Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25886 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 16/11/2020), n.25886

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 30993/2018 proposto da:

Z.S., elettivamente domiciliato in ROMA, VIALE TIZIANO,

108 PAL. C, presso lo studio dell’avvocato SONIA ALLOCCA, che lo

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO ALLOCCA;

– ricorrenti –

e contro

E.Z.;

– intimati –

avverso la sentenza n. 648/2018 della CORTE D’APPELLO di FIRENZE,

depositata il 20/03/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

NARDECCHIA Giovanni Battista;

udito l’avvocato del ricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Il Tribunale di Firenze, con sentenza n. 45/2014, ha accertato la condotta colposa tenuta dal pedone Z.S., a causa della quale E.Z. era caduto dal motociclo subendo lesioni personali, e, riconosciuto un concorso del danneggiato E.Z. nella causazione del sinistro, quantificato in misura pari al 20%, ha condannato il primo a risarcire il danno biologico cagionato al secondo, quantificato in Euro 50.989,92.

Investita dalla impugnazione dello Z., la Corte d’appello di Firenze, con sentenza in data 20.3.2018 n. 648, ha rigettato l’appello e confermato la decisione di prime cure.

Il Giudice di merito ha ritenuto inammissibile il motivo di gravame volto a censurare la statuizione del Tribunale che aveva rigettato la istanza del convenuto Z. per la chiamata in causa di SATA s.r.l., con la quale il convenuto intratteneva un rapporto di lavoro dipendente a tempo indeterminato, e dalla quale intendeva esser manlevato in caso di condanna, essendosi verificato il sinistro durante l’orario di lavoro, in quanto: 1- il provvedimento di estensione della causa ad un terzo, al di fuori dei casi di integrazione necessaria del contraddittorio, era riservato alla discrezionalità del Giudice, e dunque doveva ritenersi insindacabile; 2- la censura formulata risultava carente di interesse, non essendo ricollegata ad istanze o domande di merito formulate dallo Z.; 3- in ogni caso alcun risultato utile avrebbe potuto trarre lo Z. dall’accoglimento della censura, non venendo in questione un vizio processuale tale da determinare la regressione della causa in primo grado, nè essendo ammessa, ex art. 344 c.p.c., la chiamata in causa in grado di appello di soggetti terzi diversi da coloro che potrebbero proporre opposizione ai sensi dell’art. 404 c.p.c..

La Corte territoriale ha inoltre rigettato nel merito il gravame, in punto di ricostruzione del fatto, ravvisando comunque la prevalente responsabilità colposa del pedone e ritenendo altresì infondata la critica mossa alle risultanze della c.t.u. medico legale svolta in prime cure.

La sentenza di appello, non notificata, è stata tempestivamente impugnata da Z.S. con un unico motivo.

Non ha svolto difese l’intimato E.Z. al quale il ricorso è stato notificato in forma telematica presso l’indirizzo PEC del difensore in data 19.10.2018.

Il Procuratore Generale ha depositato conclusioni scritte.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con l’unico motivo il ricorrente deduce il vizio di violazione degli artt. 106 e 296 c.p.c. (recte art. 269) in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (recte n. 4).

Allega il ricorrente di avere tempestivamente richiesto con la comparsa di costituzione e risposta in primo grado lo spostamento della prima udienza onde consentire la chiamata in causa di SATA s.r.l., società datore di lavoro dello Z., in quanto il sinistro si era verificato durante l’orario di lavoro ed il dipendente subordinato intendeva “essere garantito e manlevato” dalla società, in caso di condanna al risarcimento dei danni. Sostiene che la Corte d’appello, rimettendo al potere discrezionale del Giudice di prime cure la scelta di estendere o meno al terzo la causa pendente tra le parti, aveva male interpretato la norma processuale di cui all’art. 269 c.p.c., comma 2, che, quanto alla istanza di chiamata del terzo formulata dalla parte convenuta, al pari dell’art. 420 c.p.c., comma 9, nel rito del lavoro, non prevedeva alcun intervento discrezionale del Giudice ma solo l’adozione di un provvedimento vincolato di differimento della udienza, a differenza della chiamata del terzo ad istanza dell’attore, per cui invece il comma 3 rimetteva al Giudice la valutazione discrezionale della opportunità di autorizzare l’estensione del contraddittorio al terzo chiamato.

Aggiunge inoltre il ricorrente che il richiamo operato dalla Corte territoriale all’art. 354 c.p.c., ed alla assenza di una specifica domanda proposta dall’appellante, non era pertinente, in quanto era stato denunciato un vizio di nullità del procedimento di primo grado e dunque si chiedeva la previa declaratoria di invalidità la riforma della sentenza di prime cure.

Il motivo è inammissibile, ai sensi dell’art. 360 bis c.p.c., comma 1, n. 1), avendo la Corte territoriale deciso in modo conforme alla giurisprudenza della Suprema Corte, e non avendo sollevato il ricorrente questioni di diritto nuove che inducano a mutare il consolidato orientamento giurisprudenziale.

Occorre premettere che la norma richiamata trova fondamento nel requisito di specificità ex art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4), richiesto per l’ammissibilità del motivo di ricorso al sindacato di legittimità ed è espressione diretta del principio di diritto secondo cui il ricorso per cassazione deve contenere, a pena di inammissibilità, i motivi per i quali si richiede la cassazione, aventi i caratteri di specificità, completezza e riferibilità alla decisione impugnata; sicchè deve ritenersi, in particolare, inammissibile il ricorso nel quale non venga precisata la violazione di legge nella quale sarebbe incorsa la pronunzia di merito, non essendo al riguardo sufficiente un’affermazione apodittica non seguita da alcuna dimostrazione, dovendo il ricorrente porre la Corte di legittimità in grado di orientarsi tra le argomentazioni in base alle quali si ritiene di censurare la sentenza impugnata e di assolvere, così, il compito istituzionale di verificare il fondamento della suddetta violazione (cfr. ex plurimis: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 13066 del 05/06/2007; id. Sez. 1 -, Sentenza n. 24298 del 29/11/2016; id. Sez. 1 -, Ordinanza n. 16700 del 05/08/2020; id. Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 4905 del 24/02/2020). Il motivo di ricorso per cassazione assolve infatti al requisito di ammissibilità laddove evidenzi, non soltanto la asserita violazione della norma di diritto, ma sviluppi anche l’apparato critico volto a contestare gli argomenti giuridici posti a fondamento della attività di giudizio o processuale compiuta dal Giudice della sentenza impugnata (la esigenza di una “pars construens”, contenente lo svolgimento degli argomenti critici a sostegno della censura, sussiste – in analogo modo – anche in relazione alla “specificità” che deve caratterizzare il motivo di appello ex art. 342 c.p.c., avendo questa Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 27199 del 16/11/2017 precisato che “nell’atto di appello deve affiancarsi alla parte volitiva una parte argomentativa, che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. La maggiore o minore ampiezza e specificità delle doglianze ivi contenute sarà, pertanto, diretta conseguenza della motivazione assunta dalla decisione di primo grado. Ove le argomentazioni della sentenza impugnata dimostrino che le tesi della parte non sono state in effetti vagliate, l’atto di appello potrà anche consistere, con i dovuti adattamenti, in una ripresa delle linee difensive del primo grado; mentre è logico che la puntualità del giudice di primo grado nel confutare determinate argomentazioni richiederà una più specifica e rigorosa formulazione dell’atto di appello, che dimostri insomma di aver compreso quanto esposto dal giudice di primo grado offrendo spunti per una decisione diversa”).

Tanto premesso, osserva il Collegio che la Corte territoriale, affermando che è rimessa al potere discrezionale del Giudice di merito la valutazione della opportunità di estendere o meno il contraddittorio in base alla istanza di chiamata in causa di terzo formulata dalla parte convenuta nella comparsa di risposta depositata nel termine previsto per la costituzione in giudizio, si è conformata alla interpretazione che dell’art. 269 c.p.c., è stata fornita da questa Corte, ed in ordine alla quale può ritenersi ormai formato un orientamento consolidato che trova fondamento nell’argomento sistematico e teleologico applicato ai criteri ermeneutici di cui all’art. 12 preleggi, secondo una prospettiva costituzionalmente orientata all’art. 24 e 111 Cost..

La soluzione interpretativa adottata da questa Corte ha avuto ad oggetto le disposizioni dell’art. 269 c.p.c., come modificate dalla L. 26 novembre 1990, n. 353, art. 29, che contemplano separatamente le ipotesi di chiamata in causa del terzo ad istanza della parte convenuta e della parte attrice, prevedendo inoltre anche la ipotesi di analoga istanza formulata dal terzo chiamato costituitosi in giudizio, diversamente dalla originaria formulazione della norma processuale che imponeva alle parti – senza distinzione – di provvedere direttamente alla chiamata del terzo “mediante citazione a comparire alla prima udienza”, attribuendo altresì al Giudice, ove richiestone alla prima udienza, il potere discrezionale di “concedere un termine per la chiamata del terzo, fissando all’uopo una nuova udienza” (la natura discrezionale del potere esercitato dal Giudice, nel regime previgente, non era posta in discussione: Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 15362 del 06/07/2006). Tale intervento normativo, con il quale sono stati introdotti distinti termini di decadenza per la formulazione delle istanze di chiamata in causa da parte dell’attore e del convenuto, è stato ritenuto funzionale allo scopo acceleratorio del processo perseguito dalla riforma del 1990, in quanto volto ad evitare inutili dilazioni dei tempi del processo, concentrando – per quanto più possibile – nella prima udienza la verifica della regolare costituzione del rapporto processuale nei confronti di tutte le parti chiamate a partecipare al giudizio: in tal senso è apparso opportuno al Legislatore di anticipare l’onere della formulazione della istanza di chiamata, da parte del convenuto, già nella comparsa di risposta, limitando le ipotesi di successivi rinvii, dopo la prima udienza, alla richiesta di chiamata in causa di terzi formulata dall’attore ma solo se ed in quanto appaia giustificata dalle difese svolte dal convenuto. La modifica normativa non ha inciso, invece, sui preesistenti criteri di opportunità inerenti la concentrazione o la separazione di più cause nello stesso giudizio (espressione del potere riservato al Giudice dall’art. 103 c.p.c., comma 2, art. 104 c.p.c., comma 2, artt. 269 e 107 e 270,332 c.p.c.), e non può quindi essere interpretata in modo avulso dal contesto sistematico delle altre norme processuali e dei principi costituzionali del “giusto processo” (tra cui quello della ragionevole durata del processo) e di effettività della tutela giurisdizionale che deve essere assicurata alla parte che ha ragione, con la conseguenza che la estensione del contraddittorio nei confronti di terzi che potrebbero rivestire la qualità di litisconsorti facoltativi, e contro i quali quindi la parte che ha interesse potrebbe agire anche con separata causa, continua a rimanere soggetta alla valutazione discrezionale del Giudice, che potrà rifiutarla qualora possa pregiudicare gli obiettivi sottesi ai principi costituzionali indicati.

Gli argomenti fondanti la suddetta interpretazione della norma di cui all’art. 269 c.p.c., riformato sono stati compendiati nell’arresto di questa Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 4309 del 23/02/2010, cui sono seguite ripetute pronunce conformi delle Sezioni semplici; e vale qui riprodurre il relativo passaggio motivazionale: “Se la prevalente dottrina afferma che, allorchè la chiamata in causa sia chiesta con la comparsa di risposta dal convenuto prima dell’udienza di trattazione ai sensi dell’art. 269 c.p.c., il giudice è tenuto a fissare una nuova udienza, la norma che sostituisce la precedente disciplina per la quale il convenuto poteva direttamente evocare in causa il terzo alla prima udienza, non può non inserirsi nel sistema introduttivo del processo, per il quale, al di fuori del litisconsorzio necessario di cui all’art. 102 c.p.c., resta discrezionale il provvedimento del giudice di fissazione di una nuova prima udienza per la chiamata, come questa Corte ha già affermato in rapporto all’art. 420 c.p.c., comma 9, richiamato anche nella sentenza di merito (Cass. 25 agosto 2006 n. 18508, 28 agosto 2004n. 17218). Il novellato art. 269 c.p.c., è stato introdotto per porre un termine perentorio di ammissibilità alla richiesta di chiamata del terzo da parte del convenuto (Cass. 24 aprile 2008 n. 10682 e 11 gennaio 2008n. 393), restando ferma la natura di regola facoltativa del litisconsorzio nelle obbligazioni solidali e mancando l’esigenza di trattare unitariamente le domande di condanna introduttive della causa con quelle di manleva dei convenuti (Cass. 21 novembre 2008 n. 27856 e 10 marzo 2006 n. 5444), con conseguente separabilità dei due processi, non diversa da quella consentita anche prima della novella del 1990, ex art. 103 c.p.c., che comporta la scindibilità delle cause pure ai fini delle impugnazioni delle parti (art. 332 c.p.c.). Il giudice cui sia tempestivamente chiesta dal convenuto la chiamata in causa, in manleva o in regresso, del terzo, può quindi rifiutare di fissare una nuova prima udienza per la costituzione del terzo, come accaduto nel caso, motivando la trattazione separata delle cause per ragioni di economia processuale e per motivi di ragionevole durata del processo intrinseci ad ogni sua scelta, dopo la novella dell’art. 111 Cost. del 1999….” (conf.: Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7406 del 28/03/2014; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 1112 del 21/01/2015; id. Sez. 3, Sentenza n. 9570 del 12/05/2015; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 21706 del 26/08/2019 – con riferimento a giudizio di opposizione a decreto ingiuntivo; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 3692 del 13/02/2020).

Alla indicata soluzione interpretativa, non è rimasta estranea anche la comparazione con la norma di cui all’art. 420 c.p.c., comma 9, concernente il rito del lavoro, la cui disposizione “Nel caso di chiamata in causa il giudice fissa una nuova udienza…” presenta, nella formulazione letterale, caratteristiche sostanzialmente identiche a quelle della disposizione di cui all’art. 269 c.p.c., comma 2, per cui “Il giudice istruttore, entro cinque giorni dalla richiesta (ndr. del convenuto di chiamata in causa del terzo), provvede con decreto a fissare la data della nuova udienza…..”, norma quella dell’art. 420 c.p.c., comma 9, costantemente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità nel senso di escludere qualsiasi automatismo od atto dovuto del Giudice di differimento della udienza, rimanendo in ogni caso assoggettata la istanza di chiamata del terzo alla autorizzazione di quello, essendo stato, al riguardo, enunciato il principio secondo cui “In tema di controversie di lavoro, la disposizione dell’art. 420 c.p.c., comma 9 – relativa ai provvedimenti del giudice nell’udienza di discussione di primo grado, in ipotesi di chiamata in causa a norma degli artt. 102,106 e 107 c.p.c. – non implica un automatico obbligo di adozione dei provvedimenti predetti, in quanto il pretore, investito della domanda di chiamata in giudizio di un terzo ai sensi delle norme citate, non è sempre tenuto a fissare una nuova udienza e a disporre le relative notifiche, conservando, secondo i principi generali, il potere di valutare – con i margini di discrezionalità attribuitigli dagli artt. 106,107 c.p.c., art. 269 c.p.c., comma 2 e art. 270 c.p.c. – la comunanza della causa e le ragioni d’intervento del terzo” (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 11949 del 09/11/1991; id. Sez. L, Sentenza n. 12660 del 27/11/1992; id. Sez. L, Sentenza n. 6657 del 26/06/1999; id. Sez. L, Sentenza n. 17218 del 28/08/2004; id. Sez. L, Sentenza n. 25676 del 04/12/2014; id. Sez. L, Sentenza n. 2522 del 09/02/2016).

E’ doveroso aggiungere che la diversa impostazione che era stata seguita dalla Corte costituzionale nella sentenza in data 3 aprile 1997 n. 80, che ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 269 c.p.c., per violazione degli artt. 3 e 24 Cost., sollevata in relazione al differente trattamento riservato alla istanza di chiamata del terzo effettuata dal convenuto e dall’attore (sul presupposto che soltanto la istanza di quest’ultimo fosse subordinata alla autorizzazione del Giudice), non esplica efficacia vincolante in ordine ad altre possibili differenti interpretazioni della norma processuale (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2233 del 27/02/1998), non essendo preclusa la possibilità di seguire, nello stesso processo “a quo” o in altri processi, “terze interpretazioni” ritenute compatibili con la Costituzione (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 27986 del 16/12/2013).

Tale essendo lo stato della giurisprudenza al momento della introduzione della lite da parte dell’attore E.Z. nei confronti di Z.S., risulta evidente come la censura rivolta all’applicazione pedissequa da parte del Giudice di appello dei principi di diritto indicati, in tanto avrebbe potuto avere accesso al sindacato di legittimità, in quanto corredata da argomenti giuridici volti, da un lato ad evidenziare la assoluta illogicità di quelli addotti nei precedenti sopra richiamati o ancora errori di tipo sistematico nel risultato interpretativo tali da portare a conseguenze incompatibili con il diritto di difesa e la parità delle armi od antitetiche rispetto agli scopi perseguiti dal Legislatore; e, dall’altro lato, in quanto assistita da una diversa ricostruzione interpretativa della norma processuale in questione, adeguata a superare gli ostacoli e le incongruità che fossero stati evidenziati.

Non appare sufficiente al riguardo la mera reiterazione di argomenti fondanti una diversa interpretazione – che pure ammissibile, e sostenuta peraltro dalla prevalente dottrina processualistica – che ripropone questioni già disattese dal consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità.

Non si vuole evidentemente attribuire alla funzione nomofilattica della Corte lo stesso effetto innovativo (forza) e di stabilità (valore) dell’ordinamento da riconoscere alle fonti del diritto.

Come è noto il precetto fondamentale della soggezione del Giudice soltanto alla legge (art. 101 Cost.) impedisce di attribuire all’interpretazione della giurisprudenza il valore di fonte del diritto, sicchè essa, nella sua dimensione dichiarativa, non può rappresentare la “lex temporis acti”, ossia il parametro normativo immanente per la verifica di validità dell’atto compiuto in correlazione temporale con l’affermarsi dell’esegesi del Giudice (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 15144 del 11/07/2011). Se il precedente giurisprudenziale, pur se proveniente dalla Corte di legittimità e finanche dalle Sezioni Unite, e quindi anche se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto e, pertanto, non è di norma vincolante per il giudice, tuttavia, occorre sottolineare che in un sistema che valorizza l’affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l’adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere nè gratuita, nè immotivata, nè immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile, ciò che avviene più facilmente se sia esplicitata a mezzo della motivazione (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 11747 del 03/05/2019, in motivazione). Ed è stato opportunamente evidenziato come una ripetuta e costante applicazione interpretativa della norma processuale – massime se proveniente dall’organo posto al vertice del sistema giudiziario in quanto deputato ex art. 65 ord. giud. ad assicurare la osservanza da parte degli Uffici giudiziari di merito della eguale applicazione della norma sull’intero territorio nazionale (Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 4135 del 12/02/2019) -, determinando le condizioni perchè le parti possano e debbano fare affidamento su di una corrispondente applicazione da parte dei Giudici investiti della domanda di tutela, e dunque determinando la certezza in ordine alle stesse “regole del gioco”, imponga che, eventuali mutamenti di indirizzo, debbono trovare giustificazione esclusivamente in interventi normativi sopravvenuti, o da una generale rivisitazione del sistema ordinamentale processuale alla stregua di nuovi valori affermatisi nella società e che richiedano un adeguamento delle norme preesistenti: ed infatti “se la formula del segmento di legge processuale, la cui interpretazione è nuovamente messa in discussione, è rimasta inalterata, una sua diversa interpretazione non ha ragione di essere ricercata e la precedente abbandonata, quando l’una e l’altra siano compatibili con la lettera della legge, essendo da preferire – e conforme ad un economico funzionamento del sistema giudiziario – l’interpretazione sulla cui base si è, nel tempo, formata una pratica di applicazione stabile. Soltanto fattori esterni alla formula della disposizione di cui si discute – derivanti da mutamenti intervenuti nell’ambiente processuale in cui la formula continua a vivere, o dall’emersione di valori prima trascurati possono giustificare l’operazione che consiste nell’attribuire alla disposizione un significato diverso” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 10864 del 18/05/2011, in motivazione; id. Sez. U., Ordinanza n. 23675 del 06/11/2014, che pone in rilievo come l’intervento nomofilattico affidato alla Corte di cassazione “costituisce imprescindibile presupposto di uguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo medesimo” in quanto è diretto a garantire “l’uniformità e la prevedibilità dell’interpretazione, soprattutto con riguardo a quella avente ad oggetto norme strumentali (come quelle processuali o comunque procedimentali…”). Non è dunque sufficiente, per determinare un mutamento del significato dell’enunciato normativo fino ad allora recepito nella comunità dei giuristi e degli operatori del diritto, addurre una “maggiore” plausibilità logica della nuova interpretazione, potendo essere giustificato un overruling delle Sezioni Unite “solo quando l’interpretazione fornita dal precedente in materia risulti manifestamente arbitraria e pretestuosa e/o comunque dia luogo (eventualmente anche a seguito di mutamenti intervenuti nella legislazione o nella società) a risultati disfunzionali, irrazionali o “ingiusti”…” (cfr. Corte Cass. Sez. U., Ordinanza n. 23675 del 06/11/2014, in motivazione).

Tanto premesso, emerge dagli atti che lo Z. aveva formulata istanza in primo grado per la chiamata in causa di SATA s.r.l. – società con la quale aveva instaurato un rapporto di lavoro dipendente – per essere da questa “manlevato o tenuto indenne” dalla eventuale condanna. In difetto di altre indicazioni deve intendersi che la parte convenuta intendeva evocare in giudizio la società per estendere alla stessa l’efficacia di giudicato dell’accertamento inerente il rapporto di responsabilità civile (per danni cagionati ad un terzo) dedotto in giudizio, per proporre nei confronti della stessa – sul presupposto che l’illecito era stato commesso durante il periodo di lavoro con il relativo coinvolgimento della responsabilità oggettiva della società-datore di lavoro per fatto del preposto ex art. 2049 c.c. – domanda condizionata di regresso ai sensi dell’art. 2055 c.c., comma 2.

In relazione a tale situazione, il Giudice di merito era pienamente legittimato a valutare discrezionalmente la opportunità di estendere il giudizio a terzi, differendo la udienza di prima comparizione, in relazione alle esigenze connesse alla speditezza del processo, giusta un’applicazione della norma di cui all’art. 269 c.p.c., comma 2, conforme al consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, cui si è attenuto anche il Giudice del gravame nel rigettare il motivo di appello.

Tale interpretazione consolidata non è stata idoneamente confutata dal ricorrente che si è limitato a reiterare la prospettazione di un diverso significato dell’enunciato della disposizione normativa di cui dell’art. 269 c.p.c., comma 2 – pure desumibile dalla lettera della legge – già considerato e disatteso nella differente interpretazione che della norma processuale era stata fornita dalla giurisprudenza di legittimità, le cui ragioni non appaiono punto scalfite da pertinenti e nuovi argomenti critici, formulati dal ricorrente alla luce di successive modifiche normative o dalla esigenza di salvaguardare interessi suscettibili di tutela in precedenza non venuti ad emersione o considerati. Al proposito è sufficiente rilevare come la qualificazione di coobbligato solidale che sarebbe venuta a rivestire la società terza chiamata, esclude di ravvisare, nella specie, alcun pregiudizio per la parte convenuta, non venendo ad incidere il rifiuto della autorizzazione del Giudice di prime cure sul diritto di difesa della parte convenuta, non precludendole comunque la tutela del diritto di regresso, che bene potrà essere fatto valere dallo Z. nei confronti della società, mediante un autonomo giudizio.

In conseguenza non sussistono valide ragioni, indicate nel motivo di ricorso, tali da indurre una rimeditazione del risultato interpretativo raggiunto da questa Corte, con indirizzo ormai consolidato, investendo nuovamente della questione le Sezioni Unite.

Vale aggiungere che il motivo di ricorso si palesa altresì inammissibile, non avendo il ricorrente neppure dedotto in, ordine al corretto rilievo, contenuto nella sentenza impugnata, della assenza di interesse alla impugnazione in difetto della possibilità di perseguire un risultato utile maggiore di quello del riesame del merito della decisione di prime cure, nell’ambito dei capi investiti dai motivi di gravame, non comportando in ogni caso l’ipotizzato errore commesso dal primo Giudice una rimessione della causa in primo grado (attesa la tassatività dei casi previsti dagli artt. 353 e 354 c.p.c.) e non essendo ammessa, in grado di appello, l’estensione del contraddittorio a parti diverse da quelle che hanno partecipato al primo grado di giudizio, fatta salva la sola ipotesi – che non ricorre nel caso di specie – dei terzi che potrebbero proporre la opposizione ex art. 404 c.p.c..

In conclusione il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, non occorre regolare le spese di lite in assenza di difese svolte dall’intimato raddoppio c.u..

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

 

 

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