Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25862 del 31/10/2017


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Cassazione civile, sez. III, 31/10/2017, (ud. 27/09/2017, dep.31/10/2017),  n. 25862

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –

Dott. CIRILLO Francesco Maria – Consigliere –

Dott. MOSCARINI Anna – Consigliere –

Dott. GUIZZI Stefano Giaime – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 9455-2014 proposto da:

S.T.A., elettivamente domiciliata in ROMA, VIA

TACITO 50, presso lo studio dell’avvocato EMANUELA MAZZOLA, che la

rappresenta e difende unitamente all’avvocato GIORGIO CASTELLANO

giusta procura speciale in calce al ricorso;

– ricorrente –

contro

B.L., BU.ST. quali eredi di BU.AL.,

elettivamente domiciliati in ROMA, VIA VALLISNERI 11, presso lo

studio dell’avvocato PAOLO PACIFICI, rappresentati e difesi

dall’avvocato SAVINO PENE’ giusta procura speciale in calce al

controricorso;

– controricorrente –

e contro

BU.ST.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 1196/2013 della CORTE D’APPELLO di TORINO,

depositata il 01/06/2013;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

27/09/2017 dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;

Fatto

RILEVATO

che:

1. Con atto di citazione del 18 maggio 2004 S.T.A. si opponeva a decreto ingiuntivo esecutivo emesso dal Tribunale di Torino perchè pagasse la somma di Euro 3264,88 all’avvocato B.A. quale corrispettivo di assistenza legale, proponendo altresì domanda riconvenzionale di condanna dell’opposto al risarcimento dei danni – da liquidare in separato giudizio – che ella avrebbe patito per l’iscrizione di ipoteca giudiziale e per il pignoramento immobiliare effettuati dal B. in forza del decreto ingiuntivo esecutivo, nonchè la condanna dello stesso a cancellare la suddetta ipoteca giudiziale, al risarcimento del danno “anche i sensi dell’art. 96 c.p.c., commi 1 e 2” e al risarcimento dei danni nella misura di Euro 9333 o di diversa somma per non corretta esecuzione del mandato professionale; domandava altresì che fossero determinate le somme realmente spettanti a controparte per la sua attività professionale e che si operasse compensazione.

Si costituiva l’opposto, resistendo e avanzando domanda di condanna di controparte a pagargli il corrispettivo di ulteriori prestazioni professionali; essendo poi deceduto nelle more del giudizio, gli subentravano gli eredi, B.L. e Bu.St..

Il Tribunale, con sentenza n. 3558/2009, revocava il decreto ingiuntivo, condannava gli opposti a risarcire a controparte i danni derivati dalla iscrizione dell’ipoteca giudiziale e dal pignoramento immobiliare, da liquidarsi in separata sede, a cancellare l’ipoteca giudiziale, a rimborsare a controparte le spese di conversione del pignoramento immobiliare e di cancellazione della trascrizione di quest’ultimo; rigettava poi ogni altra domanda di risarcimento di danni per non corretta esecuzione del mandato professionale e condannava gli opposti al rifondere le spese di lite a controparte.

Avendo B.L. e Bu.St. proposto appello principale e controparte appello incidentale, con sentenza del 8 maggio-1 giugno 2013 la Corte d’appello di Torino, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiarava inammissibile la domanda risarcitoria della S. per i danni derivati da iscrizione di ipoteca giudiziale e pignoramento immobiliare nonchè per le spese di conversione del pignoramento immobiliare e di cancellazione della sua trascrizione, rigettava le altre domande riconvenzionali della suddetta, compensava al 50% le spese di primo grado condannando la S. a rifondere l’altra metà a controparte e condannandola altresì a rifondere integralmente a controparte le spese del secondo grado.

2. La S. ha proposto ricorso, articolato in quattro motivi.

2.1 Il primo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, nonchè dell’art. 24 Cost.

Il giudice d’appello ha reputato che l’attuale ricorrente abbia proposto domanda risarcitoria per le conseguenze dell’esecutorietà del decreto ingiuntivo, domanda da qualificarsi in riferimento all’art. 96 c.p.c. – e non, come ritenuto invece dal Tribunale, in riferimento all’art. 2043 c.c. -, giungendo così a dichiarare inammissibile la domanda stessa, essendo stata chiesta la liquidazione dei danni in giudizio separato rispetto a quello da cui i danni sarebbero derivati. Osserva la ricorrente che sussiste orientamento giurisprudenziale consolidato, ma non completamente condivisibile, nel senso che solo il giudice del processo da cui deriva siffatto danno può procedere alla liquidazione. Viene richiamata giurisprudenza per cui la inammissibilità della domanda generica ex art. 96 c.p.c. non deriva solo dal poter detto giudice giudicare in modo migliore la tale domanda, ma anche dalla connessione tra la domanda principale e la domanda ex art. 96 c.p.c., che sarebbe così stretta da portare ad un contrasto pratico di giudicato (Cass. 12642/1992): obietta peraltro la ricorrente che non è “chiarito come e perchè si dovrebbe creare un contrasto di giudicati”. Infatti una domanda risarcitoria generica non comporta l’accertamento dell’esistenza del danno, onde il giudice cui è devoluta la liquidazione può anche negare l’an senza scalfire alcun giudicato. Altra giurisprudenza di legittimità (Cass. 1473/1988) ha peraltro affermato che è possibile derogare al principio della coincidenza del giudice di merito con il giudice della responsabilità processuale nel caso in cui il giudizio di merito sia mancato o comunque venuto meno, potendosi allora far valere in un giudizio separato la responsabilità processuale: pertanto sarebbe astrattamente possibile l’autonomia e la separazione dei relativi giudizi. Una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 96 c.p.c. dovrebbe, in ultima analisi, consentire al danneggiato la scelta se proporre o meno domanda generica, non potendosi interpretare la norma nel senso che, dove stabilisce che il giudice pronuncia la condanna del risarcimento del danno “che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”, inibisca la domanda generica. Nel caso di specie vi sarebbe stata, tra l’altro, domanda ex art. 96 c.p.c., comma 2, per cui avrebbe avuto rilievo anche la colpa lieve: fattispecie in cui sono limitati i rischi di accertamento negativo del danno in un separato giudizio.

2.2 Il secondo motivo denuncia, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione o falsa applicazione dell’art. 96 c.p.c.

Il giudice d’appello ha ritenuto che la ricorrente non avesse proposto in primo grado domanda risarcitoria ex art. 96 c.p.c. Il motivo indica gli atti dove sarebbe stata in effetti avanzata tale domanda (atto di citazione, memoria ex art. 183 c.p.c., foglio da far parte integrante del verbale dell’udienza di precisazione delle conclusioni).

Si osserva altresì che un passo delle difese dell’attuale ricorrente cui lo stesso giudice d’appello ha fatto riferimento riguarderebbe proprio l’azione di procedura esecutiva con iscrizione di ipoteca in forza del decreto ingiuntivo esecutivo, per cui la domanda ai sensi dell’art. 96 c.p.c. avrebbe dovuto essere accolta, con liquidazione d’ufficio del danno da iscrizione di ipoteca giudiziale e pignoramento immobiliare.

2.3 Il terzo motivo denuncia nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4 e alla interpretazione e applicazione dell’art. 111 Cost. e art. 118 disp. att. c.p.c.

Il giudice d’appello ha ritenuto insussistenti i danni lamentati dalla ricorrente per non corretta esecuzione da parte dell’avvocato Bu. del mandato professionale in due pratiche: una relativa ad una questione civile con l’impresa edile P., ed una relativa ad una questione penale per un procedimento in cui la ricorrente era indagata presso la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Saluzzo. Vengono contestate le ragioni adottate dal giudice d’appello (in particolare, per la pratica civile si argomenta nel senso che sarebbero stati provati i danni e il nesso eziologico con la condotta professionale dell’avvocato, e per la pratica penale si sostiene che erra il giudice d’appello nel non ritenere quello eseguito un sequestro a fini probatori) per concludere che la motivazione offerta dalla corte territoriale è inidonea, con conseguente violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4.

Il quarto motivo denuncia nullità della sentenza in relazione all’art. 132 c.p.c., n. 4 e alla interpretazione e applicazione dell’art. 111 Cost. e art. 118 disp. att. c.p.c., lamentando motivazione inidonea a giustificare la compensazione del 50% delle spese di primo grado.

Si sono difesi con controricorso i B.- Bu.. La ricorrente ha poi depositato memoria.

Diritto

CONSIDERATO

che:

3. Il primo e il secondo motivo attengono direttamente alla domanda risarcitoria ex art. 96 c.p.c. che l’attuale ricorrente, secondo il giudice d’appello, non avrebbe proposto per i danni derivanti dall’iscrizione dell’ipoteca giudiziale ed al pignoramento effettuato dall’avvocato Bu. in forza del decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo opposto poi dalla controparte.

3.1.1 Il primo motivo, in sostanza, adduce che, anche se fosse stata presentata come domanda generica, la domanda per il risarcimento di danni da lite temeraria sarebbe stata ammissibile/proponibile e quindi avrebbe dovuto essere decisa in merito nei limiti della sua conformazione.

La corte territoriale, invero, ha richiamato una lettura tradizionale (v., p.es., Cass. sez. 1, 9 aprile 1984 n. 2266 e Cass. sez. 3, 4 gennaio 1995 n. 97) che attribuisce, una competenza funzionale al giudice del processo nel cui ambito si è verificato l’abuso, nel senso che, se l’azione per il risarcimento dei danni che ne sono derivati viene esercitata in modo autonomo, in giudizio separato – anche parzialmente, ovvero nell’ipotesi in cui al giudice del processo ove si è verificato l’abuso si chiede solo la condanna generica -, tale competenza funzionale violata comporta l’inammissibilità della domanda (ex multis, da ultimo Cass. sez. 1, 25 gennaio 2016 n. 1266, proprio a proposito della domanda generica).

In realtà, non è propriamente ravvisabile una questione di competenza funzionale nell’art. 96, comma 1 e 2: in tal caso, infatti, la proposizione della domanda risarcitoria dinanzi a diverso giudice comporterebbe la rimessione della causa davanti al giudice competente, laddove la lettura tradizionale dell’art. 96 c.p.c. ritiene invece che la domanda non possa essere traslata bensì incorra nella inammissibilità. Non a caso, quindi, alcuni arresti che condividono questa impostazione hanno introdotto a suo sostegno anche il riferimento ad una “espressa previsione normativa” che sarebbe rappresentata dall’indicazione che il giudice “liquida, anche di ufficio, nella sentenza” il risarcimento dei danni, presente nell’art. 96, comma 1 e oggetto di rinvio del secondo comma (Cass. sez. 3, 23 aprile 1997 n. 35343, Cass. sez. 3, 24 maggio 2003 n. 8239; Cass. sez. 3, 6 maggio 2010 n. 10960): supporto che, peraltro, non è evidentemente risolutivo, per quanto sopra si è rilevato.

Parimenti non condivisibile è l’ulteriore riferimento, rinvenibile nella giurisprudenza invocata dalla corte territoriale – pur se non valorizzato in modo assoluto -, a un concetto di “qualità” della decisione (“La domanda di risarcimento del danno da responsabilità processuale… può essere proposta solo nello stesso giudizio dal cui esito si deduce l’insorgenza della detta responsabilità è del danno, non solo perchè nessun giudice può giudicare la temerarietà processuale meglio di quello stesso che decide sulla domanda che si assume, per l’appunto, temeraria ecc.”: così Cass. sez. 3, 26 novembre 1992 n. 12642; conformi Cass. sez. 3, 4 giugno 2007 n. 12952 e Cass. sez. 2, 23 dicembre 2010 n. 26004), per cui nessun giudice potrebbe giudicare la temerarietà processuale meglio del giudice del processo in cui si verifica l’abuso: la cognizione deve sempre fondarsi su un parametro di giuridico accertamento oggettivo, e non soggettivo, ovvero configurante una cognizione “migliore” e una cognizione “peggiore”. Quanto poi all’ulteriore argomento, aggiunto dalla suddetta giurisprudenza richiamata, dell’esistenza di un nesso con la decisione di merito tale da comportare la possibilità di un “contrasto pratico di giudicati” se la domanda di lite temeraria viene decisa da altro giudice, è fondata l’obiezione che solleva la ricorrente: in caso di condanna generica, il giudice del quantum non è vincolato da un giudicato riguardante pure l’esistenza del danno, ovvero sull’an, giacchè il giudicato frutto della condanna generica concerne soltanto una potenziale esistenza del danno, ma non ne accerta l’esistenza concreta (cfr. da ultimo,Cass. sez. 1, 11 ottobre 2016 n. 20444 e Cass. sez. 1^ 9 luglio 2014 n. 15595).

3.1.2 Sussiste peraltro un ulteriore orientamento che si può definire maggioritario, il quale raggiunge gli stessi esiti percorrendo una via parzialmente diversa. Questa giurisprudenza ha attribuito l’inammissibilità della proposizione di domanda generica, ovvero la necessità di decisione globale della domanda di lite temeraria nell’ambito del giudizio in cui si colloca l’abuso, proprio all’origine del danno: l’abuso si verifica nell’ambito del processo al cui giudice compete quindi il suo accertamento, perchè si tratta di illecito endoprocessuale.

Cass. sez. 3, 18 aprile 2007 n. 9297 ha infatti osservato che quella dei primi due commi dell’art. 96 c.p.c. “non è una regola sulla competenza, ma sulla proponibilità dell’istanza”, che deve essere proposta al giudice davanti al quale si è “agito o resistito” (comma 1) e a quello che ha compiuto l’accertamento della “inesistenza del diritto” (comma 2); dunque “la legge non sancisce una regola di competenza, cioè non si preoccupa di indicare avanti al quale giudice si può esercitare un’azione di cui l’istanza è espressione, ma disciplina un fenomeno che si colloca all’interno di un processo già pendente” la cui istanza dovrà essere decisa dallo stesso giudice, essendo “strettamente collegata e connessa all’agire ed all’resistere al giudizio”: pertanto il potere di proporre l’istanza, essendo potere endoprocessuale connesso all’azione o alla resistenza in giudizio, non può essere esercitabile al di fuori di quel processo, “salvo il caso eccezionale che il suo esercizio sia rimasto precluso in quel processo da ragioni attinenti alla stessa sua struttura e non dipendenti dalla inerzia della parte” – eccezione, questa, attinta da Cass. sez. 3, 18 febbraio 2000 n. 1861 -. Peraltro, questo arresto afferma espressamente che, se la domanda di risarcimento di danni di origine processuale viene proposta in un giudizio separato da quello dove si sono verificati, in tale caso sussisterebbe “l’esercizio di un’azione per un diritto non previsto dall’ordinamento”, il che sarebbe confermato proprio dalla giurisprudenza consolidata che ritiene inammissibile la domanda di condanna generica in questa fattispecie (su questa linea v. Cass. sez. 20 novembre 2009 n. 24538, Cass. sez. 3, 6 agosto 2010 n. 18344, e Cass. sez. 3, 20 ottobre 2014 n. 22226; e cfr. Cass. sez.6-3, ord. 16 maggio 2017 n. 12029).

Su quest’ultimo orientamento influisce un ulteriore profilo letterale dell’art. 96, primi due commi i quali prevedono appunto una “istanza”, e non una “domanda” (comma 1: “su istanza dell’altra parte”; comma 2: “su istanza della parte danneggiata”), facendone appunto sostegno della natura endoprocessuale attribuita all’istituto, e negando quindi che si tratti di una vera e propria azione, ovvero di un diritto processuale esercitabile al di fuori del giudizio in cui si è verificato l’abuso. In tal modo, peraltro, si crea una criticità rispetto all’indiscusso riconoscimento della natura risarcitoria dell’oggetto della “istanza” come species rispetto al genus dell’art. 2043 c.c., il quale è tutelabile con azione (v., ex plurimis, le già citate Cass. sez.6-3, ord. 16 maggio 2017 n. 12029 – per cui si è dinanzi ad un “peculiare fatto illecito dannoso” -, Cass. sez. 3, 25 gennaio 2016 n. 1266 – per cui la domanda di risarcimento per lite temeraria ha natura extracontrattuale” Cass. sez. 3, 6 agosto 2010 n. 18344 – per cui si tratta “di una tutela di tipo aquiliano, avente carattere di specialità rispetto a quella prevista in via generale dall’art. 2043 c.c.” – e Cass. sez. 3, 24 luglio 2007 n. 16308). Se si tratta, infatti, di una tutela di tipo aquiliano, ciò significa che vi è un fatto illecito che ha cagionato danni (su questo,contraddittoria è proprio Cass. sez. 1, 25 gennaio 2016 n. 1266, citata, che, pur riconoscendo la natura extracontrattuale della responsabilità per lite temeraria, distingue l’ipotesi di azione per risarcimento danni da trascrizione di domanda giudiziale non trascrivibile – che reputa qualificabile ex art. 2043 c.c.sussistendo in tal caso “un vero e proprio fatto illecito” – dall’ipotesi di trascrizione di domanda trascrivibile che in concreto non poteva essere trascritta non sussistendo il diritto con essa fatto valere, qualificabile ex art. 96 c.p.c., comma 2: come se in quest’ultimo caso non vi fosse fatto illecito) e che il danneggiato ha il diritto di agire per ottenere il risarcimento. Ritenere quindi che il diritto di azione sussista esclusivamente nell’ambito del processo in cui il danno si è verificato equivale a comprimere il diritto sostanziale diretto alla ricostruzione della integrità della sfera giuridica dopo l’illecito che l’ha lesa: soluzione non esente da criticità, che induce a rivisitare il concetto di accessorietà dell’azione per lite temeraria.

Tra l’altro, il fatto illecito in questione non è necessariamente endoprocessuale, ovvero una patologia insorta “all’interno” stricto sensu del processo: può essere invero integrato anche dalla stessa instaurazione del processo (azione temeraria ex art. 96, comma 1; avvio della esecuzione forzata, ex art. 96, comma 2). Rectius, quindi, il fatto illecito in questa species consiste comunque nell’abuso di diritti processuali; ed è ben comprensibile allora, per economia processuale, la previsione normativa nel senso che il risarcimento avvenga ordinariamente nello stesso giudizio cui attiene l’abuso e perciò se ne percepisce l’esistenza. Tuttavia – tanto più in un contesto in cui la sensibilità dell’ordinamento all’abuso del diritto si è altamente incrementata rispetto all’epoca in cui ebbero origine gli orientamenti sopra descritti – rimane problematico estrarre dall’art. 96 una estinzione del diritto risarcitorio perchè non è stato fatto valere nell’ambito del processo dove si è verificato il danno. Ne deriverebbe, tra l’altro, una sorta di “sanatoria” del fatto illecito prima che il relativo diritto sostanziale di riequilibrio giuridico si sia prescritto, e ciò esclusivamente per una collocazione processuale che potrebbe semmai essere corretta come un difetto di competenza (non a caso, come si è visto, percepito dagli interpreti, benchè non regolato dall’art. 96).

3.1.3 Una interpretazione corretta, nonchè conforme all’attuale evoluzione sistemica, non può, allora, non tenere in conto le concrete ragioni per cui chi agisce per il risarcimento di danni da abuso processuale sceglie di farlo al di fuori del giudizio in cui si sono verificati. E’ indiscutibile che ha valenza costituzionale l’economia processuale, manifestazione dell’obbligo delle parti di collaborare alla efficienza e quindi alla celerità della macchina giurisdizionale statale ai sensi dell’art. 2 Cost. e art. 111 cost., comma 2, come ormai da tempo insegna, a proposito dell’illegittimo frazionamento del processo, il giudice nomofilattico (S.U. 15 novembre 2007 n.23726; in generale, sulla tendenziale non frazionabilità in ipotesi di responsabilità civile cfr. Cass. sez. 3, 31 agosto 2011 n. 17879, Cass. sez. 3, 22 dicembre 2011 n. 28286, Cass. sez. 6-3, 21 ottobre 2015 n. 21318, Cass. sez. 6-3, ord. 4 novembre 2016 n. 22503 e Cass. sez. 3, 17 gennaio 2017 n. 929). E allora) che la domanda risarcitoria proposta in sede diversa dal processo in cui si è verificato il danno sia ammissibile o non lo sia in quanto a sua volta abusante, mediante tale translatio all’esterno, del diritto processuale all’azione) merita una verifica nel caso concreto, come in sostanza sono giunti a riconoscere alcuni arresti di questa Suprema Corte.

Allargando lo spazio – concesso quale eccezione – per cui non si può far gravare su chi è danneggiato da abuso processuale l’impossibilità di agire endoprocessualmente per l’evoluzione del processo ove l’abuso si è verificato, qualora tale evoluzione non sia imputabile alla inerzia del danneggiato (Cass. sez. 3, 18 febbraio 2000 n. 1861, Cass. sez. 3, 18 aprile 2007 n. 9297 e Cass. sez. 3, 6 agosto 2010 n. 18344, già citate), si è da ultimo riconosciuto che il danneggiato può effettuare scelte sull’esercizio o meno endoprocessuale dell’azione a seconda del suo concreto interesse. Così Cass. sez. 1, 20 maggio 2016 n. 10518 in motivazione dapprima conferma che, “se è vero che l’azione di risarcimento dei danni ex art. 96 c.p.c. non può, di regola, essere fatta valere in giudizio separato ed autonomo rispetto a quello dal quale la responsabilità aggravata ha origine, è anche vero che tale azione è ammessa quando la possibilità di proporla sia rimasta preclusa per l’evoluzione propria dello specifico processo dal quale la stessa responsabilità aggravata ha avuto origine, ovvero per ragioni non dipendenti dalla inerzia della parte”. In seguito, peraltro, rileva che, nel caso esaminato, chi aveva agito per lite temeraria l’aveva sì fatto nel giudizio di opposizione all’esecuzione, “ma vi aveva rinunciato solo per l’esigenza di non ostacolare la rapida definizione del giudizio”, in riferimento alla vendita imminente del bene pignorato: e quindi per questa ragione aveva “proposto la domanda risarcitoria nel presente giudizio, al fine di paralizzare, almeno in parte, la domanda contrattuale di pagamento” avanzata nei suoi confronti da controparte. Tale domanda è stata quindi ritenuta ammissibile, passando così, a ben guardare, dal concetto di inerzia come presupposto della proponibilità in altra sede di una domanda ontologicamente accessoria al concetto di scelta per propri interessi, che andranno pertanto valutati nel caso concreto per accertarne l’effettiva esistenza ed escludere che siano illegittimi/abusanti. Principio, questo, che ragionevolmente non può non essere esteso pure alla fattispecie di translatio minore, cioè relativa esclusivamente alla quantificazione dei danni, conseguente alla proposizione di domanda di condanna generica nel giudizio dove si è originato l’abuso. La tradizionale “accessorietà” (più propriamente, una connessione consequenziale) della domanda genera allora come effetto unicamente la necessità, per non incorrere in improponibilità, di allegare il concreto interesse e quindi dimostrarlo (secondo le regole geneali, anche presuntivamente), ponendosi così in coerente prossimità al governo del generale istituto del frazionamento.

Nel caso in esame, la ricorrente non ha peraltro neppure allegato un interesse specifico che giustifichi quella che definisce “scelta della propria azione” (ricorso, pagina 24), al contrario lasciando intendere che la scelta di proporre domanda di condanna soltanto generica dovrebbe essere concessa ad libitum. Adduce infatti il ricorso (pagina 23): “Nessuno meglio del danneggiato è in grado di valutare se scegliere la quantificazione nello stesso giudizio in quanto già specificata o non quantificabile neppure in seguito…oppure attendere un successivo giudizio avendo tutti gli elementi per il predetto più completo ristoro”. Se così fosse, in realtà, si sarebbe di fronte ad una valutazione, più che discrezionale, assolutamente soggettiva se non arbitraria, la quale, non potendo essere oggetto di alcun controllo (poichè, appunto, “nessuno meglio del danneggiato” comprenderebbe la situazione), verrebbe a giustificare anche frazionamenti in realtà ontologicamente abusivi. Il che conduce, in ultima analisi, a considerare infondato il motivo.

3.2.1 Il secondo motivo, in sintesi, sostiene che era stata in effetti proposta nel giudizio di primo grado la domanda ex art. 96 c.p.c., comma 2, nella versione “completa”, rimettendo all’equità del giudice la liquidazione dei danni.

Il giudice di primo grado, come si è visto, aveva revocato il decreto ingiuntivo e condannato gli eredi dell’avvocato Bu. – che l’aveva ottenuto immediatamente esecutivo – a risarcire alla opponente i danni subiti per effetto dell’iscrizione di ipoteca giudiziale e dell’esecuzione di pignoramento immobiliare, nonchè al rimborso delle spese sostenute ancora dalla opponente per la conversione del pignoramento immobiliare e per la cancellazione della trascrizione del pignoramento stesso, tutto ciò dovendo però liquidarsi in separato giudizio (oltre al ricorso, autosufficiente, v. pure la motivazione della sentenza impugnata, pagina 3).

La parte appellante ha quindi addotto che il Tribunale aveva erroneamente ritenuto ammissibile e fondata una domanda di condanna generica ex art. 96 c.p.c., che ammissibile invece non avrebbe potuto essere, vista la competenza funzionale del giudice adito. L’attuale ricorrente si è difesa con appello incidentale condizionato prospettando che comunque in primo grado era stata proposta anche domanda ex art. 96 c.p.c. integra e non generica, soccorrendo per la quantificazione del danno il potere equitativo del giudice. E a questo hanno controbattuto gli appellanti principali negando che una simile domanda fosse mai stata proposta in precedenza e qualificandola pertanto domanda nuova.

3.2.2 La corte territoriale ha sposato la posizione degli appellanti principali, assumendo che, premesso che i danni lamentati in primo grado dall’appellante incidentale derivavano “da condotte potenzialmente integranti la temerarietà della lite” e non costituivano dunque danni risarcibili ex art. 2043 c.c., la domanda generica ex art. 96 c.p.c., comma 2, è inammissibile, alla luce di giurisprudenza di questa Suprema Corte che ritiene il giudice dell’opposizione all’esecuzione funzionalmente competente sia nell’an che nel quantum di una domanda per lite temeraria, e per di più insegna che la decisione sulla responsabilità processuale è a tal punto collegata con quella di merito che, se ne fosse separata, potrebbe configurarsi un contrasto pratico di giudicati. Altresì, la corte territoriale esclude che l’appellante incidentale avesse proposto una integrale domanda ex art. 96 c.p.c., perchè da un passo dell’atto di citazione emergerebbe una domanda ex art. 96 c.p.c. con cui l’attrice si doleva “di una condotta diversa rispetto agli specifici profili di danno conseguente all’iscrizione di ipoteca giudiziale e dell’esecuzione (sic) del pignoramento immobiliare” (motivazione della sentenza impugnata, pagine 6-7).

Si sorregge appunto il giudice d’appello con un passo dell’atto di citazione, a pagina 11, di questo tenore: “Inoltre l’azione di procedere esecutivamente con l’iscrizione dell’ipoteca appare ai limiti dell’art. 96 c.p.c. se si considera come il ricorrente ben sapeva di aver precedentemente richiesto una somma inferiore e che la somma portata da tale nota spese è stata offerta dall’attuale patrono della opponente con lettera che si produce. L’offerta fu resa concreta dall’invio in fotocopia dell’assegno che, a mani dell’attuale difensore della S., veniva messo a disposizione. Ciò nonostante il ricorrente il giorno successivo alla ricezione della suddetta offerta procedeva con l’iscrizione dell’ipoteca giudiziale”.

3.2.3 Non si può allora non rilevare l’evidente fondatezza della doglianza della ricorrente: non è vero che il passo indicato dalla corte non attenga all’iscrizione dell’ipoteca giudiziale, e la sua complessiva argomentazione lascia ben intendere che l’espressione “ai limiti dell’art. 96 c.p.c.” significa in effetti che la condotta dell’avvocato Bu. viene prospettata come pienamente temeraria.

E vi è di più.

La ricorrente ha indicato gli atti processuali di primo grado in cui aveva chiesto la condanna risarcitoria ex art. 96 c.p.c.: l’atto di citazione (dove, a pagina 13, aveva chiesto la condanna di controparte “al risarcimento del danno anche ai sensi dell’art. 96, comma 1 e 2”), la memoria ex art. 183 c.p.c. (dove, a pagina 7, aveva chiesto la condanna di controparte “al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. in quella misura che il Tribunale Ill.mo riterrà giusta ed equa secondo il suo prudente apprezzamento”) e nella precisazione delle conclusioni (con espressione identica a quella della memoria ex art. 183 c.p.c.). Se è vero che nella precisazione delle conclusioni l’attuale ricorrente aveva proposto anche domanda di risarcimento “per effetto dell’iscrizione giudiziale e dell’esecuzione del pignoramento immobiliare, danni da liquidarsi in separato giudizio”, è parimenti vero che appare come una domanda, secondo la complessiva struttura delle precisate conclusioni, priva di riferimento all’art. 96 c.p.c., in quanto non lo menziona ed è la prima delle domande riconvenzionali, delle quali è l’ultima che viene riferita all’art. 96 c.p.c.

Invero, dopo avere presentato le proprie conclusioni “in via istruttoria”, e poi “nel merito”, la S. strutturava la serie di conclusioni “in via riconvenzionale” nel seguente modo: “dichiarare tenuta e condannare parte convenuta in opposizione al risarcimento di tutti i danni patiti dalla conchiudente per effetto dell’iscrizione dell’ipoteca giudiziale e dell’esecuzione del pignoramento immobiliare, danni da liquidarsi in separato giudizio;

dichiarare tenuta e, conseguentemente, ordinare a parte convenuta in opposizione di provvedere alla cancellazione a proprie esclusive cura e spese dell’ipoteca giudiziale iscritta in forza del decreto ingiuntivo per cui è opposizione;

dichiarare tenuta e condannare parte convenuta in opposizione al rimborso delle spese tutte sostenute dalla conchiudente, comprese quelle del legale e del Notaio incaricati, per la conversione del pignoramento immobiliare e per la cancellazione della trascrizione del pignoramento immobiliare e/o di ogni altra spesa dalla medesima sostenuta, da liquidarsi in separato giudizio;

dichiarare tenuta e condannare parte convenuta in opposizione per effetto della colpevole non corretta esecuzione del mandato conferitogli al risarcimento dei danni subiti dalla conchiudente, danni che si indicano nella somma di Euro 9.333,00 o in quell’altra veriore accertanda e/o determinando anche da liquidarsi secondo equità;

dichiarare tenuta e condannare parte convenuta in opposizione al risarcimento del danno ex art. 96 c.p.c. in quella misura che il Tribunale Ill.mo riterrà giusta ed equa secondo il suo prudente apprezzamento”.

E’ evidente che, quindi, all’attuale ricorrente può addebitarsi una doppia proposizione di pretesa risarcitoria, nel senso che dapprima questa viene proposta – erroneamente, quindi necessitando riqualificazione – al di fuori dell’art. 96 c.p.c. e implicitamente ex art. 2043 c.c., e poi, solo concludendo la serie di pretese riconvenzionali, anche ex art. 96 c.p.c. Tuttavia ciò non cancella la proposizione della domanda ex art. 96 c.p.c. che conclude la sequela e che, viste le doglianze poste a base delle precedenti domande, logicamente non avrebbe potuto essere interpretata da esse prescindendo, ovvero “svuotata” di ogni concreto riferimento a quella che è stata la vicenda processuale, essendo al contrario domanda intrinsecamente attinente alle varie forme in cui l’abuso del processo può concretizzarsi e alle conseguenze dannose derivate alla controparte dell’abusante.

Oramai ad abundantiam, poi, si ribadisce che la corte territoriale ha errato nella estrapolazione dalla complessiva configurazione delle difese e delle domande riconvenzionali di un unico breve passo dell’atto di citazione, soltanto su di esso fondando l’asserto che la domanda ex art. 96 c.p.c. “era stata proposta per diversi, ulteriori ed imprecisati danni”: il fatto stesso, d’altronde, che secondo l’interpretazione del giudice d’appello la domanda sarebbe stata attinente a “imprecisati danni” logicamente contraddiceva ictu oculi il risultato di tale interpretazione. L’ermeneutica degli atti processuali, invero, secondo le regole generali non può essere espletata sulla base di isolamenti artificiosi di segmenti di quel che è una struttura complessiva: interpretando quindi sistematicamente e secondo una elementare logica conservativa, la corte territoriale avrebbe dovuto intendere la domanda ex art. 96 c.p.c. non come domanda inutile, in quanto afferente a danni ignoti e imprecisati, bensì proprio come domanda afferente ai pregiudizi che l’attuale ricorrente aveva ampiamente lamentato come conseguenza della condotta tenuta dalla controparte una volta ottenuto il decreto ingiuntivo immediatamente esecutivo.

Il secondo motivo risulta quindi fondato, il che assorbe il terzo motivo – considerata la domanda di compensazione proposta nell’atto di citazione, che le parti non adducono sia stata abbandonata – e ovviamente pure il quarto, relativo alle spese come governate dal giudice d’appello.

In conclusione, il ricorso deve essere accolto nei limiti suddetti, con conseguente cassazione della sentenza impugnata e rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Torino.

PQM

Rigetta il primo motivo, accoglie il secondo, assorbiti gli altri, cassa la sentenza impugnata in relazione e rinvia alla Corte d’appello di Torino.

Così deciso in Roma, il 27 settembre 2017.

Depositato in Cancelleria il 31 ottobre 2017

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