Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25881 del 14/10/2019

Cassazione civile sez. I, 14/10/2019, (ud. 13/09/2019, dep. 14/10/2019), n.25881

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna – rel. Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giuseppe – Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 20352-2018 proposto da:

D.M., rappresentato e difeso dall’avvocato Daniele Accebbi

del foro di Vicenza, giusta procura in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore,

rappresentato e difese ex lege dall’Avvocatura generale dello Stato,

presso cui uffici in Roma Via dei Portoghesi 12 domicilia;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’Appello di Venezia, n. 1074

depositata il 02/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio non

partecipata del 13/09/2019 dal Consigliere Relatore Dott. MARIA

GIOVANNA SAMBITO.

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con sentenza del 2.5.2018, la Corte d’Appello di Venezia ha confermato il rigetto delle istanze volte al riconoscimento della protezione internazionale, avanzate da D.M., cittadino della Costa d’Avorio, il quale aveva dichiarato di essere espatriato per il timore di essere ucciso in quanto sostenitore di G.L., candidato che aveva perso le elezioni. La Corte riteneva il racconto non credibile, e comunque insussistenti i presupposti per le tutele richieste. Lo straniero ha proposto ricorso per cassazione, sulla scorta di tre motivi, resistiti con controricorso dal Ministero dell’Interno.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Col primo motivo, si deduce la violazione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2 lett. e), artt. 5, 7 e 14; D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32,D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19, comma 1. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale ha incomprensibilmente negato il riconoscimento di ogni forma di protezione, in totale spregio della normativa vigente e sulla scorta di una supina condivisione delle erronee conclusioni alle quali era pervenuto il Tribunale. In particolare, afferma il ricorrente, non si era tenuto conto che la campagna elettorale da lui prestata in favore del candidato che aveva perso le elezioni e che per di più era cristiano, essendo lui musulmano – lo aveva esposto a minacce di morte da parte dei sostenitori del vincitore, ormai divenuti autorità costituita. Dopo aver attraversato il Burkina Faso, aveva raggiunto la Libia, ove era rimasto per tre anni, lavorando come calciatore, per poi fuggire verso l’Italia. L’interpretazione del modello C3 era poi erronea e superficiale e del pari erano state a torto enfatizzate le insignificanti discrasie rilevate, laddove non era stata considerata l’integrazione raggiunta nel territorio nazionale e la permanenza in Libia.

2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce “anche quale vizio di motivazione su un punto decisivo della controversia oggetto di discussione tra le parti, del D.Lgs. n. 251 del 2017, art. 3, comma 5, lett. a) – e), in punto di onus probandi, cooperazione istruttoria in capo al Giudice e criteri normativi di valutazione degli elementi di prova e delle dichiarazioni rese dai dichiaranti nei procedimenti di protezione internazionale”. Il ricorrente afferma che la Corte veneziana aveva omesso di esercitare i propri poteri officiosi, in violazione dell’onere probatorio attenuato e del dovere di cooperazione che le incombeva, limitandosi a definire genericamente la Costa d’Avorio come un Paese in cui l’emergenza socio-politica e giuridico-ordinamentale è rientrata, e ciò sulla base di ondivaghi reports pubblicati da fonti non ufficiali. Al contrario, prosegue il ricorrente, le fonti ufficiali danno conto che nel suo Paese la situazione è tutt’altro che normalizzata.

3. Col terzo motivo, si deduce la violazione del principio del non refoulement, di cui all’art. 3 della CEDU e art. 33 della convenzione di Ginevra. Il ricorrente afferma che, se fosse costretto a ritornare nel proprio Paese, rischierebbe di subire un danno grave, ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. b).

4. Disattesa l’eccezione d’inammissibilità del ricorso, adeguatamente specifico, i motivi, che, per la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente, presentano profili d’inammissibilità e d’infondatezza.

5. A parte che il ricorrente confonde e sovrappone il momento della valutazione di credibilità soggettiva col dovere di cooperazione istruttoria, questa Corte deve rilevare che in relazione alla massima protezione ed ai casi disciplinati dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), di “condanna a morte o all’esecuzione della pena di morte” o “tortura o altra forma di pena o trattamento inumano e degradante ai danni del richiedente”, la valutazione di credibilità soggettiva costituisce una premessa indispensabile perchè il giudice debba dispiegare il suo intervento: le dichiarazioni che siano intrinsecamente inattendibili, alla stregua degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, non richiedono, infatti, alcun approfondimento istruttorio officioso (Cass. n. 5224 del 2013; n. 16925 del 2018 e successive conformi), salvo che la mancanza di veridicità derivi esclusivamente, ma non è questo il caso, dall’impossibilità di fornire riscontri.

6. Nella specie, la Corte territoriale ha escluso la sussistenza della credibilità soggettiva del richiedente su specifiche discrasie del suo racconto, riferite: alla data di partenza dalla Costa d’Avorio e di arrivo nel territorio nazionale; alla mancata conoscenza del programma elettorale del candidato per cui si sarebbe speso e dell’acronimo del partito che avrebbe promosso; alla incongruenza della motivazione che lo avrebbe spinto ad appoggiare il candidato (“perchè l’amava”); alla genericità nell’indicazione dell’uccisione di alcuni soggetti, alla contraffazione della tessera d’iscrizione. Tali elementi, che attengono alla coerenza intrinseca del racconto reso, sono criticati dal ricorrente – che ne sminuisce la portata, provvedendo a dare, in parte, una valutazione diversa – mediante la richiesta a questa Corte di un nuovo apprezzamento dei fatti, oltre che di un diretto esame di documenti (il modello C3 – che neppure viene trascritto – e della tessera contraffatta), inammissibili in questa sede di legittimità. 7. La decisione risulta, insomma, assunta in conformità degli indicatori di genuinità soggettiva di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 3, contrariamente a quanto con acrimonia le imputa il ricorrente, che neppure deduce alcun fatto decisivo, il cui esame sarebbe stato omesso e che avrebbe condotto ad una decisione diversa.

8. Va, poi, rilevato che, sebbene il racconto del richiedente non abbia fatto alcun cenno alle ipotesi di cui dell’art. 14, lett. c), la Corte non ha omesso di acquisire le informazioni aggiornate sul Paese di origine, ed ha comunque escluso che sussista alcuna ipotesi di conflitto armato interno, in base a fonti espressamente menzionate nella sentenza. Anche in questo caso, il relativo accertamento implica un apprezzamento di fatto rimesso al giudice del merito, il cui risultato può essere censurato, con motivo di ricorso per cassazione, nei limiti di cui al novellato art. 360 c.p.c., n. 5, il che non è stato dedotto, avendo, piuttosto, il ricorrente richiamato giurisprudenza di merito e fonti che danno, bensì, conto di una situazione di precarietà e di violazioni di diritti civili, ma che non può esser sussunta in quella situazione di violenza generalizzata in conflitto armato interno o internazionale, che, al lume dei principi affermati dalla Corte di Giustizia UE (17 febbraio 2009, Elgafaji, C-465/07 e 30 gennaio 2014, Diakitè, C-285/12; vedi pure Cass. n. 13858 del 2018), può dar luogo alla tutela richiesta. 9. Resta da aggiungere che, a differenza da quanto sembra opinare il ricorrente, la disposizione dell’art. 8, comma 3, non detta un elenco tassativo delle fonti da consultare, come attesta il fatto che, accanto ad UNHCR, EASO e MAE, legittima le informazioni “comunque acquisite dalla commissione stessa” e pertanto dal giudice (Cass. n. 9090 del 2019).

10. La sentenza è esente dalle critiche che le sono rivolte in relazione al mancato riconoscimento della protezione umanitaria: il ricorrente omette del tutto di indicare sue specifiche ragioni di vulnerabilità, condizione che deve riguardare la persona del singolo richiedente e non anche quella generale del Paese di origine, senza dire che il difetto di credibilità soggettiva si riflette, negativamente, anche, in relazione al titolo di soggiorno in esame. 11. Deve, da ultimo, rilevarsi che il richiedente non spiega quale connessione vi sia tra il dedotto (ma rimasto indimostrato) transito dalla Libia ed il contenuto della propria domanda di protezione, il che rende quella parte di vicenda effettivamente irrilevante (Cass. n. 29875 del 2018).

12. La violazione del principio del non refoulement è insussistente: essa muove da un presupposto (esposizione al rischio di un danno grave, in ipotesi di rientro in Patria) che non ha trovato riscontro in sede di merito.

13. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna alle spese, che liquida in Euro 2.100,00, oltre a spese generali ed a spese prenotate a debito. Dà atto della non sussistenza dei presupposti per il raddoppio del contributo unificato.

Così deciso in Roma, il 13 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

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