Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25871 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 16/11/2020), n.25871

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – rel. Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 31332/2018 R.G. proposto da:

P.F., C.C., Ca.Fr. e

Ca.Cl., rappresentati e difesi dall’Avv. Luigi Molaro, con domicilio

eletto in Roma, Via Baldo degli Ubaldi, n. 330, presso lo studio

dell’Avv. Maria Assunta Iasevoli;

– ricorrenti –

contro

Società Immobiliare Agro Forestale M. dei fratelli Ca.,

L. e G., rappresentata e difesa dall’Avv. Giuseppe Gallo, con

domicilio eletto in Roma, Via Del Podere Rosa, n. 133, presso il

Dott. Corrado Bibbò;

– controricorrente –

avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli, Sezione

Specializzata Agraria, n. 1290/2018 depositata il 12 aprile 2018;

Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 15 settembre

2020 dal Consigliere Dott. Emilio Iannello.

 

Fatto

RILEVATO IN FATTO

1. La Società Immobiliare Agro Forestale M. dei fratelli Ca., L. e G. adì, nel 2011, la Sezione Specializzata Agraria del Tribunale di Nola chiedendo la condanna di P.F. al pagamento della somma di Euro 13.945,92, per canoni dovuti dal 2001 in relazione all’affitto di fondo rustico sito in (OMISSIS).

La P. – costituitasi insieme con i figli F. e Ca.Cl. ed il nipote C.C. – dedusse di coltivare bensì, con la collaborazione dei detti congiunti, un fondo in (OMISSIS), ma di farlo in virtù di rapporto di affitto intercorrente con Me.Ra., originario concedente: rapporto da essa regolarmente onorato, fino al 2006, con il pagamento di un canone annuo di Euro 470, nulla sapendo di cessioni a terzi del terreno. Eccepì, dunque, la carenza di legittimazione attiva della ricorrente, il difetto di integrità del contraddittorio, l’indeterminatezza del ricorso e la sua infondatezza, in difetto di prova del contratto di affitto, ed ancora la nullità del canone in natura invocato da controparte. Chiese in via riconvenzionale dichiararsi la nullità del contratto con il quale, in data 19 febbraio 2001, la società aveva acquistato una quota dei fondi.

Dichiarata la nullità dell’atto introduttivo e ordinatane la rinnovazione, la società vi provvide, con atto del 28 giugno 2012, precisando che: del terreno ad oggetto del rapporto agrario essa era proprietaria per una quota di 825/1000, essendo la restante quota ancora di proprietà di Me.Ma.Ca.; pertanto il suo credito era proporzionalmente “limitato soltanto per la superficie pari a mq 25.291 e dunque 6,32 moggia”; il canone era stato concordato in misura pari “al prezzo di un quintale di nocciole per ogni moggio”. Instò, quindi, nelle conclusioni, per la condanna della predetta al pagamento della somma di Euro 8.962,84.

Con sentenza del 26 novembre 2014 l’adita Sezione Specializzata Agraria – ritenuta l’ammissibilità dell’intervento volontario di F. e Ca.Cl. e di C.C., in quanto “associati alla rispettiva madre e nonna nella conduzione del fondo”, quali componenti di una impresa familiare – accolse “la domanda subordinata come precisata dalla ricorrente all’udienza del 12/11/2014” e condannò P.F. al pagamento della somma di Euro 1.551, oltre interessi dalla domanda. Rigettò invece la domanda riconvenzionale, ma compensò per intero le spese.

2. Pronunciando sui contrapposti gravami, la Corte d’appello di Napoli, Sezione Specializzata Agraria, in accoglimento di quello principale proposto dalla società, ed in conseguente riforma della sentenza impugnata, ha condannato P.F. al pagamento, in favore della controparte, della somma di Euro 11.805,76, oltre interessi al tasso di legge dalla scadenza di ciascun rateo annuo fino al saldo; ha respinto invece l’appello incidentale; ha condannato gli appellanti incidentali, “con vincolo di solidarietà esterna e per quote uguali nei rapporti interni tra loro”, al pagamento delle spese del doppio grado di giudizio, separatamente liquidandole per il primo e per il secondo grado e direttamente attribuendole “agli Avv.ti Sabrina Castaldo e Giuseppe Gallo, per quote uguali tra loro”.

3. Avverso tale decisione P.F., F. e Ca.Cl. e C.C. propongono ricorso per cassazione, articolando cinque motivi, cui resiste la Società Immobiliare Agro Forestale M. dei fratelli Ca., L. e G., depositando controricorso.

La trattazione è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c..

Non sono state depositate conclusioni dal Pubblico Ministero.

Entrambe le parti hanno depositato memorie.

Diritto

CONSIDERATO IN DIRITTO

1. Sono infondate le preliminari eccezioni di improcedibilità del ricorso poichè, in tesi, tardivamente depositato e mancante dell’asseverazione della conformità all’originale telematico della relata di notifica effettuata a mezzo posta elettronica certificata.

Il ricorso risulta, infatti, depositato in cancelleria nel pieno rispetto del termine, fissato dall’art. 369 c.p.c., di venti giorni dalla sua notifica all’intimata.

L’asseverazione di conformità della copia cartacea della relata di notifica, del messaggio p.e.c. e delle relative ricevuta di accettazione e avvenuta consegna risulta, inoltre, validamente confezionata e prodotta in atti, nella piena osservanza degli adempimenti per tale ipotesi ritenuti necessari da Cass. Sez. U. 24/09/2018, n. 22438.

2. Con il primo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, nullità della sentenza per violazione degli artt. 83 e 75 c.p.c., in relazione alla ritenuta (in sentenza) validità della procura conferita dalla società ricorrente ai propri difensori, in entrambi i gradi di giudizio.

Censurano l’affermazione, al riguardo contenuta in sentenza, secondo cui “benchè in calce ai mandati professionali – a margine degli atti introduttivi di entrambe le fasi del giudizio – sottoscritti dal legale rappresentante Ma.Ca., risulti un timbro recante la dicitura “Immobiliare Agro-Forestale M. S.r.l.”” (la corretta denominazione della società essendo, invece, “Società Immobiliare Agro Forestale M. dei fratelli Ca., L. e G.”), “l’irrilevanza dell’erroneità di tale ultima denominazione consegue alla precisa indicazione anche nei mandati del numero di partita IVA (OMISSIS) – coincidente con quello specificato nell’intestazione dei ricorsi in primo grado ed in appello”.

Sostengono di contro che, trattandosi di due soggetti diversi (una s.r.l. la prima, una società semplice la seconda), ricorreva un difetto di jus postulandi.

Rilevano inoltre che, nel mandato, manca l’indicazione del legale rappresentante.

Soggiungono che nessun valore poteva essere attribuito alla dichiarazione resa in udienza dai procuratori di controparte circa l’esatta denominazione della società, provenendo essa da soggetti privi di potere rappresentativo, poichè agenti in forza di procura loro rilasciata dalla S.r.l. e non dalla società semplice.

Contestano l’intrinseca validità dell’argomento speso in sentenza, dal momento che – affermano – il numero di partita Iva, in primo grado, non è affatto riportato nel corpo della procura a margine del ricorso e considerato che “l’identità della partita Iva non può sopperire alla totale differenza di denominazione e forma sociale”.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “violazione del precetto di corrispondenza tra chiesto e pronunciato ex art. 112 c.p.c.” per avere la Corte d’appello quantificato la somma dovuta in misura (Euro 11.805,76) superiore a quella (Euro 8.982,84) indicata dalla controparte nelle conclusioni dell’atto di appello, in considerazione della minor quota da essa posseduta rispetto all’intero (825/1000).

4. Con il terzo motivo i ricorrenti deducono, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5, che la sentenza – si trascrive testualmente dall’intestazione del motivo – “è illegittima… perchè valuta erroneamente dei fatti di causa, risultanti dagli atti processuali, in particolare dalle ricevute di pagamento dei canoni agrari corrisposti… al Sig. Me.Ra.”.

Lamentano vizio di ultrapetizione per essere la Corte di merito andata “oltre le eccezioni” opposte dalla stessa parte appellante circa il valore probatorio attribuibile alle ricevute di pagamento prodotte (“mentre l’appellante riconosce che le ricevute versate in primo grado, dalla parte resistente, dimostrano un pagamento delle annate agrarie dal 2000 al 2006, dell’importo di Euro 470,00 cadauna oltre gli accessori, in favore di Me.Ra., la Corte Di Appello Di Napoli nega che quei pagamenti vengano eseguiti in favore di Me.Ra.”).

Rilevano, inoltre, che le predette quietanze dimostrano come l’ammontare del fitto fosse fissato, con il precedente proprietario, in Euro 470 per anno e che, pertanto, la Corte d’appello avrebbe al più dovuto confermare la sentenza di primo grado nella parte in cui condannava P.F. a pagare la somma di Euro 1.551,00, in favore della Società Immobiliare Agro Forestale M., in ragione della quota acquistata di 825/1000, accogliendo la domanda subordinata della ricorrente società.

Sostengono che vi è prova in atti dell’esistenza dell’unico rapporto con il Me. e, conseguentemente, del fatto che essi ignorassero il trasferimento del fondo avvenuto, a dire di controparte, nel 2001, come può desumersi dal fatto che essi continuarono a pagare il canone al primo, nella misura predetta, fino al 2006.

Deducono che, non essendo stata data, di tale trasferimento, pubblicità nei registri immobiliari, la società non ha titolo ad ottenere il pagamento del fitto, neppure nella quota stabilita nella sentenza di primo grado.

5. Con il quarto motivo i ricorrenti denunciano, con riferimento all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione dell’art. 345 c.p.c. in relazione al rigetto del gravame incidentale con cui essi avevano impugnato il rigetto della domanda di accertamento della nullità del contratto d’acquisto della quota di terreno da parte della società.

Premesso che tale gravame è stato respinto sul rilievo che l’appello difettava “di qualsivoglia critica al ragionamento posto dal primo Giudice, a fondamento della sua decisione”, essendosi gli appellanti limitati a “riproporre la tesi sostenuta in primo grado, genericamente contestando la sentenza ed argomentando le medesime ragioni addotte in prime cure”, lamentano che così decidendo la Corte d’appello ha prescisso dalla indicata norma processuale. Ciò sul non esplicito ma sufficientemente chiaro assunto secondo cui, posto che l’art. 345 c.p.c. vieta di proporre in appello nuove domande e nuove eccezioni in senso stretto, se ne dovrebbe a contrario desumere la legittimità dell’operato di essi odierni ricorrenti che, con appello incidentale, avevano riproposto “la domanda riconvenzionale, tale e quale, così come presentata in primo grado”.

L’illustrazione del motivo prosegue, poi, con la riproposizione degli argomenti posti a sostegno della dedotta nullità del contratto di acquisto di controparte.

6. Con il quinto motivo i ricorrenti deducono, infine, – si trascrive testualmente – “vizio di illegittimità, art. 360 c.p.c., nn. 4 e 5, perchè (la sentenza impugnata, n.d.r.) omette di valutare un fatto emergente dagli atti di causa che si risolve in nullità della sentenza”.

La doglianza è riferita alla statuizione sulle spese.

Si lamenta, con essa, che le spettanze professionali vengono attribuite per quote uguali ad entrambi i procuratori costituiti e per il doppio grado di giudizio, mentre per il primo grado risultava costituita solo l’Avv. Sabrina Castaldo.

Si rileva, inoltre, con riferimento a quanto già dedotto con il primo motivo, che, agendo i predetti difensori in difetto di ius postulandi, non poteva essere liquidato in loro favore alcun compenso professionale.

7. Il primo motivo è inammissibile.

7.1. Lo è anzitutto là dove richiama presunte lacune della procura (ossia la mancata indicazione del legale rappresentante e, in quella conferita per il primo grado, del numero di partita Iva), per palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti richiamati (ossia le procure conferite per il primo e per il secondo grado del giudizio di merito), come noto imposto, a pena di inammissibilità, dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

I ricorrenti omettono, invero, di trascrivere il contenuto delle procure, mancando altresì di localizzare tali atti come prodotti nel fascicolo processuale ed anche – secondo alternativa consentita da Cass. Sez. U n. 22726 del 2011, al solo fine di esentare dalla produzione ai sensi dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 – di segnalare di volersi avvalere della loro presenza nel fascicolo d’ufficio della Corte di appello.

E’ invece, come noto, necessario che si provveda, oltre che alla specifica indicazione del contenuto dell’atto o documento richiamato, anche alla sua precisa individuazione con riferimento alla sequenza dello svolgimento del processo inerente alla documentazione, come pervenuta alla Corte di Cassazione, al fine di renderne possibile l’esame (v. Cass. 16/03/2012, n. 4220), con precisazione (anche) dell’esatta collocazione nel fascicolo d’ufficio o in quello di parte, rispettivamente acquisito o prodotto in sede di giudizio di legittimità (v. Cass. 09/04/2013, n. 8569; 06/11/2012, n. 19157; 16/03/2012, n. 4220; 23/03/2010, n. 6937; ma v. già, con riferimento al regime processuale anteriore al D.Lgs. n. 40 del 2006, Cass. 25/05/2007, n. 12239), la mancanza anche di una sola i tali indicazioni rendendo il ricorso inammissibile (cfr. Cass, sez. un. 27/12/2019, n. 34469, Cass. Sez. U 19/04/2016, n. 7701, in motivazione).

E ciò anche ove i motivi prospettino, come nella specie, vizi di natura processuale, essendo stato più volte al riguardo chiarito da questa Corte, anche a Sezioni Unite, che se è vero che, ove sia dedotto un error in procedendo, il giudice di legittimità è investito del potere di esaminare direttamente gli atti ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, resta pur sempre fermo che a tale esame può procedersi in quanto la censura sia stata proposta dal ricorrente in conformità alle regole fissate al riguardo dal codice di rito (ed oggi quindi, in particolare, in conformità alle prescrizioni dettate dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6 e art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4) (cfr. Cass. Sez. U. 22/05/2012, n. 8077; Cass. 13/06/2014, n. 13546).

Nè tali lacune possono essere colmate – come i ricorrenti intendono nella specie fare, peraltro solo parzialmente – con il deposito di successiva memoria.

Come costantemente affermato da questa Corte, infatti, l’eventuale vizio del ricorso per cassazione non può essere sanato da integrazioni, aggiunte o chiarimenti contenuti nella memoria di cui all’art. 380-bis c.p.c., comma 2, la cui funzione – al pari della memoria prevista dall’art. 378 c.p.c. e di quella di cui all’art. 380-bis.1 c.p.c., sussistendo identità di ratio – è di illustrare e chiarire le ragioni giustificatrici dei motivi debitamente enunciati nel ricorso e non già di integrarli (v. Cass. n. 30760 del 28/11/2018 che ha dichiarato inammissibile il gravame ai sensi dell’art. 366 c.p.c. poichè il ricorrente, che aveva impugnato la sentenza di appello per omessa pronuncia sulla domanda di corresponsione degli interessi, solo con la memoria integrativa aveva precisato in quale atto e fase del giudizio di secondo grado aveva proposto tale domanda; nello stesso senso v. già Cass. n. 17603 del 23/08/2011).

7.2. La censura è inammissibile anche riguardata nel suo intrinseco contenuto censorio, in quanto palesemente generico e meramente oppositivo.

L’affermazione secondo la quale la sola erronea indicazione della denominazione della società (ancorchè si tratti di errore che coinvolge e riguarda essenzialmente il tipo societario) determini incertezza sul soggetto rappresentato, non rimediata dalla indicazione del numero di partita Iva, si risolve a ben vedere nella mera oppositiva negazione -priva però di conferenti e specifici argomenti a sostegno – della tesi contraria sostenuta in sentenza, secondo cui invece quell’errore, in presenza di quell’univoco riferimento, non comporta alcuna incertezza in ordine al soggetto conferente.

La censura muove evidentemente da una impostazione formalistica, secondo cui l’errore o la lacunosa indicazione del soggetto conferente la procura è di per sè sempre e comunque motivo di nullità della stessa indipendentemente dalla verifica delle sue conseguenze concrete, ovvero della possibilità o meno, dal contesto dell’atto, di individuare con certezza l’identità del soggetto rappresentato e, ove trattasi di soggetto collettivo, di accertare che la procura è stata rilasciata da colui che riveste la qualità di legale rappresentante della società.

Una tale impostazione non trova, però, riscontro nel dettato normativo e nella interpretazione giurisprudenziale, la quale è informata al diverso principio secondo il quale “la procura alla lite costituisce parte integrante dell’atto in calce od a margine del quale e stata apposta, con la conseguenza che le inesatte indicazioni in essa contenute, con riguardo alla parte che l’ha rilasciata e sottoscritta, non producono alcun effetto invalidante, ove risultino ascrivibili, in base al complessivo esame dell’atto, a mero errore materiale” (così Cass. n. 4136 del 28/09/1977; n. 4439 del 24/11/1976; cfr. anche Cass. n. 11144 del 16/07/2003, secondo cui può essere considerato errore materiale nella redazione di un atto processuale di parte (non diversamente che in riferimento ad un provvedimento del giudice) quello che, dovuto ad una mera svista, sia chiaramente rilevabile dal testo stesso dell’atto, senza la necessità di ulteriori indagini di fatto).

A tale principio si è evidentemente e correttamente conformata la Corte di merito, la cui valutazione – circa l’idoneità comunque del contenuto dell’atto, in particolare attraverso l’indicazione del numero di partita Iva, a consentire la precisa e univoca individuazione del soggetto conferente, come corrispondente a quello per conto del quale è proposta la domanda o il gravame – non viene, come detto, specificamente censurata, non essendo spiegato il motivo per cui quelle indicazioni in realtà non possono valere a dirimere il dubbio prospettato, tanto più che non viene nemmeno dedotta l’effettiva esistenza – agevolmente verificabile compulsando il Registro delle Imprese – di una società denominata “Immobiliare Agro-Forestale M. S.r.l.” rispetto alla quale tale dubbio abbia effettivamente ragione di porsi.

8. Il secondo e il terzo motivo, congiuntamente esaminabili, sono inammissibili incorrendo anche per essi, i ricorrenti, nella palese inosservanza dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati, imposto, come già s’è ricordato, dall’art. 366 c.p.c., n. 6.

8.1. Quanto al secondo motivo omettono, infatti, di trascrivere (o, quanto meno, di adeguatamente sintetizzare) il contenuto delle conclusioni dell’atto di appello dal quale dovrebbe evincersi il limite della pretesa devoluta in appello e, comunque, di localizzare l’atto nei termini prescritti dalla sopra citata giurisprudenza: onere funzionale al rapido e agevole svolgimento del sindacato richiesto a questa Corte.

8.2. Analogamente il terzo motivo postula l’esame di atti e documenti (segnatamente, dell’atto di appello quanto al contenuto delle eccezioni svolte da controparte in ordine al valore probatorio da assegnare alle prodotte quietanze di pagamento e, poi, di queste ultime, oltre che del contratto di acquisto fatto valere dalla società) dei quali viene omessa, in violazione della medesima norma processuale, qualsiasi indicazione contenutistica (che non sia il mero risultato della lettura che di essi propongono i ricorrenti) e, soprattutto, qualsiasi indicazione circa la relativa collocazione nel fascicolo processuale.

8.2.1. Appare peraltro evidente che la censura si risolve, nel suo complesso, nella sollecitazione di una nuova valutazione del materiale istruttorio, certamente inammissibile in questa sede, non essendo in particolare configurabile in quanto dedotto un vizio di ultrapetizione, atteso che la Corte, nel valutare le richiamate quietanze, non ha comunque decampato dall’obiettivo perseguito dall’appellante, che mirava con quel motivo a contestare la decisione di primo grado nella parte in cui aveva attribuito a quelle quietanze effetto liberatorio.

Vale al riguardo rammentare che, secondo risalente e incontrastato insegnamento, il giudice d’appello non esorbita dai limiti dell’impugnazione se, fermi i fatti dedotti dalle parti nelle rispettive azioni ed eccezioni, adotti, a sostegno della decisione, argomenti anche diversi da quelli prospettati dalle parti stesse o ritenute dal giudice di primo grado, purchè non risulti alterata la sostanziale corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato (Cass. n. 276 del 05/02/1971; n. 2498 del 24/11/1970; n. 2545 del 11/07/1969).

Nella specie quel che, secondo la prospettazione dei ricorrenti, muterebbe rispetto a quanto dedotto in appello è solo l’interpretazione di un fatto (le quietanze di pagamento di Euro 470, che, secondo la tesi dei ricorrenti la società aveva nell’appello ritenuto idonee a dimostrare il pagamento in favore di R. Me., ma non con effetto liberatorio anche nei confronti di essa appellante, mentre la Corte d’appello ha ritenuto inidonee a dimostrare non solo tale effetto liberatorio nei confronti della società, ma anche che fossero dirette al Me.), ma non il fatto in sè (ossia il contenuto oggettivo di dette quietanze), sul punto non essendo specificato nulla. Nè, come detto, la Corte di merito eccede dall’obiettivo di critica, atteso che, al contrario, accoglie quel motivo, negando effetto liberatorio alle quietanze, sia pure sulla base di una argomentazione non del tutto coincidente (secondo la tesi censoria) con quella svolta in appello dalla controparte.

9. Il quarto motivo è inammissibile, per aspecificità.

I ricorrenti non colgono, evidentemente, la ratio decidendi sottesa al rigetto dell’appello incidentale da essi proposto, la quale consiste nel rilievo della genericità del motivo di impugnazione e, dunque, nella sua inidoneità a prospettare effettivi e specifici motivi di critica, con conseguente inosservanza del requisito dettato dall’art. 342 c.p.c..

In tale contesto del tutto eccentrico si appalesa, in ricorso, il riferimento alla regola processuale di cui all’art. 345 c.p.c., che vieta di proporre nuove domande ed eccezioni in appello. Da essa invero può certamente desumersi, a contrario, che è consentito in appello proporre le medesime domande ed eccezioni (in senso stretto) proposte in primo grado (ed anzi è necessario che l’appello si muova nell’alveo tracciato da quelle domande ed eccezioni), ma non anche che ciò possa farsi disinteressandosi totalmente delle ragioni svolte dal primo giudice a fondamento del rigetto di quelle domande ed eccezioni.

10. Il quinto motivo è parimenti inammissibile.

Anche in tal caso la censura risulta inosservante dell’onere, imposto dall’art. 366 c.p.c., n. 6, di specifica indicazione dell’atto richiamato (ovvero dell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dal quale dovrebbe risultare che la società era difesa da un solo procuratore).

L’ulteriore ragione di doglianza (difetto di jus postulandi) è da ritenersi correlata alla censura svolta con il primo motivo e ne segue, ovviamente, la sorte.

11. Il ricorso deve essere, in definitiva, dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna dei ricorrenti alla rifusione in solido, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo.

Trattandosi di controversia agraria, il processo è esente dal contributo unificato e non si applica pertanto il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater (v. ex aliis Cass. 31/03/2016, n. 6227; n. 537 del 15/01/2020).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti, alla rifusione in solido delle spese, in favore della controricorrente, liquidate in Euro 3.000 per compensi, oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15%, oltre Euro 200 per esborsi e accessori di legge.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

 

 

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