Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25885 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 08/10/2020, dep. 16/11/2020), n.25885

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 25220/2018 proposto da:

S.T., S.A., S.G.,

F.C., n.q. eredi di S.S., elettivamente domiciliati in

ROMA, VIA CICERONE, 49, presso lo studio dell’avvocato LUIGIA

D’AMICO, rappresentati e difesi dall’avvocato GIUSEPPE NOLE’;

– ricorrenti –

contro

F.P., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA COSTANTINO, N.

136, presso lo studio dell’avvocato CARLOTTA GUGLIELMAN,

rappresentato e difeso dall’avvocato GERARDO COLASANTE;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 667/2018 della CORTE D’APPELLO di SALERNO,

depositata il 16/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del

08/10/2020 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;

udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott.

NARDECCHIA Giovanni Battista;

Udito l’avvocato del controricorrente.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione in data 9.7.1998 F.P. convenne in giudizio S.S. chiedendone la condanna al risarcimento del danno da illecito extracontrattuale; il processo, interrotto a seguito del decesso della parte convenuta, è stato riassunto dall’attore nei confronti di S.G., A. e T. e di F.C., che si sono costituiti in giudizio quali “chiamati all’eredità”, instando per il rigetto della domanda.

Accertato il credito, il Tribunale di Nocera Inferiore, con sentenza 13.11.2012 n. 926, condannava i convenuti, quali soggetti succeduti al “de cuius” nella posizione passiva, al pagamento della somma di Euro 206.268,00 oltre interessi e spese di lite. La decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Salerno che, con sentenza 16.5.2018 n. 667, ha rigettato l’appello delle parti S. e F., che negavano la loro qualità di successori del debitore, rilevando che, in base al principio di prossimità della prova, gravava sui soggetti costituitisi a seguito di riassunzione fornire la prova della mancata assunzione della qualità di eredi del debitore originario, e che gli stessi nulla avevano eccepito al riguardo nella comparsa di costituzione, nella quale si erano limitati a spiegare difese nel merito, sollevando tardivamente la questione del difetto di legittimazione passiva, per la prima volta, nella comparsa conclusionale depositata il 12.3.2008. In ogni caso, la posizione di fatto assunta dalle parti evocate in giudizio non disvelava la mancata assunzione della qualità di eredi, non avendo quelle indicato, nè in primo grado, nè con i motivi di gravame, se e chi altro avesse acquistato per successione l’eredità del “de cuius”.

La Corte territoriale ha, inoltre, rigettato anche il motivo di gravame degli appellanti principali inteso a contestare le risultanze della consulenza tecnica svolta in primo grado, ritenendo le critiche generiche, apodittiche ed aspecifiche.

La sentenza di appello, notificata in data 30.5.2018, è stata impugnata per cassazione da S.G., A., T. e da F.C., che hanno dedotto tre motivi, illustrati da memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c., ai quali ha resistito con controricorso F.P..

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

Con il primo motivo i ricorrenti deducono la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nonchè il vizio di violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, per motivazione apparente.

I ricorrenti contestano l’errore in cui è incorsa la Corte territoriale avendo invertito la regola dell’onere della prova affermando che spettava alle parti contro le quali veniva fatta valere la qualità di eredi, da colui che agiva in giudizio per un debito assunto dal “de cuius”, dimostrare la assenza di tale qualità. Assumono che gravava invece sul creditore-attore l’onere di provare che le parti evocate in giudizio fossero effettivamente subentrate nella posizione debitoria del “de cuius”: in conseguenza la sentenza della Corte territoriale risultava affetta da nullità non avendo motivato le ragioni della inversione della regola dettata dall’art. 2697 c.c..

Con il secondo motivo i ricorrenti deducono il vizio di violazione degli artt. 112,324,329 e 342 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 (recte n. 4), sostenendo che il Giudice di appello avrebbe rilevato “ex officio”, in violazione del “quantum devolutum”, la tardività della eccezione di “difetto di legittimazione passiva”, formulata espressamente dai convenuti in primo grado nella comparsa conclusionale, incorrendo pertanto nella violazione del giudicato interno formatosi sul punto della inammissibilità della eccezione, in difetto di proposizione di specifico motivo di gravame incidentale da parte dell’attore volto a contestarne la tardiva proposizione.

Con il terzo motivo i ricorrenti censurano la sentenza di appello, in relazione alla affermata “genericità” della contestazione della qualità di eredi, per violazione dell’art. 167 c.p.c., comma 1, nonchè per vizio di omessa considerazione di un fatto decisivo ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5. Contestano l’omessa rilevazione da parte del Giudice di appello della qualità di “chiamati alla eredità” che era stata espressamente indicata nella comparsa di costituzione in riassunzione e che in relazione al suo proprio significato giuridico veniva a contrapporsi alla diversa qualità soggettiva che esprimeva la specifica nozione di “eredi”. Pertanto, diversamente da quanto ritenuto dal Giudicante in secondo grado, le parti evocate in riassunzione avevano preso posizione in relazione ai fatti allegati dall’attore, contestando la loro qualità di eredi.

Il primo motivo è infondato, quanto al vizio di nullità della sentenza per carenza assoluta di motivazione.

La Corte d’appello ha, infatti, fondato la propria decisione in base alla applicazione della regola di riparto dell’onere probatorio: l’eventuale errore commesso dal Giudice di merito si risolve, allora, in un vizio per “error in procedendo” che, pur incidendo sulla -inesatta – applicazione della “regula juris” al rapporto controverso, esula tuttavia del tutto dalla diversa verifica concernente il contenuto minimale che, ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 6, deve assistere il provvedimento giurisdizionale, quale requisito essenziale di validità dello stesso, nella specie da ritenere assolto.

Il secondo motivo è infondato, non distinguendo correttamente i ricorrenti la “legitimatio ad causam” – condizione di ammissibilità dell’azione rilevabile anche ex officio – dall’accertamento di merito della titolarità del rapporto sostanziale – oggetto diretto della cognizione del Giudice chiamato a pronunciare sul rapporto e quindi, necessariamente, anche sulla effettiva riferibilità alle parti in causa delle situazioni giuridiche da quello scaturenti – e comunque non tenendo conto del differente regime delle difese contestative dei fatti allegati da colui che avanza la pretesa, non essendo riconducibile la mera contestazione della qualità di erede ad una eccezione di merito in senso stretto – come tale soggetta al termine di decadenza ex art. 167 c.p.c., comma 2 – ma ad una “mera difesa” volta a negare il fatto successorio allegato dall’attore il quale, essendo risultato totalmente vittorioso in primo grado, non era onerato nè del gravame incidentale, nè della eccezione di tardività della predetta difesa svolta dai convenuti nella comparsa conclusionale.

La censura di violazione dell’art. 2697 c.c., formulata con il primo motivo rimane assorbita, in conseguenza della inammissibilità, per difetto del requisito di chiara e completa esposizione del fatto ex art. 366 c.p.c., comma 3, delle censure svolte con il terzo motivo.

Appare opportuno svolgere alcune considerazioni preliminari in ordine alla questione concernente il riparto dell’onere della prova avente ad oggetto l’acquisto della “qualità di erede”.

La prova della qualità di erede, può venire in rilievo:

– sotto il profilo del rapporto processuale, laddove si verifichi il fenomeno della successione a titolo universale in seguito al decesso della parte ritualmente evocata – contumace o costituita – ovvero della parte che ha agito in giudizio, ex art. 110 c.p.c., occorrendo in tale caso verificare se il processo sia stato correttamente riassunto (art. 303 c.p.c.) o proseguito (art. 302 c.p.c.) nei confronti della ovvero dalla persona succeduta “in universum jus” al “de cuius” e quindi subentrata anche nella stessa posizione da quello rivestita nel rapporto giuridico controverso;

– sotto il profilo del rapporto di diritto sostanziale, riverberandosi” il fenomeno successorio sul piano dell’accertamento della effettiva titolarità – dal lato attivo o passivo – del rapporto obbligatorio oggetto del giudizio, in capo al soggetto che ha partecipato al processo in luogo della originaria parte processuale, deceduta nelle more del giudizio.

I due profili non possono essere confusi, nel senso che le esigenze di verifica del fatto successorio, desunte dalle norme della disciplina processuale come interpretate dalla giurisprudenza di legittimità, sono funzionali esclusivamente a consentire la ripresa del processo interrotto e non possono essere trasposte sul diverso piano dell’accertamento del rapporto giuridico controverso, non potendo istituirsi alcuna corrispondenza tra la verifica dell’osservanza della regola processuale e l’accertamento del diritto sostanziale oggetto della pretesa.

Occorre immediatamente sgombrare ogni equivoco in ordine alla questione concernente la fattispecie oggetto dell’esame di questa Corte.

Qualsiasi riferimento alla categoria della “legitimatio ad causam” – nella specie, “passiva” -, quale condizione di ammissibilità dell’azione, è del tutto fuori luogo, atteso che nel caso che ci occupa la qualità di erede rileva come “ratio decidendi” della questione di merito attinente alla effettiva titolarità della posizione di debitore in capo ai soggetti nei cui confronti la causa è stata riassunta e nei cui confronti il creditore fa valere la propria pretesa, e dunque attiene all’accertamento di uno degli elementi che compongono la fattispecie giuridica, ossia di uno dei fatti costitutivi della domanda.

La indicata distinzione, tra il piano processuale quello di merito, consente di evidenziare la diversa soluzione adottata dal Legislatore in ordine alla prova del fatto successorio.

Sul piano processuale la questione è stata risolta dal Legislatore – come è dato evincere dalla disciplina della riassunzione o prosecuzione del giudizio interrotto per morte di una delle parti – dettando un sistema di norme improntate a favore della parte processuale, nei cui confronti non si è verificato l’evento interruttivo, che intende riassumere il giudizio interrotto. Onde evitare oneri di indagine e prova eccessivamente gravosi per la parte estranea alla vicenda successoria, viene data prevalenza al principio di apparenza, ritenendosi idonea, entro un anno dalla morte, anche la notifica dell’atto in riassunzione effettuata “collettivamente ed impersonalmente agli eredi” ex art. 303 c.p.c., comma 2 (implicitamente escludendo la norma la necessità che il notificante fornisca anche la compiuta dimostrazione dell’effettivo acquisto della qualità di eredi – ex artt. 459,470,478,481 c.c., art. 484 c.c., comma 1, art. 485 c.c., commi 2 e 3, art. 487 c.c., comma 2, artt. 488,527 c.c. – in capo ai soggetti destinatari della notifica): ciò che ha consentito alla giurisprudenza di legittimità di ritenere ritualmente riassunto il giudizio anche mediante notifica individuale del ricorso a quei soggetti che, in difetto di altri elementi conoscitivi, acquisibili al giudizio con la normale diligenza, attestanti un diverso titolo successorio per delazione testamentaria o la rinuncia alla eredità o la loro totale estraneità alla vicenda successoria, possano essere considerati – in quanto ricompresi tra i soggetti successibili ex lege ex art. 565 c.c. -, comunque, “chiamati alla eredità” ex art. 457 c.c., comma 1, potendo postularsi in relazione ad essi soltanto il fatto allegato, e cioè potendo “prospettarsi” l’asserito acquisto della eredità per successione “mortis causa”, fatta sempre salva la necessità della successiva dimostrazione dell’intervenuta accettazione, espressa o tacita, all’esito del giudizio di merito (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7464 del 25/03/2013; id. Sez. 5 -, Sentenza n. 8051 del 29/03/2017 – richiamata nella sentenza di appello impugnata -; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 17445 del 28/06/2019; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 12987 del 30/06/2020).

L’ipotesi disciplinata dall’art. 303 c.p.c., comma 2, prescinde quindi dal previo accertamento del titolo di effettivo acquisito della qualità di erede: i soggetti destinatari della notifica verranno individuati in quanto meri “chiamati alla eredità”, senza che occorra il previo accertamento dell’accettazione espressa o tacita della eredità o dell’acquisto legale della qualità di erede puro e semplice. Tale agevolazione in ordine all’onere probatorio trova piena giustificazione negli effetti meramente processuali, che debbono essere ricondotti al ricorso per riassunzione volto semplicemente a sbloccare il temporaneo impedimento al proseguimento dello svolgimento del processo verso il suo naturale esito finale della decisione di merito. Il ricorso per riassunzione, in caso di morte della parte, è sufficiente, infatti, che contenga “gli estremi della domanda” – requisito informativo volto ad agevolare la conoscenza della lite da parte di soggetti fino ad allora rimasti estranei alla lite, della quale potrebbero non avere alcuna contezza – e dunque in quanto atto a contenuto notiziale della domanda, di questa ripete la struttura, nel senso che come la pretesa è indirizzata verso quel soggetto che, secondo la prospettazione attorea, viene postulato come debitore, così l’atto di riassunzione è indirizzato a quel soggetto che, secondo la prospettazione attorea, viene postulato come successore a titolo universale del debitore. In entrambi i casi non è richiesta, per la produzione dell’effetto che la legge ricollega all’atto compiuto (pendenza della lite; riassunzione del giudizio interrotto), anche la contestuale prova del fatto giuridico postulato (assunzione e trasferimento della posizione debitoria).

Tale conclusione trova, pertanto, conferma sia nel caso in cui l’atto di riassunzione venga notificato impersonalmente e collettivamente agli eredi (prescindendo da una previa identificazione anche soltanto di taluni di essi), sia nel caso in cui l’atto venga notificato a soggetti che il notificante ritiene avere comunque acquistato la qualità di eredi in virtù di delazione testamentaria o per legge. Ed infatti, se non pare dubbio che la parte evocata in riassunzione possa immediatamente contestare la qualità di erede, con la stessa comparsa in riassunzione, tuttavia la contestazione, non verrà a ripristinare lo stato di quiescenza del processo, ma investirà il Giudice del processo riassunto della questione di merito concernente la corretta individuazione del soggetto titolare del debito, in tal caso venendo allora in rilievo l’applicazione del regime dell’onere probatorio attinente al fatto costitutivo della pretesa, in quanto, presupposto indefettibile per l’accoglimento della domanda, dovendo accertarsi che la stessa sia stata effettivamente rivolta nei confronti di quella che autorevole dottrina processualistica” ha definito la “vera parte”.

A seguito della contestazione della parte evocata in riassunzione, non viene dunque in rilievo la verifica della “legitimatio ad causam”, quale condizione di ammissibilità dell’azione (rilevabile ex officio salvo il giudicato interno: Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 14243 del 08/08/2012; id. Sez. 3, Sentenza n. 21176 del 20/10/2015), quanto piuttosto la verifica della titolarità del rapporto giuridico dedotto in giudizio, con la conseguenza che tale contestazione, risolvendosi nella negazione della qualità di erede – ossia di soggetto subentrato in via successoria nella posizione passiva del debitore viene ad integrare, come tale, una “mera difesa”, non soggetta alle preclusioni processuali previste per le “eccezioni in senso tecnico” di cui all’art. 2697 c.c., comma 2 (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 14468 del 30/05/2008; id. Sez. U., Sentenza n. 2951 del 16/02/2016, in motivazione paragr. nn. 64 e 65), in quanto volta esclusivamente a negare la esistenza di un fatto costitutivo del diritto fatto valere in giudizio, sul quale il Giudice di merito è chiamato direttamente ad effettuare l’accertamento – anche indipendentemente da una specifica eccezione di parte – alla stregua degli elementi probatori forniti “hinc et inde” ed acquisiti al giudizio (a tal fine valutando anche l’eventuale effetto di “relevatio ab onere probandi” determinato dalla non contestazione del convenuto), fatto salvo in ogni caso l’eventuale giudicato formatosi sul punto.

Tanto premesso le coordinate da seguire per regolare l’onere probatorio inerente la effettiva titolarità del rapporto controverso, e; nella specie, dell’acquisto della qualità di erede da parte dei soggetti costituitisi in giudizio a seguito di notifica dell’atto di riassunzione a cura della parte attrice, vanno rinvenute nel noto arresto di questa Corte Cass. Sez. U, Sentenza n. 2951 del 16/02/2016, le cui conclusioni possono certamente essere condivise, non avendo allegato le parti ragioni nuove che impongano una rimeditazione.

Ferma la premessa che la qualità di eredi delle parti convenute è da ritenere elemento costitutivo del diritto di credito (e della relativa domanda di condanna al pagamento della somma di Euro 206.268,00 oltre accessori) vantato da F.P. nei confronti dell’originario debitore S.S., deceduto nelle more del giudizio in primo grado, incombe su chi agisce, in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697 c.c., l’onere di provare l’avvenuto trasferimento “mortis causa” del rapporto obbligatorio alla parte convenuta, non potendo desumersi la qualità di erede dalla mera indicazione del convenuto come “chiamato all’eredità”, non essendo prevista alcuna presunzione in tal senso, ma conseguendo la qualità di erede solo all’accettazione dell’eredità, espressa o tacita, la cui ricorrenza rappresenta, quindi, un elemento costitutivo del diritto azionato nei confronti del soggetto evocato in giudizio nella predetta qualità (cfr. Corte Cass. Sez. L, Sentenza n. 10525 del 30/04/2010; id. Sez. L -, Sentenza n. 21436 del 30/08/2018).

Orbene, la regola del riparto dell’onere probatorio concerne i fatti, allegati dalle parti, che necessitino di verifica attraverso la fase istruttoria, venendo a dipendere la estensione del “thema probandum” dalla previa definizione, in esito alla fase di trattazione, del “thema controversum”, ossia della individuazione dei fatti ritenuti rilevanti ai fini dell’affermazione o della negazione del diritto la cui tutela è richiesta in giudizio. L’ambito dell’onere probatorio verrà quindi determinato in relazione a quei soli fatti, ritenuti rilevanti, sulla cui esistenza o modalità di accadimento le parti si trovano in dissenso, risultando dirimente a tal fine la previa verifica dei fatti rilevanti sulla cui esistenza e modalità di essere le parti concordano e dei quali il Giudice di merito dovrà tenere conto, unitamente ai fatti contestati dei quali è stata fornita prova, ai fini dell’accertamento del diritto.

Il fatto giuridico (acquisto della eredità del debitore), che si inserisce nella fattispecie costitutiva del diritto di credito affermato dalla parte attrice, può dunque essere riconosciuto o invece contestato dal chiamato all’eredità, potendo in quest’ultimo caso limitarsi a negare l’esistenza di fatti costitutivi del diritto (svolgendo una “mera difesa”), oppure contrapporre altri fatti che privino di efficacia l’indicato fatto giuridico costitutivo del diritto di credito (proponendo in tal modo una “eccezione di merito” che onera, allora, la parte eccipiente della dimostrazione del fatto impeditivo, modificativo od estintivo del diritto, giusta la regola dell’art. 2697 c.c., comma 2). La proposizione della “eccezione di merito”, a differenza della “mera difesa” che prescinde dalla introduzione di nuovi fatti, impone, pertanto, alla parte l’osservanza delle decadenze e preclusioni processuali previste per l’esercizio dei poteri di allegazione e deduzione probatoria.

Occorre quindi necessariamente riferirsi alla condotta processuale della parte evocata in riassunzione per stabilire se il fatto giuridico (acquisto qualità di erede) costitutivo del diritto di credito possa o meno considerarsi fatto contestato od invece riconosciuto, essendo consentito al Giudice utilizzare, ai fini del convincimento probatorio, come argomento di prova, “ex” art. 116 c.p.c., anche il comportamento tenuto dalle parti, ed in particolare il fatto che la controparte consideri l’intervenuta successione come verificata e riconosca la qualità di erede, ovvero imposti una linea difensiva incompatibile con la mancanza di quella qualità (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13685 del 13/06/2006; id. Sez. 2, Sentenza n. 4381 del 23/02/2009; id. Sez. 3, Sentenza n. 23057 del 30/10/2009; id. Sez. 2, Sentenza n. 25341 del 15/12/2010). La condotta ammissiva o non contestativa della qualità di erede, da parte del soggetto individuato come chiamato all’eredità, verrebbe infatti ad esonerare la parte attrice dall’onere di dimostrare il fatto giuridico costitutivo del diritto di credito, rimanendo definitivamente acquisito il fatto accertativo della titolarità del rapporto – nella specie “ex latere debitoris” – in capo al soggetto che non ha negato di essere successore a titolo universale del “de cuius”.

Al riguardo occorre rilevare come la nuova formulazione dell’art. 115 c.p.c., comma 1, novellato dalla L. 18 giugno 2009, n. 69, art. 45, comma 14, non ha fatto altro che recepire un principio, quello di non contestazione, costantemente affermato dalla dottrina e dalla giurisprudenza e che ha avuto l’avallo anche delle Sezioni Unite di questa Corte fin dal precedente di Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 761 del 23/01/2002 che già aveva ritenuto come l’art. 416 c.p.c., per il rito del lavoro e l’art. 167 c.p.c., comma 1, per il rito ordinario, imponendo al convenuto di prendere posizione nell’atto di costituzione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, venivano a configurare la non contestazione un comportamento univocamente rilevante ai fini della determinazione dell’oggetto del giudizio, con effetti vincolanti per il Giudice, il quale dovrà astenersi da qualsiasi controllo probatorio del fatto non contestato, e dovrà ritenerlo sussistente proprio per la ragione che l’atteggiamento difensivo delle parti, valutato alla stregua dell’esposta regola di condotta processuale, espunge il fatto stesso dall’ambito degli accertamenti richiesti; pertanto la mancata contestazione, a fronte di un onere esplicitamente imposto dal legislatore, rappresenta l’adozione di una linea incompatibile con la negazione del fatto, e quindi rende inutile provarlo perchè non controverso (così, in motivazione, Corte Cass. Sez. U., Sentenza n. 12065 del 29/05/2014, che evidenzia come la riforma dell’art. 115 c.p.c., disposta dalla L. n. 69 del 2009, ha interessato solo l’ampliamento del fenomeno, non distinguendo ai fini della applicazione del principio di non contestazione tra fatti “principali” e fatti “secondari”). L’obbligo in questione acquista diversa estensione in relazione al carattere più o meno circostanziato dei fatti allegati: ne consegue che l’onere di contribuire alla fissazione del “thema decidendum” opera identicamente rispetto all’una o all’altra delle parti in causa, sicchè, a fronte di una generica deduzione da parte dell’attore, la difesa della parte convenuta non può che essere altrettanto generica, e pertanto idonea a far permanere gli oneri probatori gravanti sulla controparte (cfr. Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21847 del 15/10/2014;; id. Sez. 3, Sentenza n. 3023 del 17/02/2016; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 21075 del 19/10/2016; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 11252 del 10/05/2018; id. Sez. U., Sentenza n. 12065 del 29/05/2014, cui adde Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 11276 del 10/05/2018 – che parametrano l’onere di specificità della contestazione a quello della allegazione confutata, nella specie costituita da dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà in cui veniva indicato il titolo di acquisto della qualità di erede).

Occorre aggiungere che se la norma dell’art. 115 c.p.c., comma 1, letta in combinato disposto dall’art. 167 c.p.c., comma 1 (che richiede al convenuto di prendere specificamente posizione su tutti i fatti posti a fondamento della domanda), non prevede espressamente alcun “termine di decadenza” per lo svolgimento della “mera difesa” contestativa, a differenza della disciplina dettata per le “eccezioni di (rito e di) merito” in senso stretto – non rilevabili anche ex officio – per cui è prescritta, invece, dall’art. 167 c.p.c., comma 2, a pena di decadenza, la proposizione nella comparsa di risposta ritualmente depositata in Cancelleria (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23657 del 19/11/2015), è pur vero che il sistema processuale improntato alla corretta e leale dialettica tra le parti ed informato al principio dispositivo, richiede ai difensori l’osservanza del canone di condotta di “clare loqui”, trovando limite la mera difesa contestativa nello sbarramento imposto dall’esaurimento della fase di trattazione, all’esito della quale debbono essere compiutamente definiti i fatti rilevanti contestati, che abbisognano della verifica istruttoria, e quelli invece incontestati che possono ritenersi per accertati, rimanendo preclusa alle parti ulteriore attività allegatoria sia assertiva che negativa.

L’espediente difensivo volto ad occultare la propria posizione rispetto ai fatti allegati dalla controparte, riservando, “secundum eventum litis”, lo svolgimento della “mera difesa” contestativa dei fatti all’ultimo atto difensivo del giudizio (memorie conclusionali), rivela un comportamento processuale stigmatizzabile in quanto contrario sia ai doveri prescritti ai difensori ex art. 88 c.p.c., sia al principio di ragionevole durata del processo, non più consentito, in quanto la effettiva volontà contestativa o meno desumibile dal comportamento processuale della parte, dovrà essere riferita nell’indagine demandata al Giudicante al momento in cui è stato definito il “thema decidendum”, e dunque in relazione alle eventuali memorie depositate dalle parti in caso di trattazione scritta entro il secondo termine assegnato ai sensi dell’art. 183 c.p.c., comma 6, dovendo al riguardo considerarsi che la norma dell’art. 115 c.p.c., comma 1, prescrive al Giudice di porre a fondamento della decisione “i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita”, senza tuttavia imporre alla parte anche un obbligo di “espressa” manifestazione della volontà contestativa: ciò che deve indurre a ravvisare la contestazione del fatto, anche in tutti quei casi in cui con le difese svolte la parte abbia dedotto circostanze o sviluppato argomenti in diritto che risultino specificamente ed oggettivamente incompatibili con una o più determinate allegazioni in fatto della controparte (cfr. Corte Cass. Sez. 6 – 2, Ordinanza n. 29830 del 29/12/2011; id. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 11276 del 10/05/2018).

La condotta processuale “contestativa” della parte dovrà essere attentamente valutata dal Giudice in quanto, se pure integrante “mera difesa” non sottoposta agli oneri deduttivi e probatori cui è soggetta invece la eccezione di merito, rimarrà pur sempre assoggettata alle “preclusioni” formatesi con la definizione del “thema decidendum”, all’esito della “fase di trattazione” (cfr. Corte Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 11276 del 10/05/2018), rimanendo in conseguenza esclusi dal “thema decidendum” i fatti tardivamente contestati – come tali inopponibili nelle fasi successive del processo – qualora il Giudice non sia in grado, in concreto, di accertarne l’esistenza o l’inesistenza “ex officio”, in base alle risultanze istruttorie ritualmente acquisite (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18207 del 05/08/2010; id. Sez. 3, Sentenza n. 23657 del 19/11/2015).

Sul punto va confermato il principio enunciato da questa Corte secondo cui “Nel processo di cognizione, l’onere previsto dall’art. 167 c.p.c., comma 1, di proporre nella comparsa di risposta tutte le difese e di prendere posizione sui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda, comporta che, esaurita la fase della trattazione, non è più consentito al convenuto, per il principio di preclusione in senso causale, di rendere controverso un fatto non contestato, nè attraverso la revoca espressa della non contestazione, nè deducendo una narrazione dei fatti alternativa e incompatibile con quella posta a base delle difese precedentemente svolte. Ne consegue che, in grado di appello, non è ammessa la contestazione della titolarità passiva del fatto controverso che debba aversi per non contestata nel giudizio di primo grado” (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 26859 del 29/11/2013; id. Sez. 1, Sentenza n. 15031 del 21/07/2016 – con riferimento alla qualità di erede, titolare del diritto, affermata dalla parte che agiva in giudizio, e contestata dal convenuto soltanto nella comparsa conclusionale -).

Tanto premesso la Corte d’appello, dopo aver correttamente rilevato che le parti evocate in riassunzione avevano l’onere di contestare l’affermazione della loro qualità di eredi contenuta nel ricorso ex art. 303 c.p.c., ad esse notificato dall’attore F.P., ha poi aggiunto che tale contestazione doveva essere supportata anche dalla prova del mancato acquisto della qualità di erede, in ragione del principio di prossimità della prova del fatto in capo ai chiamati all’eredità.

Il Giudice di appello ha richiamato i precedenti di questa Corte Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7517 del 31/03/2011 e Sez. 3, Sentenza n. 22870 del 10/11/2015, entrambi precedenti all’arresto delle Sez. U., Sentenza n. 2951 del 16/02/2016, in cui vengono enunciati principi di diritto intesi a distinguere nettamente tra “legitimatio ad causam” e titolarità del rapporto sostanziale, in relazione a quest’ultima soltanto venendo in rilievo l’assolvimento dell’onere probatorio dei fatti dimostrativi della qualità erede: i precedenti richiamati dalla sentenza impugnata, vengono, infatti, a sovrapporre le due nozioni, e pur legittimando la rituale riassunzione del processo nei confronti dei soggetti per i quali opera la delazione (chiamati all’eredità), qualora non risulti possibile secondo la ordinaria diligenza acquisire conoscenza dell’acquisto della qualità di erede o di elementi ostativi all’accettazione della eredità, precisando e ribadendo tuttavia che la delazione non coincide con l’acquisto a titolo derivativo che dovrà pertanto essere successivamente dimostrato, vengono poi ad addossare ai “chiamati” non soltanto l’onere della contestazione del fatto allegato (id est che alla situazione di legittimazione alla accettazione della eredità abbia fatto seguito l’acquisto della qualità di erede), ma anche della prova contraria e cioè del mancato perfezionamento della successione “mortis causa”.

Indipendentemente dalla questione della correttezza o meno dell’indicata soluzione del riparto dell’onere probatorio ed alla sussistenza di ragioni idonee a ravvisare nella fattispecie la necessità di regolare detto onere in base al criterio di “vicinanza della prova”) secondo cui verrebbe a non gravare su colui che agisce in giudizio, per il debito contratto da “de cuius”, la prova che i soggetti contro i quali fa valere il credito siano effettivamente subentrati nel lato passivo del rapporto, osserva il Collegio che i precedenti giurisprudenziali sopra indicati hanno poi risolto la controversia sul piano dell’accertamento della prova presuntiva – ossia sul piano della inferenza probatoria che dal fatto noto conduce a quello ignorato – dell’acquisto della eredità, valorizzando un complesso di elementi indiziari (allegazione della qualità di eredi; certificazione dello stato di famiglia attestante la relazione di parentela con il “de cuius”; dichiarazione della successione a fini fiscali; comportamento processuale non contestativo od incompatibile (Ndr: testo originale non comprensibile) con l’acquisto della qualità di erede; esercizio di azioni a tutela della proprietà dei beni appartenenti all’asse ereditario, esulanti da quelle meramente conservative dello “status quo” in cui detti beni si trovano al momento dell’apertura della successione consentite al chiamato alla eredità dall’art. 460 c.c.) che, o denotano in modo inequivoco la volontà dei “chiamati” di assumere la qualità di eredi, ovvero disvelando il fatto implicito di una condotta qualificabile come accettazione tacita della eredità.

In ciò i predetti precedenti non si sono discostati da quel filone giurisprudenziale che, distinguendo la prova dei fatti legittimanti l’accettazione della eredità, dalla prova dell’effettivo acquisto della eredità (accettazione) o della rinuncia ad essa, ritiene che la verifica dell’assolvimento dell’onere della prova, a carico di colui che afferma la qualità di erede, non possa prescindere dalla valutazione del comportamento “significante”, processuale ed extraprocessuale, tenuto dal “chiamato alla eredità”, comportamento in considerazione del quale è consentito ricorrere al meccanismo logico presuntivo attraverso il quale può pervenirsi a ritenere pienamente assolto l’onere probatorio, relativo al possesso della qualità di erede, gravante sulla parte che fa valere la pretesa in giudizio (cfr. Corte Cass. Sez. 2, Sentenza n. 13738 del 27/06/2005; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 10060 del 24/04/2018; id. Sez. 2 -, Ordinanza n. 14499 del 06/06/2018; id. Sez. 3 -, Ordinanza n. 16814 del 26/06/2018: tutte concernenti la ipotesi del “chiamato alla eredità” che implicitamente manifesta la volontà di accettazione della eredità, con l’esperimento di azioni giudiziali “proprie” dell’erede).

Alla stregua delle precedenti considerazioni, deve allora ritenersi corretta l’affermazione della Corte d’appello secondo cui era onere dei “chiamati all’eredità” contestare specificamente di avere assunto la qualità di eredi; mentre, a prescindere dalla correttezza della statuizione per cui detta contestazione risulta inefficace qualora non sia assistita anche dalla prova dei fatti (rinuncia; indicazione di altri titolo successori a favore di terzi) che negano il possesso della qualità di erede, risulta in ogni caso non investito da specifica censura l’accertamento in fatto, compiuto dal Giudice di merito, sul complessivo comportamento processuale – ritenuto significativo ai fini della presunzione del fatto successorio “in universum jus” – tenuto dalle parti nei confronti delle quali il processo era stato riassunto. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto che la indicazione di “chiamati alla eredità”, nella intestazione della comparsa di costituzione in riassunzione, fosse rimasta contraddetta da un comportamento concludente in funzione dell’assunzione della qualità di eredi, evidenziato: 1- alle difese svolte in comparsa, interamente attinenti al merito della pretesa, e concernenti la debenza dell’importo risarcitorio liquidato dal primo Giudice; 2- dalla assenza nella comparsa di costituzione di specifiche contestazioni, certamente aventi carattere preliminare e decisivo, sulla mancanza di titolarità passiva del rapporto obbligatorio, sebbene questione da ritenere assolutamente prevalente e dirimente su qualsiasi altra difesa; 3- dalla negazione espressa della qualità di erede formulata solo tardivamente (rispetto alle preclusioni della fase di trattazione operanti anche in materia di contestazione dei fatti allegati ex adverso) in comparsa conclusionale.

Su tale aspetto i ricorrenti non hanno svolto alcuna idonea critica, essendosi limitati ad allegare che in comparsa di costituzione in riassunzione si erano qualificati come “chiamati alla eredità”, e non avendo allegato nè fornito alcun elemento utile – trascrivendo il contenuto delle difese svolte in detta comparsa di costituzione, ovvero dei verbali di udienza o degli altri atti difensivi o documenti depositati nel giudizio di merito – rilevante ai fini della verifica dell’errore commesso dal Giudice di appello in ordine all’apprezzamento della concludenza del comportamento processuale dei chiamati in quanto significativo di una implicita accettazione dell’eredità del debitore deceduto o comunque in quanto da ritenere incompatibile con la volontà di rinuncia alla eredità.

La censura è manchevole quindi sotto il profilo del supporto argomentativo della critica formulata alla statuizione impugnata, in quanto non consente a questa Corte di accedere alla verifica del diverso significato attribuibile al comportamento processuale tenuto dai chiamati, non essendo dato esaminare se, dagli atti difensivi e dalle condotte tenute dai chiamati fino alla chiusura della fase di trattazione, fosse al contrario evincibile una chiara ed inequivoca volontà di rinuncia alla assunzione della qualità di eredi.

In conclusione il ricorso deve essere rigettato con conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo e raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

rigetta il ricorso.

Condanna i ricorrenti al pagamento in favore del controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1 comma 17, la Corte dà atto che il tenore del dispositivo è tale da giustificare il versamento, se e nella misura dovuto, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, il 8 ottobre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

 

 

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