Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25872 del 14/10/2019

Cassazione civile sez. I, 14/10/2019, (ud. 12/09/2019, dep. 14/10/2019), n.25872

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CAMPANILE Pietro – Presidente –

Dott. SAMBITO Maria Giovanna C. – Consigliere –

Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare Giusepp – rel. Consigliere –

Dott. PARISE Clotilde – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 18055/2018 proposto da:

F.B., elettivamente domiciliato in Roma, Via Panama 18,

presso lo studio dell’avvocato Marco Pieri e rappresentato e difeso

dagli avvocati Francesca Aliverti, Gianluigi Bonifati, Roberto

Redaelli, in forza di procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

Commissione Territoriale Riconoscimento Protezione Internazionale

Milano, Ministero dell’Interno;

– intimato –

avverso il decreto del TRIBUNALE di MILANO, depositato il 09/05/2018;

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

12/09/2019 dal Consigliere Dott. UMBERTO LUIGI CESARE GIUSEPPE

SCOTTI.

Fatto

FATTI DI CAUSA

1. Con ricorso D.Lgs. n. 25 del 2008, ex art. 35 bis, depositato il 30/10/2017, F.B., cittadino senegalese, ha adito il Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE, impugnando il provvedimento con cui la competente Commissione territoriale per il riconoscimento della protezione internazionale ha respinto la sua richiesta di protezione internazionale, nelle forme dello status di rifugiato, della protezione sussidiaria e della protezione umanitaria.

Il richiedente aveva riferito di essere cittadino senegalese, nato e vissuto a (OMISSIS), comune di Missirah, di etnia diakankè e religione musulmana; di aver perso il padre nel 2012 e di aver vissuto con la madre e due sorelle e due fratelli; che lo zio paterno, dopo la morte del padre, voleva impossessarsi dell’eredità e nel 2016 lo aveva accusato di aver provocato un incendio nel magazzino del foraggio; che lo zio aveva colpito la madre e lo aveva ferito all’addome; che si era rifugiato in Mali e nonostante l’intervento degli anziani del villaggio le minacce erano proseguite; che, andato in Libia per la vendita di una automobile, era stato arrestato e imbarcato a sua insaputa per l’Italia; di temere di essere ucciso dallo zio in caso di ritorno in Senegal.

Con Decreto del 9/5/2018, il Tribunale di Milano – Sezione specializzata in materia di immigrazione, protezione internazionale e libera circolazione dei cittadini UE ha rigettato il ricorso, ritenendo la non sussistenza dei presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale e umanitaria.

2. Avverso il predetto decreto ha proposto ricorso F.B., con atto notificato il 11/6/2018, svolgendo due motivi.

L’intimata Amministrazione dell’Interno non si è costituita in giudizio.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. Con il primo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge del D.Lgs. n. 251 del 2007, artt. 3, 5, 6,7,14, D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 8 e dell’art. 2 CEDU, nonchè omesso esame di fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5.

1.1. Il ricorrente ricorda che la minaccia persecutoria ben può provenire anche da soggetti non statuali, se lo Stato e le autorità che controllano il territorio non sono capaci di tutelare i cittadini da tali azioni persecutorie o da danni gravi.

Il Tribunale avrebbe quindi dovuto effettuare verifiche specifiche relative al caso concreto, acquisendo informazioni aggiornate, anche in ordine all’effettiva protezione assicurata dalle autorità statuali; ciò nel caso in esame non era avvenuto, poichè il Collegio si era limitato a riferirsi a non meglio precisate e citate fonti, diverse da quelle indicate in tema di sussistenza di conflitto armato interno.

1.2. Il Tribunale, pur rilevando alcune imprecisioni e incongruenze del racconto del richiedente asilo, che ha finito con l’attribuire alla sua giovane età e al trauma psicologico subito, ha ritenuto complessivamente credibile la sua narrazione.

Il riconoscimento dello status di rifugiato è stato tuttavia escluso non solo per la provenienza delle minacce da un agente non statuale, ma anche perchè esse non potevano qualificarsi come atti persecutori ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 5 e soprattutto non potevano essere ricondotte alle motivazioni indicate nell’art. 8 dello stesso decreto.

Il riconoscimento della protezione sussidiaria con riferimento alle ipotesi di cui del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 14, lett. a) e b), è stato escluso anche per l’assenza del rischio di condanna a morte o di trattamenti inumani o degradanti.

La ragione del rifiuto delle forme maggiori di protezione internazionale non è quindi dipesa solo dalla natura non statuale del soggetto autore delle minacce (lo zio paterno), ma anche e soprattutto dalla natura meramente privata e familiare della contesa che aveva determinato gli atti violenti dello zio, sicchè la censura appare defocalizzata rispetto al decisum, che non viene aggredito nella sua interezza e nella sua parte centrale e qualificante.

1.3. In ogni caso, il Tribunale milanese ha anche rilevato che il richiedente asilo non aveva neppure provato a richiedere protezione alle autorità statuali nei confronti delle minacce e degli atti di violenza perpetrati dallo zio, aggiungendo che non constava l’inaccessibilità del sistema giuridico senegalese e la sua incapacità di assicurare protezione ai cittadini da minacce di danno grave proveniente da soggetti privati.

1.4. Il ricorrente lamenta la genericità del riferimento del Tribunale alle fonti da cui era stata attinta tale notizia in negativo.

Tuttavia la deduzione del ricorrente circa l’inefficienza del sistema giudiziario senegalese (per vero accusato più che da inerzia da abusi e arbitrarietà) è del tutto generica e viene ritratta da un documento (rapporto della Commissione nazionale per il diritto d’asilo 30/10/2017) della quale non viene debitamente allegata e dimostrata la produzione e sottoposizione al contraddittorio.

Inoltre, anche se il riferimento alle “fonti” di cui all’ultimo paragrafo di pagina 4 del decreto impugnato è generico, non vi è motivo di dubitare che con esso il Tribunale abbia inteso riferirsi alla consultazione delle stesse fonti invece ampiamente citate nelle pagine 6 e 7 con riferimento alle condizioni generali del Senegal.

2. Con il secondo motivo di ricorso, proposto ex art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, il ricorrente denuncia violazione o falsa applicazione di legge del D.Lgs. n. 25 del 2008, art. 32, comma 3, D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6 e art. 19 e dell’art. 10 Cost., nonchè omesso esame di fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 c.p.c., n. 5, in relazione ai presupposti per il rilascio di un permesso di soggiorno per motivi umanitari.

2.1. Secondo il ricorrente, era totalmente mancata da parte del Tribunale la necessaria comparazione fra il livello di integrazione sociale raggiunto dal richiedente, la situazione obiettiva del paese di origine risultante da fonti disponibili, la personale vicenda del ricorrente, e le minacce subite in patria da parte dello zio, impossessatosi della sua eredità.

2.2. Il Tribunale, a pagina 8, dopo una lunga premessa relativa all’istituto della protezione umanitaria e in adesione alla giurisprudenza di questa Corte, ha affermato che essa può essere riconosciuta quando all’esito di un giudizio prognostico e di una concreta comparazione fra le condizioni del Paese di origine e quelle di vita in Italia, si possa ragionevolmente presumere in caso di ritorno in patria una apprezzabile compromissione del diritto a una vita libera e dignitosa, ravvisabile a fronte di una incolmabile sproporzione fra i due contesti.

Tuttavia, nel caso concreto, l’integrazione sociale del ricorrente, attestata solo da una serie di documenti che dimostravano una volontà di apprendimento linguistico e di formazione lavorativa, era piuttosto limitata poichè non si correlava a una vita privata e familiare del richiedente sul territorio nazionale e di per sè non giustificava il riconoscimento del permesso di soggiorno per motivi umanitari.

Inoltre non può essere riconosciuto al cittadino straniero il diritto al permesso di soggiorno per motivi umanitari, di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 5, comma 6, considerando, isolatamente ed astrattamente, il suo livello di integrazione in Italia (Sez. 6-1, n. 17072 del 28/06/2018, Rv. 649648-01; Sez. 1, n. 4455 del 23/02/2018, Rv. 647298-01).

Per altro verso, tali sforzi di integrazione non si accompagnavano a una condizione di particolare vulnerabilità soggettiva e personale in caso di rientro nel Paese di origine, che il richiedente pretende di ritrarre dalla sola vicenda personale, incorrendo nelle considerazioni sopra esposte con riferimento al primo motivo.

3. Il ricorso deve quindi essere rigettato.

Nulla sulle spese in difetto di costituzione dell’Amministrazione.

Poichè risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere stata ammessa al Patrocinio a spese dello Stato non si applica il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater.

P.Q.M.

La Corte:

rigetta il ricorso.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della insussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile, il 12 settembre 2019.

Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2019

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