con conseguente violazione della disposizione all’epoca vigente – del D.L. n. 203 del 2006, art. 36 bis, comma 7.

Il ricorso deve dunque essere rigettato.

Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate in favore del solo Minsitero, non avendo l’INPS svolto attività difensiva.

Sussistono invece i requisiti processuali per il raddoppio del contributo unificato, se dovuto.

PQM

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna il ricorrente al pagamento in favore del solo Ministero del Lavoro delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 200,00 per esborsi ed Euro 5.500,00 per compensi professionali, oltre s.p.a.d..

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nell’Adunanza camerale, il 17 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2021

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