Sentenza Sentenza Cassazione Civile n. 25851 del 16/11/2020

Cassazione civile sez. III, 16/11/2020, (ud. 09/09/2020, dep. 16/11/2020), n.25851

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FRASCA Raffaele – Presidente –

Dott. SCODITTI ENRICO – Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. FIECCONI Francesca – Consigliere –

Dott. GORGONI Marilena – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 28328-2018 proposto da:

SADEL CS DI S.B. SRL, elettivamente domiciliata in ROMA,

VIA E. GIANTURCO, 1, presso lo studio dell’avvocato ANTONIO

PAZZAGLIA, rappresentata e difesa dagli avvocati DOMENICO COLACI, e

CLAUDIA PARISE;

– ricorrente –

contro

REGIONE CALABRIA, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA SABOTINO 12,

presso lo studio dell’avvocato GRAZIANO PUNGI’, rappresentata e

difesa dall’avvocato ROBERTA VENTRICI;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 260/2018 della CORTE D’APPELLO di CATANZARO,

depositata il 08/02/2018;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del

09/09/2020 dal Consigliere Dott. MARILENA GORGONI.

 

Fatto

RILEVATO

che:

La società SADEL CS ricorre per la cassazione della sentenza n. 260/2018, della Corte d’Appello di Catanzaro, articolando nove motivi.

Resiste con controricorso la Regione Calabria.

La società SADEL, premesso di avere in gestione la Residenza sanitaria per anziani denominata (OMISSIS), nonchè di essere soggetto autorizzato, D.Lgs. n. 502 del 1992, ex art. 8 ter all’esercizio di attività sanitaria per conto e a carico del SSN, rappresenta di aver sottoscritto con l’ASP di Cosenza, il 9 agosto 2011, il contratto destinato a regolamentare il rapporto riguardante l’erogazione delle prestazioni autorizzate per conto e a carico del servizio sanitario nazionale a fronte di una remunerazione secondo le tariffe vigenti, costituite da una quota sanitaria a carico del SSN ed erogata tramite l’ASP di competenza – destinata a coprire i costi del personale e di tutti gli altri fattori produttivi – e da una quota sociale, pari al 30%, gravante sul Fondo sociale regionale, utilizzata per far fronte all’insieme dei costi correlati ai servizi alberghieri.

Non avendo percepito la quota sociale relativa alle prestazioni di assistenza residenziale erogate nel 2011, agiva in giudizio ai sensi dell’art. 702 bis c.p.c. nei confronti della Regione Calabria, chiedendone la condanna al pagamento di Euro 262.802,22, al netto degli interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002, sulla scorta del contratto o, in via subordinata, ai sensi dell’art. 2041 c.c..

Costituitasi in giudizio, la Regione Calabria deduceva la invalidità del contratto, sostenendo di non averlo mai sottoscritto e affermando che non esso rispettava le regole di evidenza pubblica, contestava la domanda formulata in via subordinata dalla società SADEL e l’applicabilità alla fattispecie degli interessi moratori di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002.

Il Tribunale di Catanzaro, con ordinanza assunta il 14 marzo 2015, condannava la Regione Calabria a pagare alla società SADEL la somma di Euro 262.802,22, oltre agli interessi ex D.Lgs. n. 231 del 2002 ed alle spese di lite, e ordinava la trasmissione degli atti alla Procura presso la competente Sezione regionale della Corte dei Conti, per valutare l’eventuale danno erariale commisurato almeno agli interessi moratori.

In particolare, il Tribunale rilevava che, secondo la LR Calabria n. 24/2008, art. 13, solo le Aziende Sanitarie potevano stipulare accordi con le strutture private e che, invece, la Regione Calabria era solo chiamata a partecipare alla copertura delle quote per le spese di degenza determinate, dalla L.R. Calabria n. 29 del 2002, art. 3 e dalla L.R. Calabria n. 22 del 2007, artt. 17 e 18 nella misura del 30% nel caso di RSA per anziani; riteneva infondata l’eccezione di nullità del contratto per difetto di forma scritta, perchè il D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 quinquies secondo cui la Regione e le Unità sanitarie locali stipulano contratti con le strutture sanitarie private, doveva essere letto in combinato disposto con la L.R. Calabria n. 24 del 2008, art. 13 che aveva attribuito tale compito alle Aziende Sanitarie, rigettava anche l’eccezione di nullità del contratto per violazione delle norme imperative per la programmazione sanitaria nonchè per la mancata indicazione di spesa e della copertura finanziaria, in ragione dell’intervento della Corte Costituzionale che, con sentenza n. 159/13, aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale della L.R. Calabria n. 15 del 2008, art. 16, comma 2, e perchè la necessaria copertura finanziaria era ancorata ai tetti di spesa stabiliti con D.G.R. richiamati espressamente nel contratto nonchè nella previsione contrattuale del volume massimo delle prestazioni erogabili e del tetto di spesa fissato; determinava il quantum debeatur sulla scorta delle fatture munite di attestazione di regolarità contabile rilasciata dalla ASP; escludeva che vi fossero ragioni per negare l’applicabilità della disciplina sul ritardo nei pagamenti nell’ambito del rapporto commerciale, sussistendone il requisito oggettivo e quello soggettivo; negava rilievo al D.P.R. n. 70 del 2011 che dichiarava non applicabile il D.Lgs. n. 231 del 2002, perchè non vincolante per il giudice e suscettibile di disapplicazione, ex art. 101 Cost., comma 2.

La Regione Calabria impugnava l’ordinanza, adducendo la ricorrenza di apposite Linee Guida, approvate con Delib. Giunta Regionale n. 685 del 2002, statuenti la partecipazione necessaria del Dirigente Generale del Dipartimento Politiche Sociali della Regione, in quanto unico soggetto abilitato a impegnare le somme dell’apposito capitolo di bilancio afferente il Fondo sociale, per l’assunzione di impegni contrattuali con gli erogatori privati, con la conseguente irrilevanza del successivo L.R. Calabria n. 24 del 2008, art. 13 che demandava tale compito alle Aziende Sanitarie, in quanto le Linee Guida, non essendo mai state revocate e/o annullate, costituivano fonte regolamentare vincolante per la Regione Calabria; eccepiva la illegittimità dell’ordinanza in quanto resa in violazione dell’art. 1173 c.c. che esclude la ricorrenza di un’obbligazione ex lege in presenza di un contratto nonchè in violazione dell’art. 81 Cost., secondo il quale nessuna legge statale o regionale può costituire valida fonte diretta di obbligazioni a carico dei bilanci delle amministrazioni pubbliche in difetto dell’indicazione della misura e della copertura dell’impegno finanziario richiesto; insisteva per la nullità, ai sensi dell’art. 1418 c.c., del contratto, perchè esso non conteneva le indicazioni di spesa e di copertura finanziaria e quindi non avrebbe potuto produrre effetti nei confronti dell’amministrazione contraente; contestava il quantum, stimandolo errato ed illegittimo, e denunciava la violazione e falsa applicazione del D.Lgs. n. 231 del 2002 oltre ad un asserito difetto di giurisdizione del giudice ordinario in ordine alla disapplicazione di un atto autoritativo, al difetto di contraddittorio nei confronti del Commissario ad acta per il piano di rientro dal disavanzo sanitario regionale e alla contraddittorietà ed illogicità della motivazione, perchè la natura concessoria del rapporto instaurato, a seguito dell’accreditamento, avrebbe dovuto precludere la sua riconducibilità ad una transazione commerciale da sottoporre alla disciplina di cui al D.Lgs. n. 231 del 2002. In particolare, la retta pagata avrebbe dovuto considerarsi un rimborso, meglio un contributo pubblico, volto a coprire la parte a carico degli utenti. Per di più, asseriva che il Decreto n. 70 del 2011 del Presidente della Giunta Regionale che aveva stabilito la non applicabilità di questa specifica normativa alle fattispecie come quella per cui è causa non avrebbe potuto essere nè annullato nè disapplicato dal giudice ordinario.

La società SADEL, costituitasi in giudizio, evidenziava la infondatezza dell’appello e richiamava le numerose decisioni del Tribunale di Catanzaro che avevano accolto le istanze di pagamento delle strutture sociosanitarie calabresi costrette, nel 2008, a rivolgersi all’Autorità giudiziaria per ottenere quanto dovuto dalla Regione a titolo di quota sociale.

Con la sentenza n. 260 del 2018, oggetto dell’odierno ricorso, la Corte d’Appello di Catanzaro accoglieva il gravame, considerando fondato il primo motivo di appello, dichiarava assorbiti gli altri; pertanto, in riforma dell’impugnata ordinanza, condannava la parte appellata alla restituzione di quanto ricevuto in esecuzione del provvedimento impugnato oltre agli interessi dalla data del pagamento. Segnatamente, la Corte d’Appello poneva a fondamento dell’accoglimento della pretesa dell’appellante alcune decisioni della Corte di legittimità, in particolare la n. 11925/2017 e la n. 11922/2017, sopravvenute nel corso del giudizio di appello, secondo le quali non esisterebbe, con riguardo alla cosiddetta quota sociale, un obbligo di pagamento ex lege a carico della Regione.

La trattazione del ricorso è stata fissata in Camera di Consiglio ai sensi dell’art. 380 bis c.p.c., n. 1 e non sono state depositate conclusioni scritte da parte del PM.

Diritto

CONSIDERATO

che:

1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 502 del 1992, art. 8 quinquies in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

2.Con il secondo motivo la ricorrente censura la sentenza gravata per violazione e/o falsa applicazione della L.R. Calabria n. 24 del 2008, art. 13 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

3.Con il terzo motivo la ricorrente imputa al giudice a quo la violazione o falsa applicazione della L.R. Calabria n. 22 del 2007, artt. 17 e 18 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

4.Con il quarto motivo la ricorrente rileva la violazione e/o falsa applicazione della L.R. Calabria n. 11 del 2015, art. 5, comma 3 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

5.Con il quinto motivo la ricorrente imputa alla sentenza gravata la violazione o falsa applicazione del D.L. 27 agosto 1993, n. 324, art. 1, comma 10, convertito in L. 27 ottobre 1993, n. 423, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

6. Con il sesto motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione della L.R. n. 69 del 2012, art. 41, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3.

7. Con il settimo motivo la ricorrente assume la violazione o falsa applicazione della L.R. n. 47 del 2011, art. 49, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3.

8. Con l’ottavo motivo la ricorrente lamenta la violazione e/o falsa applicazione della L.R. n. 12 del 2015, art. 2, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3.

9. I primi otto motivi possono essere esaminati congiuntamente, perchè sono accomunati da un medesimo filo conduttore che trova conferma, oltretutto, nel fatto che le censure, pur essendo state disarticolate in otto punti, corrispondenti ad altrettante denunce di errores in iudicando, sono state illustrate unitariamente dalla ricorrente.

La tesi sostenuta dalla SADEL si fonda essenzialmente sui seguenti punti:

a) la Regione avrebbe dovuto essere considerata obbligata a corrispondere alle RSA il 30% della retta, come riconosciuto indirettamente dalla L.R. n. 11 del 2005, art. 5, comma 3, che individua nel Dipartimento Politiche sociali il soggetto tenuto a curare le iniziative necessarie a sanare il debito pregresso con le strutture socio-sanitarie accreditate, creditrici della controprestazione di quanto erogato sulla base di accordi stipulati per delega dalle ASP di appartenenza, entro i limiti prestabiliti dalla Regione, parte sostanziale di detti accordi, quantomeno in termini di garante dell’adempimento dell’azienda delegata alla stipula;

b) anche l’applicazione della decisione n. 11925/2017, di cui la Corte d’Appello avrebbe ripreso pedissequamente il testo, non avrebbe dovuto condurre all’esclusione dell’obbligazione di pagamento a carico della Regione, al contrario, avrebbe dovuto avere come effetto l’affermazione in capo all’Ente regionale della titolarità diretta del rapporto giuridico per cui è causa, giusta il fatto che la decisione aveva riconosciuto tra i compiti della Regione anche quello di ripartire le risorse economiche volte alla realizzazione degli impegni di spesa assunti nei confronti delle strutture private accreditate: il che inevitabilmente avrebbe dovuto indurre la Corte d’Appello a ritenere che la Regione avesse un ruolo attivo nella determinazione del contenuto e nella esecuzione dei rapporti convenzionali con le strutture private accreditate, a differenza delle Asl, cui era evidentemente delegato il ruolo di esecutrici materiali dell’accordo; vieppiù in considerazione della L.R. n. 24 del 2008, art. 3, comma 6, a mente del quale “per il settore socio sanitario, le attività gestionali disciplinate dalla legge sono svolte d’intesa con le strutture regionali competenti in materia di politiche sociali, sulla base di un apposito protocollo operativo, di carattere generale, assunto con delibera di giunta regionale, previo parere della commissione consiliare competente da esprimere entro 15 giorni dalla data di assegnazione del provvedimento”.

A supporto di tali conclusioni, la ricorrente, dopo aver puntualmente ricostruito la cornice normativa nazionale e regionale di riferimento, assume che la Corte d’Appello:

a) non abbia fatto corretta applicazione della normativa, male interpretando il D.L. n. 324 del 1993, art. 1, comma 10, per il quale, nei rapporti con le strutture private convenzionate, si deve considerare debitore inadempiente l’ente incaricato del pagamento del corrispettivo, anzichè la ASL;

b) abbia travisato la giurisprudenza di legittimità, soprattutto la decisione n. 12295/2017, applicandola erroneamente al caso di specie, escludendo, in ragione della delega di ogni potere di intervento diretto in materia di assistenza socio-sanitaria alle ASL, che la Regione avesse compiti diversi da quelli di programmazione, coordinamento e vigilanza, compresa la ripartizione tra le AsI delle risorse economiche;

c) senza un’adeguata motivazione, oltre che erroneamente, abbia ritenuto che in tali disposizioni non vi fosse alcun riferimento alle possibili forme di responsabilità della Regione;

d) abbia violato le disposizioni regionali di natura finanziaria regolanti l’istituzione e il funzionamento del fondo regionale in materia socio sanitaria – L.R. n. 69 del 2012, L.R. n. 47 del 2011, L.R. n. 12 del 2015 – avente la funzione primaria di sostenere finanziariamente una percentuale delle prestazioni socio-sanitarie erogate dalle strutture accreditate, ritenendo irragionevolmente e senza motivazione che esse non contenessero alcun riferimento a possibili forme di responsabilità della Regione ed avrebbe omesso di leggere la normativa regionale in parallelo con il D.L. n. 324 del 1993 convertito in L. n. 423 del 1993, così non avvedendosi della ricorrenza dell’obbligo della Regione di pagare il 30% delle prestazioni erogate dalle strutture accreditate.

9. I motivi sono infondati per le seguenti ragioni: a prescindere dal fatto che la loro formulazione non è sempre tale da individuare gli errori in cui sarebbe incorsa la Corte distrettuale, perchè la ricorrente spesso si limita a proporre una propria interpretazione della legislazione regionale di riferimento o ad affermare assertivamente che essa sarebbe stata erroneamente applicata, ma trascura di rendere, come invece avrebbe dovuto, intellegibili le ragioni per le quali l’interpretazione della Corte distrettuale risulterebbe erronea o non in linea con la giurisprudenza di legittimità e/o con le tesi della più accreditata dottrina – è pacifico e merita di essere ribadito che non basta indicare una serie di disposizioni nell’epigrafe del motivo di ricorso, limitandosi a paventarne l’erronea applicazione, perchè esso raggiunga il suo scopo cassatorio, giacchè, se l’errore c’è, esso deve essere anche puntualmente individuato, ne deve essere spiegata la consistenza e si deve dare contezza della soluzione corretta basandola non su asserzioni o interpretazioni soggettive, ma su principi di legittimità o tesi dottrinarie – la decisione della Corte territoriale è in sintonia con una giurisprudenza di legittimità più volte pronunciatasi in modo omogeneo sul tema.

Può partirsi dalle decisioni di legittimità del 2017, cui ha fatto riferimento la sentenza impugnata per fondare la propria statuizione, unite alle numerose altre, compreso il recente decisum di questa sezione n. 7745 dell’8/04/2020.

Tenuto conto delle modalità di gestione del Fondo sociale regionale e delle modalità di instaurazione de rapporti con le strutture pubbliche e private abilitate alla prestazione dei servizi sociosanitari, nelle due decisioni del 2017 riferite – le quali erano state anticipate da Cass. 31/10/2016, nn. 22037, 22038 e 22039; Cass. 11/11/2016, n. 23067) – questa Corte aveva tratto la conclusione che le risorse del Fondo sociale regionale venissero gestite direttamente dal Settore Politiche Sociali della Regione soltanto nella misura del 10% destinata alla realizzazione di progetti innovativi e sperimentali ed al finanziamento dell’aggiornamento e della formazione degli operatori pubblici e privati, mentre per il restante 90% fossero ripartite annualmente tra i Comuni, per il cofinanziamento della realizzazione dei Piani di zona, per l’esercizio delle funzioni amministrative concernenti gli interventi sociali svolti a livello locale, per l’erogazione dei servizi, delle prestazioni economiche e delle attività assistenziali, per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza sui servizi sociali e sulle strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale. Alla Regione spetterebbero solo funzioni di programmazione, indirizzo e coordinamento, comprendenti, tra l’altro, la definizione dei criteri per l’autorizzazione, l’accreditamento e la vigilanza delle strutture e dei servizi sociali, e la definizione dei criteri per la determinazione delle tariffe corrisposte dai Comuni ai soggetti accreditati. Proprio in considerazione di questa distinzione di competenze, la Giunta regionale, con Delib. 8 ottobre 2007, n. 670, provvide a trasferire ai Comuni le risorse del Fondo Sociale finalizzate a soddisfare le obbligazioni derivanti da atti autorizzativi della Regione nei confronti delle strutture residenziali e semiresidenziali convenzionate, impegnando gli stessi a subentrare nei rapporti di cui alle convenzioni in atto, ed a trasferire le risorse rimanenti ai Comuni capofila dei Distretti Socio Sanitari, perchè fossero utilizzate in relazione ai bisogni sociali del territorio di competenza.

La modifica del D.Lgs. n. 502 del 1992 per mano del D.Lgs. n. 229 del 1999 che, introducendo la nozione d’integrazione sociosanitaria, aveva provveduto anche alla ridefinizione dell’istituto dello accreditamento, aveva demandato alle Regioni la disciplina degli accordi contrattuali con le strutture pubbliche e private accreditate.

La Regione Calabria, dapprima con una disciplina provvisoria, rappresentata dalla L.R. 7 agosto 2002, n. 29, art. 3, che rimetteva alla Giunta regionale l’approvazione degli schemi tipo relativi agli accordi e ai contratti di cui all’art. 8-quinquies, attribuendone la stipulazione ai Direttori Generali delle Asl competenti per territorio, e successivamente con la L.R. n. 24 del 2008, la quale aveva ridefinito, a sua volta, la disciplina dell’accreditamento, in conformità con l’art. 8 quater (art. 11), confermava il conferimento alle ASL della legittimazione a stipulare gli accordi con le strutture pubbliche ed i contratti con le strutture private e a rinnovava l’affidamento alla Giunta regionale del compito di predispone con proprio regolamento i relativi schemi, attribuendole, in aggiunta, quello di definire lo schema di riparto delle risorse tra le aziende sanitarie ed ospedaliere, distinte per tipologie di prestazioni sanitarie e socio-sanitarie.

Alla stregua di tale disciplina, la conclusione della Corte è stata nel senso che dovesse escludersi che l’esecuzione delle prestazioni rese in favore degli assistiti avesse fatto sorgere obbligazioni a carico della Regione. Il fatto che il 30% della tariffa gravasse sul Fondo Sociale Regionale non poteva comportare una responsabilità diretta a carico della Regione nei confronti delle strutture accreditate, essendo destinato ad assumere rilievo esclusivamente sul piano interno dei rapporti finanziari tra Regione ed ente erogante, escludendo, in assenza di una disposizione di legge comportante un vincolo per l’Ente Regionale di instaurare rapporti con i terzi, ogni obbligo della Regione, rimasta estranea alla concreta gestione dei servizi socio-sanitari, di provvedere, sia pure parzialmente, al pagamento delle rette.

Più specificamente, è stato ritenuto pacifico che nè la LR. n. 23 del 2003, art. 7, riferibile esclusivamente ai rapporti finanziari interni all’area dei servizi sociosanitari, nè la L.R. n. 24 del 2008, art. 13 il quale esclude l’efficacia diretta di tali contratti nei confronti della Regione (cfr. Cass. 31/10/2016, nn. 22037, 22038 e 22039; Cass. 11/11/2016, n. 23067) e tantomeno la Delib. n. 685 del 2002 siano fonte di instaurazione ex lege da parte della Regione Calabria di rapporti con i terzi (in tal senso, con specifico riferimento alla funzione della Delib. Giunta Regionale, cfr. Cass. 05/07/2018, n. 17587).

Non solo: il preambolo della Delib. n. 685 del 2002, nella parte in cui si riferisce alla Delib. 10 ottobre 2000, n. 643, con cui, richiamando il D.Lgs. n. 502 del 2002, art. 3 septies, era stato previsto lo stanziamento in bilancio di maggiori somme per il pagamento delle rette da parte delle ASL in favore delle strutture sociosanitarie private, e l’allegato alla stessa che subordinava la validità degli accordi contrattuali alla sottoscrizione anche da parte del Dirigente Generale del Dipartimento della Regione Calabria, o di un suo delegato, ma precisava che la documentazione relativa al pagamento doveva essere inviata alle ASL, erano state ritenute una conferma del fatto che il corrispettivo, anche per la quota da imputarsi al Fondo sociale regionale, fosse a carico delle ASL e non della Regione Calabria, anche là dove quest’ultima avesse con un proprio atto amministrativo stabilito le condizioni di validità degli accordi in questione sulla base delle competenze previste dalla disciplina legislativa di settore.

Deve essere ribadita, dunque, la conclusione più volte affermata da questa Corte (adde alla giurisprudenza richiamata anche Cass. 12/05/2017, n. 11924; Cass. 5/07/2018, n. 17587; Cass. 28/02/2019, n. 5982) nel senso della estraneità della Regione Calabria alla concreta gestione dei servizi sociosanitari e soprattutto dell’irriferibilità ad essa degli effetti degli atti posti in essere dalle ASL e deve confermarsi in capo alla Regione Calabria solo la competenza riguardante la sfera della programmazione, del coordinamento e della vigilanza sugli enti operanti nel settore.

Si tratta, come pure è stato specificato da questa Corte, di una precisa scelta della Regione Calabria, perchè se è vero che “il sistema sanitario nazionale istituito con la L. n. 833 del 1978, è stato attuato attraverso il D.Lgs. n. 502 del 1992, che ha “regionalizzato” la sanità”, “le diversità strutturali ed il minore o maggiore accentramento delle competenze devono essere ricercati all’interno delle differenti legislazioni regionali attraverso le quali, tenendo conto delle specifiche caratteristiche territoriali, è stata riorganizzata sia la struttura operativa sanitaria locale che l’esercizio delle funzioni amministrative necessarie per il suo funzionamento” (cfr. Cass. 17587/ 2018, cit.).

Mette conto precisare che questo Collegio ritiene che non costituisca un precedente atto a giustificare un mutamento dell’indirizzo riferito, che si vuol qui ribadire, il recente decisum n. 11258 dell’11/06/2020, il quale ha rigettato il ricorso proposto dalla Regione Calabria avverso la sentenza n. 687/2014 della Corte d’Appello di Catanzaro che l’aveva condannata al pagamento delle prestazioni socio-sanitarie rese dalla struttura che gestiva una RSA per la quota parte del 30 A), con la seguente motivazione: “Occorre premettere che la sentenza impugnata fonda la propria decisione sul disposto della L.R. Calabria 18 luglio 2008, n. 24, art. 13, comma 2, il quale recita: “Le aziende sanitarie definiscono gli accordi con le strutture pubbliche ed equiparate e stipulano contratti con quelle private sulla base dei piani annuali preventivi e della valutazione dei bisogni di prestazione, nell’ambito dei livelli di spesa, dei livelli assistenziali stabiliti dalla programmazionè”.

Le Aziende Sanitarie sono quindi i soggetti legittimati dalla legge alla stipula dei contratti in ossequio ai piani annuali preventivi ed ai livelli di spesa regionali e tale contratti, pur stipulati da soggetto diverso dalla Regione per legge deputato allo scopo, producono i loro effetti nella sfera giuridica della Regione Calabria.

La norma sopra riportata autorizza infatti a ritenere che il Legislatore abbia inteso determinare la produzione nell’ambito della sfera giuridica della Regione Calabria, degli effetti derivanti dal contratto sebbene non sottoscritto da un Dirigente Regionale ma dall’Azienda Sanitaria.

Ciò in quanto l’onere di pagamento della spesa relativa alle prestazioni rese agli Anziani in residenze sanitarie assistite (categoria cui appartiene la controricorrente) deve essere imputato per una parte pari al 30 A) comprensiva anche della quota-utente al Fondo sociale Regionale e per il restante 70% a carico del Fondo Sanitario Regionale. Pertanto, nel caso in cui l’inadempimento abbia ad oggetto la quota parte gravante sul Fondo sanitario Regionale la legittimazione passiva spetta necessariamente all’Azienda sanitaria firmataria del relativo contratto mentre nella diversa ipotesi in cui l’inadempimento ricade sulla quota percentuale c.d. “quota sociale” espressamente richiamata all’art. 7, comma 1 del contratto stretto tra A.S.P. di Catanzaro e Fondazione Betania Onlus posta dalla L.R. Calabria n. 22 del 2007, a carico del Fondo Sociale Regionale gestito dalla Regione, quest’ultimo è il soggetto incaricato del pagamento.

Quanto sopra risulta confermato dalla Delib. Giunta Regionale 30 luglio 2002 n. 685, atto idoneo a spostare la titolarità passiva dell’obbligazione dedotta in giudizio (“quota sociale”) dall’Azienda sanitaria territorialmente competente e firmataria del relativo contratto sulla Regione Calabria”.

Tale statuizione non risulta supportata da una motivazione atta a superare l’indirizzo giurisprudenziale riferito, nè, in verità, con detto indirizzo si confronta, sia con riferimento all’idoneità di una delibera di giunta regionale a determinare il ritenuto spostamento della titolarità passiva dell’obbligazione assunta sia avuto riguardo per la peculiare scelta adottata dalla Regione Calabria di riorganizzazione amministrativa del suo sistema sociosanitario, posta alla base della ritenuta irriferibilità all’Ente regionale dell’adempimento delle obbligazioni gravanti sul Fondo sociale regionale.

10. Con il nono ed ultimo motivo la ricorrente rimprovera alla sentenza impugnata di essere incorsa in un error in procedendo e di aver falsamente applicato e/o interpretato la L.R. n. 23 del 2003, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per avere artatamente applicato le due sentenze di legittimità richiamate in motivazione, senza considerare che dette pronunce sono incentrate sulla disciplina enunciata dalla LR Calabria n. 23/2005, avente ad oggetto il riordino degli interventi e del servizio socio-assistenziale e quindi del tutto inconferenti rispetto ai rapporti per cui è causa intercorsi con una struttura socio-sanitaria, ed omettendo l’esame della legislazione regionale e nazionale pertinente.

Il motivo è infondato.

La giurisprudenza di questa Corte ha ripetutamente ritenuto vano il tentativo di ipotizzare, con riferimento alla Regione Calabria, un trattamento differente secondo che a venire in esame siano solo prestazioni socioassistenziali, poste interamente a carico del Fondo Sociale Regionale, ovvero prestazioni sociosanitarie poste in parte a carico del predetto Fondo e in parte a carico del Fondo Sanitario regionale, stante, per un verso, l’unificazione del settore derivante dal processo d’integrazione del sistema sociosanitario avviato dal D.Lgs. n. 229 del 1999, per l’altro il tenore letterale della Delib. n. 670 del 2017, “che, nel disporre il trasferimento ai Comuni delle risorse del Fondo Sociale Regione Calabria, per come definito dalla L.R. n. 23 del 2003, art. 34, fa espressamente riferimento, alla lett. a), “alle quote finalizzate a soddisfare le obbligazioni derivanti da atti autorizzativi da parte della Regione in favore delle strutture residenziali e semi-residenziali convenzionate”, prevedendo, come si è detto, il subingresso dei Comuni nei rapporti di cui alle convenzioni in atto” (Cass. 11/05/2017, n. 11292, n. 11293, n. 11294, n. 11295; Cass. 10/05/2017, n. 11451 e n. 11452).

10. Ne consegue il rigetto del ricorso.

11. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. 12. Si dà atto della ricorrenza dei presupposti processuali per porre a carico della ricorrente l’obbligo del pagamento del doppio del contributo unificato.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente che si liquidano in Euro 3.500,00 oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, ricorrono i presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza della Corte di Cassazione, il 9 settembre 2020.

Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2020

 

 

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