Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25858 del 23/09/2021

Cassazione civile sez. II, 23/09/2021, (ud. 31/03/2021, dep. 23/09/2021), n.25858

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNA Felice – Presidente –

Dott. GORJAN Sergio – Consigliere –

Dott. BELLINI Ubaldo – rel. Consigliere –

Dott. CARRATO Aldo – Consigliere –

Dott. SCARPA Antonio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 21696/2016 proposto da:

D.M., rappresentato e difeso dagli Avvocati MARIO LUPI,

e DARIO LA TORRE, ed elettivamente domiciliato presso il loro

studio, in ROMA, VIA CAPODISTRIA 12;

– ricorrente –

contro

R.M., e R.G., in proprio e quali eredi di

B.N., rappresentati e difesi dall’Avvocato RIZIERO ANGELETTI,

ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in RIETI, VIA dei

GERANI 8;

– controricorrenti –

avverso la sentenza n. 977/2016 della CORTE d’APPELLO di ROMA,

pubblicata il 15/02/2016.

udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del

31/03/2021 dal Consigliere Dott. UBALDO BELLINI.

 

Fatto

FATTI DI CAUSA

Con atto di citazione, notificato in data 22.3.2005, R.M., R.G. e B.N. convenivano in giudizio dinanzi al Tribunale di Rieti D.M. ed esponevano: di essere proprietari di un locale destinato a negozio in Leonessa, adiacente a un’area condominiale, a sua volta confinante con la proprietà del convenuto; che questi aveva realizzato un garage che occupava in parte l’area condominiale; che era stato successivamente sopraelevato e che tutto il fabbricato nel suo complesso risultava edificato in violazione delle distanze legali. Gli attori chiedevano, dunque, la demolizione del fabbricato o il suo arretramento, con la condanna risarcimento dei danni.

Si costituiva in giudizio il convenuto, il quale contestava la partecipazione degli attori alla comproprietà dell’area condominiale in quanto “di proprietà comune fra i soli proprietari del piano interrato con accesso dalla rampa su (OMISSIS)”; eccepiva che il manufatto era stato realizzato nel 1984 e che quindi era maturato il termine per l’usucapione; chiedeva pertanto il rigetto della domanda.

Istruita la causa con produzione di documenti ed espletata CTU, con sentenza n. 283/2010, il Tribunale di Rieti condannava il convenuto all’arretramento del fabbricato sino a riportarlo a distanza legale nella misura indicata nella CTU; dichiarava il difetto di legittimazione degli attori circa la domanda relativa all’area condominiale; compensava per 1/3 le spese di lite.

Avverso la sentenza proponeva appello il D., convenendo in giudizio i soli signori R., anche quali eredi di B.N., deceduta nel corso del giudizio di primo grado; lamentava che la CTU, le cui conclusioni erano state recepite dal Tribunale, non aveva tenuto conto che la porzione di fabbricato edificata nel 1984 risultava totalmente interrata e aveva erroneamente considerato quale “piano di campagna” lo spazio di manovra ai piani interrati e non invece il livello del piano stradale; censurava la sentenza nella parte relativa alla regolamentazione delle spese di lite.

Si costituivano in giudizio gli appellati, i quali contestavano le doglianze di controparte e proponevano appello incidentale in ordine al rigetto della domanda relativa all’area comune e all’omessa pronuncia circa la domanda di risarcimento dei danni.

Con sentenza n. 977/2016, depositata in data 15.2.2016, la Corte d’Appello di Roma rigettava l’appello principale e quello incidentale compensando le spese di lite. In particolare, la Corte d’Appello evidenziava che l’appellante non aveva riproposto l’eccezione di usucapione e che non risultava oggetto di contestazione che le distanze minime tra gli edifici, per le parti che non potessero considerarsi interrate, dovessero essere di 10 metri. Il Giudice di secondo grado sottolineava che nel caso di costruzioni edificate a partire dal medesimo piano fosse a questo che si dovesse fare riferimento ai fini dell’applicazione del regime delle distanze e il fatto che tale piano fosse sottostante a quello stradale non significava che le parti potessero procedere all’edificazione di costruzioni in violazione dei principi dettati in tema di distanze. Ne’ risultavano fondati i rilievi circa una carenza di interesse degli appellati rispetto alla rilevata violazione, sia perché il terrazzo di proprietà R. è collocato a soli m. 7,15 dal fabbricato del D. (essendo giurisprudenza costante che le terrazze debbano essere ricomprese nel concetto di costruzioni: Cass. n. 1556 del 2005), sia perché, in ipotesi di edificio in Condominio, tutti i condomini sono legittimati ad agire per far valere il rispetto delle disposizioni sulle distanze (Cass. n. 21480 del 2012). La Corte territoriale, inoltre, rigettava il primo motivo di appello incidentale con il quale i R. censuravano l’omessa considerazione da parte del Tribunale dell’invasione, per effetto della realizzazione dell’edificio del D., di spazi ulteriori rispetto a quelli qualificati come “area di manovra”. Anche il secondo motivo di appello incidentale, relativo al mancato accoglimento della domanda di risarcimento danni, era respinto in quanto la liquidazione equitativa presuppone la prova che sia stato obiettivamente impossibile o particolarmente difficile dimostrare il danno nel suo preciso ammontare.

Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione D.M. in base a due motivi. Resistono R.M. e G. con controricorso.

Diritto

RAGIONI DELLA DECISIONE

1. – Con il primo motivo, il ricorrente lamenta la “Violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 4”, deducendo che la sentenza impugnata sia incorsa in un vizio di mancanza della motivazione o di motivazione apparente, là dove ha postulato trattarsi di costruzioni edificate “a partire dal medesimo piano”, escludendo che ricorresse una ipotesi di fabbricati “posti su piani diversi” e quindi omettendo qualsiasi argomentazione che permetta di comprendere sulla base di quali elementi la Corte territoriale abbia tratto un tale convincimento. Il fatto che i fabbricati frontistanti, una volta realizzati, possano essere impostati al medesimo piano (come nella fattispecie risultante dalla CTU) non conduce ad affermare apoditticamente che questi siano stati edificati “a partire dal medesimo piano” e ad escludere che siano stati “posti su piani diversi”. Il ricorrente rileva dunque che nella sentenza impugnata manca il pur minimo riferimento alla situazione dei luoghi quale risultante nei diversi momenti in cui le costruzioni frontistanti sono state realizzate e, segnatamente, al livello naturale dei relativi fondi (cd. piano di campagna) a partire dal quale le stesse sono state effettivamente erette e rispetto al quale, per principio giurisprudenziale della Suprema Corte, deve essere riscontrata la sporgenza di un manufatto dal suolo, quale requisito necessario perché lo stesso sia soggetto alle disposizioni sulle distanze legali (Cass. n. 3534 del 1983; Cass. n. 13529 del 1992; Cass. n. 5450 del 1998). Su tali aspetti, secondo il ricorrente è mancata ogni verifica istruttoria (come risulta dalla precisazione del CTU contenuta a pag. 6 della relazione di chiarimenti), ove egli afferma che “nessun accertamento sull’epoca di costruzione dei fabbricati è stato oggetto di apposita richiesta”.

1.1. – Il motivo e’, in parte, inammissibile.

1.2. – I controricorrenti R. rilevano in primo luogo che controparte, nel tentativo di superare le sopravvenute restrizioni imposte dalla nuova formulazione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, prospetta una violazione di legge (dell’art. 132 c.p.c., n. 4) lamentando che il Giudice d’appello avrebbe trascurato una concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto.

Orbene va, innanzitutto, osservato che il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un’erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l’allegazione di un’erronea valutazione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione (peraltro, entro i limiti del paradigma previsto dal nuovo testo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5). Il discrimine tra l’una e l’altra ipotesi è segnato dal fatto che solo quest’ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Cass. n. 24054 del 2017; ex plurimis, Cass. n. 24155 del 2017; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2016).

Quando nel ricorso per cassazione viene denunziata violazione o falsa applicazione di norme di diritto, di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, giusta il disposto di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4, il vulnus deve essere dedotto, a pena d’inammissibilità, mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, non risultando altrimenti consentito alla Corte di Cassazione di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. n. 15177 del 2002; Cass. n. 1317 del 2004; Cass. n. 635 del 2015). Risulta, quindi, inammissibile, la deduzione di errori di diritto configurati (come nella specie) per mezzo della sola indicazione delle norme pretesamente violate, ma non dimostrati attraverso una circostanziata critica delle soluzioni concrete adottate dal giudice del merito nel risolvere le questioni giuridiche poste dalla controversia, operata nell’ambito di una valutazione comparativa con le diverse soluzioni prospettate nel motivo e non attraverso la mera contrapposizione di queste ultime a quelle desumibili dalla motivazione della sentenza impugnata (Cass. n. 11501 del 2006; Cass. n. 828 del 2007; Cass. n. 5353 del 2007; Cass. n. 10295 del 2007; Cass. 2831 del 2009; Cass. n. 24298 del 2016).

1.3. – Sotto altro profilo, costituisce principio consolidato di questa Corte che il novellato paradigma (nella formulazione adottata dal D.L. n. 83 del 2012, convertito dalla L. n. 134 del 2012, ed applicabile ratione temporis) consenta di denunciare in cassazione (oltre all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante) solo il vizio dell’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, ove esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. sez. un. 8053 del 2014; conf. Cass. n. 14014 del 2017; Cass. n. 9253 del 2017).

A seguito della riforma del 2012 è scomparso pertanto, il controllo sulla motivazione con riferimento al parametro della sufficienza, rimanendo il controllo circa la esistenza (sotto il profilo dell’assoluta omissione o della mera apparenza) e la coerenza (sotto il profilo della irriducibile contraddittorietà e dell’illogicità manifesta) della motivazione, ossia con riferimento a quei parametri che determinano la conversione del vizio di motivazione in vizio di violazione di legge, sempre tuttavia che il vizio emerga direttamente ed immediatamente dal testo della sentenza impugnata.

Detto controllo concerne, invece, l’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza (rilevanza del dato testuale) o dagli atti processuali (rilevanza anche del dato extratestuale), che abbia costituito oggetto di discussione e abbia carattere decisivo (vale a dire che se esaminato avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori, in quanto tale, non integra l’omesso esame circa un fatto decisivo previsto dalla norma, quando il fatto storico rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie astrattamente rilevanti (Cass., sez. un., n. 19881 del 2014).

1.4. – Il primo motivo risulta altresì non fondato.

1.5. – Il ricorrente ribadiva esclusivamente che la propria costruzione nella particella (OMISSIS), come anche quella frontistante nella particella (OMISSIS), che comprende anche la proprietà R., sorgevano dal piano interrato e che la disciplina delle distanze legali poteva trovare applicazione solo con riferimento agli edifici che emergevano dal “piano di campagna” identificabile nella specie con il piano stradale.

Viceversa, la Corte d’Appello esponeva motivatamente le ragioni logico giuridiche del proprio convincimento, affermando che le costruzioni oggetto di causa, sulla base della CTU, risultavano ambedue edificate a partire dal medesimo piano, quello sottostante al piano stradale; per poi coerentemente concludere, sul rilievo che “il fatto che tale piano sia sottostante a quello stradale non significa che le parti possano procedere all’edificazione di costruzioni in violazione dei principi dettati in tema di distanze” (sentenza impugnata pag. 3).

Pertanto (lungi dal mancare, anche in questo caso, ogni verifica istruttoria) la Corte d’Appello affermava che la rilevata violazione sussistesse appieno, anche se la misurazione era stata riferita al terrazzo di proprietà R. e ciò in applicazione del costante principio giurisprudenziale secondo cui, in tema di distanze legali, rientrano nel concetto civilistico di costruzioni le parti dell’edificio, quali scale, terrazze e corpi aggettanti (Cass. n. 1556 del 2005).

2. – Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la “Violazione o falsa applicazione dell’art. 873 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3”, poiché la sentenza impugnata risulterebbe in contrasto con l’art. 873 c.c. e soprattutto con l’interpretazione che di esso ha fornito il costante orientamento della giurisprudenza della Suprema Corte, per il quale le norme in materia di distanze legali si riferiscono alla situazione dei luoghi quale risulta nel momento in cui l’opera è posta in essere e si applicano solo a quelle che emergono dal piano di campagna sul quale vengono realizzate; sicché la loro sporgenza dal suolo, quale requisito necessario perché esse siano soggette alla disposizione sulle distanze legali, va riscontrata con riferimento al piano di campagna e non al livello eventualmente inferiore cui si trovi un finitimo edificio realizzato con l’abbassamento di quel piano (Cass. n. 5450 del 1998; Cass. n. 13529 del 1992). Secondo il ricorrente, la sentenza impugnata era dunque errata perché, in contrasto con tale orientamento, aveva assunto che, ai fini dell’applicazione del regime delle distanze legali, dovesse farsi riferimento al livello in cui i fabbricati risultano posti a costruzione eseguita, anche se eventualmente inferiore al livello naturale del terreno, così facendo rientrare nel novero delle “costruzioni” rilevanti ai fini della disciplina dell’art. 873 c.c., anche quelle non emergenti dal piano di campagna.

2.1. – Il motivo non è fondato.

2.2. – Si evidenzia che il CTU aveva rilevato, in termini fattuali che il piano orizzontale era rappresentato dal primo livello sottostrada per entrambi i fabbricati che si fronteggiano e, pur trattandosi di locali seminterrati, si erano creati spazi vuoti e quindi soggetti alle disposizioni dettate dal Codice civile in materia di distanze.

A ciò va aggiunto che la giurisprudenza limita l’applicabilità della normativa sulle distanze minime ai volumi completamente interrati specificando che, di contro, i volumi seminterrati, come quelli di cui alla fattispecie, non si sottraggono affatto all’applicazione delle norme sulle distanze (Cons. Stato n. 482 del 1985).

3. – Il ricorso va pertanto rigettato. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. Va emessa altresì la dichiarazione di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater.

PQM

La Corte rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente alla refusione delle spese di lite in favore dei controricorrenti che liquida in complessivi Euro 4.100,00 di cui Euro 200,00 per rimborso spese vive, oltre al rimborso forfettario spese generali, in misura del 15%, ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 31 marzo 2021.

Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2021

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