Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25870 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 15/09/2020, dep. 16/11/2020), n.25870

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SCARANO Luigi Alessandro – Presidente –

Dott. SCRIMA Antonietta – Consigliere –

Dott. IANNELLO Emilio – Consigliere –

Dott. D’ARRIGO Cosimo – rel. Consigliere –

Dott. CRICENTI Giuseppe – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 30573/2018 R.G. proposto da:

Comune di Firenzuola, in persona del Sindaco pro tempore,

rappresentato e difeso dall’Avv. Iacopo Sforzellini, PEC

iacopo.sforzellini-firenze.pecavvocati.it, con domicilio eletto in

Roma, Corso Vittorio Emanuele II, n. 18, presso lo studio dell’Avv.

Grez e associati;

– ricorrente –

contro

L.M., rappresentato e difeso dall’Avv. Guido

Tatangelo, PEC guido.tatangelo-firenze.pecavvocati.it, domiciliato,

ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 2, presso la cancelleria della

Corte di Cassazione;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 1669/2018 della Corte d’appello di Firenze

depositata il 11 luglio 2018;

Udita la relazione svolta in camera di consiglio dal Consigliere

Dott. Cosimo D’Arrigo.

 

Fatto

RITENUTO

L’ingegnere L.M. conveniva in giudizio innanzi al Tribunale di Firenze, sezione distaccata di Pontassieve, il Comune di Firenzuola, chiedendone la condanna al pagamento della complessiva somma di Euro 93.899,35 a titolo di compensi per talune prestazioni professionali rese in favore dell’Ente.

Il Comune si costituiva in giudizio, chiedendo il rigetto della domanda in quanto infondata.

Espletata una consulenza tecnica d’ufficio e conclusa l’istruttoria, il Tribunale condannava il Comune al pagamento della minor somma di Euro 18.832,69, compensando per metà le spese processuali.

Il Comune impugnava la decisione e la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza di primo grado, riduceva in parte la condanna al pagamento delle spese processuali, rigettando per il resto il gravame; condannava il Comune al pagamento dei quattro quinti delle spese del grado.

Avverso tale decisione il Comune di Firenzuola ha proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi. L.M. ha resistito con controricorso.

Il Comune di Firenzuola ha depositato memorie difensive.

Diritto

CONSIDERATO

1. In applicazione del principio processuale della “ragione più liquida” – desumibile dagli artt. 24 e 111 Cost. (Sez. U, Sentenza n. 9936 del 08/05/2014, Rv. 630490; Sez. U, Sentenza n. 26242 del 12/12/2014, Rv. 633504 – 01 e in motivazione pag. 36 ss.) – deve esaminarsi anzitutto il secondo motivo di ricorso, suscettibile di assicurare la definizione del giudizio.

Infatti, il predetto principio consente l’esame delle censure verificandone l’impatto operativo, piuttosto che la coerenza logico-sistematica, sostituendo il profilo dell’evidenza a quello dell’ordine delle questioni da trattare, di cui all’art. 276 c.p.c., in una prospettiva aderente alle esigenze costituzionalizzate di economia processuale e di celerità del giudizio, con la conseguenza che la causa può essere decisa sulla base della questione ritenuta di più agevole soluzione – anche se logicamente subordinata – senza che sia necessario esaminare previamente le altre (Sez. 6 – L, Sentenza n. 12002 del 28/05/2014, Rv. 631058).

2. Con il secondo motivo, difatti, il Comune di Firenzuola denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, artt. 191 e 194 (“Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”), nonchè dell’art. 2042 c.c..

Deduce, in particolare, che la progettazione dell’impianto di illuminazione della piscina comunale era stata commissionata al L. dall’Assessore ai lavori pubblici B.P., senza tuttavia che fosse stato assunto il relativo impegno contabile ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, comma 1. Di conseguenza, per effetto del successivo comma 4, il rapporto obbligatorio si era costituito direttamente fra il professionista e il menzionato Assessore che aveva consentito la fornitura.

Tale circostanza determina – secondo il Comune ricorrente – il venir meno del requisito della sussidiarietà che costituisce presupposto per l’esperimento dell’azione di ingiustificato arricchimento (art. 2042 c.c.).

3. Il motivo è fondato.

La Corte d’appello di Firenze ha fatto applicazione del principio affermato dalle Sezioni Unite, secondo cui il riconoscimento dell’utilità da parte dell’arricchito non costituisce requisito dell’azione di indebito arricchimento, sicchè il depauperato che agisce ex art. 2041 c.c. nei confronti della P.A. ha solo l’onere di provare il fatto oggettivo dell’arricchimento, senza che l’ente pubblico possa opporre il mancato riconoscimento dello stesso, esso potendo, invece, eccepire e provare soltanto che l’arricchimento non fu voluto o non fu consapevole, e che si trattò, quindi, di “arricchimento imposto” (Sez. U, Sentenza n. 10798 del 26/05/2015, Rv. 635369 01). In particolare, il c.d. “arricchimento imposto” – che assicura adeguata tutela delle finanze pubbliche, anche in considerazione delle dimensioni e della complessità dell’articolazione interna della P.A. – consente all’Amministrazione di difendersi eccependo e provando che la stessa aveva rifiutato l’arricchimento ovvero non aveva potuto rifiutarlo perchè inconsapevole dell’eventum utilitatis (Sez. 3, Ordinanza n. 11209 del 24/04/2019, Rv. 653710 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 15937 del 27/06/2017, Rv. 644667 – 02).

Sulla base di tali premesse ha ritenuto sussistenti, in diritto, i presupposti per l’esperimento dell’azione di ingiustificato arricchimento.

Sennonchè, la medesima sentenza delle Sezioni Unite n. 10798/2015 affronta incidentalmente il tema prospettato dal Comune di Firenzuola e sul punto osserva: “Non è, invece, in discussione la sussistenza del requisito della sussidiarietà dell’azione imposto dall’art. 2042 c.c., non essendo qui applicabile ratione temporis la normativa di cui D.L. n. 66 del 1989, art. 23 (conv. in L. 24 aprile 1989, n. 144, abrogato dal D.Lgs. 25 febbraio 1995, n. 77, art. 123, comma 1, lett. n, ma riprodotto senza sostanziali modifiche dall’art. 35 medesimo decreto e infine rifluito nel D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191) che, per i casi di richiesta di prestazioni o servizi, non rientranti nello schema procedimentale di spesa tipizzato dalla stessa normativa, ha previsto la costituzione di un rapporto obbligatorio diretto con l’amministratore o funzionario responsabile, correlativamente rimettendo all’ente pubblico la valutazione esclusiva circa l’opportunità o meno di attivare il procedimento del riconoscimento del debito fuori bilancio nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente stesso (cfr. D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, lett. e). Invero, non potendosi, in difetto di espressa previsione normativa, affermare la retroattività del cit. D.L. n. 66 del 1989 art. 23, deve ritenersi l’esperibilità dell’azione di indebito arricchimento nei confronti della P.A. per tutte le prestazioni e i servizi resi alla stessa anteriormente all’entrata in vigore di tale normativa (ex plurimis, tra le più recenti: Cass. 26 giugno 2012, n. 10636; Cass. 11 maggio 2007, n. 19572). E poichè i lavori in contestazione vennero eseguiti nell’anno 1986, è indubbio che il depauperato non aveva la possibilità di farsi indennizzare del pregiudizio subito agendo, ai sensi della normativa cit. direttamente nei confronti dell’amministratore o del funzionario che aveva consentito l’acquisizione”.

4. Orbene, la notula relativa ai compensi richiesti dal L. per le prestazioni professionali in questione è stata emessa nel 2008. La vicenda in esame, quindi, ricade ratione temporis sotto il regime del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 191 e 194.

Pertanto, i giudici di merito, anzichè condannare senz’altro il Comune ex art. 2041 c.c., avrebbero dovuto dapprima verificare se effettivamente l’incarico al L. fosse stato conferito in difetto dell’impegno contabile registrato. In caso affermativo, avrebbero potuto riferire la relativa obbligazione al Comune solo nella misura in cui lo stesso – ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e, – avesse riconosciuto il debito fuori bilancio “nei limiti degli accertati e dimostrati utilità ed arricchimento per l’ente”.

In sostanza, per il combinato disposto del D.Lgs. n. 267 del 2000, artt. 191 e 194 non vi è spazio per l’azione di ingiustificato arricchimento nei confronti degli enti locali. Se l’acquisizione di beni o servizi è avvenuta senza la regolare assunzione dell’impegno di spesa, delle due l’una: o l’ente riconosce il debito fuori bilancio – nei limiti consentiti dal del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 194, comma 1, lett. e, – e, in tal caso, il rapporto contrattuale si instaura direttamente fra il fornitore e l’ente medesimo per effetto della procedura di acquisizione, anche se “sanata” ex post; oppure rimangono personalmente obbligati – ai sensi del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, comma 4, – l’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura, il che esclude in radice il presupposto della sussidiarietà, in carenza del quale non è possibile esperire l’azione di ingiustificato arricchimento, stante lo sbarramento posto dall’art. 2042 c.c.

5. Va quindi affermato il seguente principio di diritto:

“Nel caso di acquisizione, da parte di un ente locale, di beni o servizi senza la contemporanea assunzione dell’impegno di spesa previsto del D.Lgs. n. 267 del 2000, art. 191, comma 1 (“Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali”), l’obbligo di corrispondere la controprestazione sorge nei confronti dell’ente solo nella misura in cui il debito sia stato riconosciuto fuori bilancio ai sensi dell’art. 194, comma 1, lett. e), mentre per la restante parte grava sull’amministratore, funzionario o dipendente che hanno consentito la fornitura. Ciò determina, in entrambi i casi, l’improponibilità dell’azione di ingiustificato arricchimento da parte del fornitore nei confronti dell’ente: nel primo, perchè il riconoscimento del debito fuori bilancio instaura un rapporto che trova la propria fonte nella procedura di acquisizione dei beni o servizi; nel secondo caso perchè, essendo il fornitore munito di azione nei confronti degli obbligati ex lege, difetta il carattere della sussidiarietà richiesto dall’art. 2042 c.c.”.

6. La sentenza deve essere, dunque, cassata affinchè il giudice del rinvio si attenga, nel decidere la causa nel merito, al principio sopra formulato.

7. Lo scrutinio favorevole del secondo motivo di ricorso determina l’assorbimento del primo, del terzo e del quarto motivo, tutti rivolti verso il medesimo capo della sentenza cassato.

8. Con il quinto motivo il Comune censura la sentenza d’appello nella parte in cui ha ritenuto che fossero inammissibili i motivi di gravame relativi al capo della decisione di primo grado con cui era stata riconosciuta al L. la spettanza della maggiorazione prevista dal tariffario professionale per il caso di incarico parziale.

La Corte territoriale ha ritenuto, in particolare, che tale motivo di impugnazione (il secondo motivo di appello) fosse inammissibile in quanto il Comune non si sarebbe confrontato con le ragioni esposte nella sentenza appellata, contrapponendo al costrutto del Tribunale “nulla di nuovo rispetto alle difese già formulate in primo grado, ma solo una personale interpretazione dei fatti di causa avulsa da quanto ritenuto in sentenza” (pag. 13).

Tale decisione è censurata, anzitutto, per violazione dell’art. 342 c.p.c..

Il motivo è fondato.

Anzitutto va chiarito che l’art. 342 c.p.c., nella parte in cui richiede che l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice (Sez. U, Sentenza n. 27199 del 16/11/2017, Rv. 645991 – 01), non è affatto preclusivo della possibilità di riproporre le stesse argomentazioni difensive disattese dalla sentenza appellata, purchè le stesse tengano conto dei motivi per i quali il primo giudice le ha ritenute infondate. Il giudizio di appello, infatti, non ha perso – neppure a seguito alla riformulazione degli artt. 342 e 434 c.p.c. ad opera del D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012 la natura di revisio prioris instantiae.

Pertanto, la sentenza impugnata è certamente errata nella parte in cui indica, quale parametro per dichiarare l’inammissibilità dell’appello, la circostanza che l’impugnazione non proponeva argomenti nuovi rispetto a quelli già svolti in primo grado.

Quanto alla mancata contrapposizione dialettica fra le ragioni della decisione del Tribunale e i motivi di appello, si deve rilevare che il Comune – ritualmente ottemperando all’onere di specificità di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, – ha riportato a pag. 27 del ricorso uno stralcio dell’atto d’appello da cui si evince chiaramente che le censure ivi articolate sono direttamente volte a contrastare le conclusioni cui era approdata la sentenza di primo grado.

Anche sotto questo punto di vista, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del mezzo di gravame per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 342 c.p.c., deve essere cassata.

9. Le ulteriori considerazioni svolte dalla Corte d’appello non costituiscono una vera e propria ratio decidendi e, quindi, le relative censure non meritano di essere esaminate.

Infatti, qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità, con la quale si è spogliato della potestas iudicandi in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere nè l’interesse ad impugnarle; conseguentemente è inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta ad abundantiam nella sentenza gravata (Sez. U, Sentenza n. 3840 del 20/02/2007, Rv. 595555 – 01).

10. Il sesto motivo concerne il capo relativo alla compensazione parziale delle spese processuali del grado d’appello.

Si tratta di un capo dipendente che, ai sensi dell’art. 335 c.p.c., è travolto dalla cassazione delle parti principali della sentenza impugnata. Pertanto, il motivo è assorbito.

11. In conclusione, il secondo ed il quinto motivo sono fondati e vanno accolti, mentre gli altri restano assorbiti, e la sentenza va cassata con rinvio.

P.Q.M.

accoglie, nei termini di cui in motivazione, il secondo e il quinto motivo di ricorso, assorbiti gli altri; cassa la sentenza in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, il 15 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

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